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Vita e morte: una coppia dialettica


Mirko Drazen Grmek con Bernardino Fantini

 

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Vita e morte: una coppia dialettica

 

Questa intervista fa parte dell’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, un’opera realizzata da Rai-educational in collaborazione con l’Istituto italiano per gli studi filosofici e con il patrocinio dell’Unesco, del Presidente della Repubblica Italiana, del Segretario Generale del Consiglio d’Europa.

L'obbiettivo è quello di diffondere nel mondo, tramite le nuove forme d’espressione e comunicazione sociale consentite oggi dalla tecnica, la conoscenza della filosofia nel suo svolgimento storico e nei termini vivi della cultura contemporanea.

Per ulteriori informazioni potete visitare il sito Internet: www.emsf.rai.it

Professor Grmek, lei si è interessato della morte non solo come biologo e come medico, ma anche come storico. Quali sono le ragioni di questo interesse?

Come medico e come biologo mi sono interessato al fenomeno della morte. Come storico me ne sono interessato perchè la morte è un concetto e non una realtà immediata. Insisto subito su questo punto. L’idea, il concetto della morte cambia storicamente. C’è in esso, ovviamente, anche qualcosa di immutabile. La realtà immutabile è il fatto che una struttura, con le caratteristiche particolari che consideriamo proprie del vivente, le caratteristiche biologiche del "vivo", ad un certo momento cessa di essere viva, muore. La morte è il passaggio dall’organismo al cadavere. Questa è la realtà, ma a ciò si arriva attraverso condizioni che variano storicamente. Questo passaggio si può interpretare in vari modi, come un evento, come un processo, e queste interpretazioni costituiscono il concetto della morte. Come biologo mi sono interessato al processo stesso, come storico mi sono interessato ai mutamenti e alle implicazioni filosofiche di questi mutamenti.

Dunque la morte può essere considerata sia come evento che come processo. Se noi definiamo la vita come presenza dell’anima nel corpo, come molte antiche civiltà hanno fatto, la morte si comprende e si definisce facilmente come il momento nel quale l’anima si stacca dal corpo. E’ un evento che si può datare precisamente. C’è un attimo nel quale l’anima spira, esala l’ultimo respiro: molto spesso l’anima, come vedremo, è legata al respiro. Così l’anima "parte". Quando si è scoperto che la morte di un organismo complesso può essere parziale perché una parte delle cellule che compongono un organismo multicellulare muore senza che muoia il tutto, sono subentrati i problemi della gerarchia della morte, dell morte a vari livelli ma anche dei passaggi da un livello all’altro. Se noi definiamo la morte come la fine dell’integrazione delle varie parti che compongono l’organismo vivente, non si può veramente parlare di "evento". Si tratta infatti di un processo. Per ragioni pratiche, giuridiche, sociali, però, questo è inammissibile. Una persona deve giuridicamente morire in un dato momento.

Queste nuove definizioni, dico "nuove" perché effettivamente fino ad un certo tempo la morte era definita sempre solo come un evento unico, permettono di considerare come possibile il prelievo di un organo vivo di una persona morta e il trasferimento di esso ad una persona viva nella quale invece quell’organo è morto. Se, ad esempio, una persona è considerata clinicamente morta, ma con un rene ancora funzionante, questo rene vivo può essere trapiantato in una persona che è viva come "persona", ma nella quale un rene è morto. Sono dei concetti nuovi, impensabili prima, frutto delle ricerche biologiche dell’Ottocento epoca in cui si è rivelata la possibilità della "morte parziale", ma soprattutto degli ultimi eventi in medicina. Nel 1958-59 i neurologi francesi si sono trovati davanti a casi di persone che erano ancora vive secondo i vecchi criteri, ma che avevano caratteristiche tali che non si poteva veramente parlare di vita umana in senso pieno.

Come si decideva in passato che una persona era morta, quali erano i criteri per valutare la morte? I criteri della morte più antichi erano il respiro, ossia l’assenza del respiro era il segno della morte; poi i battiti del cuore: con l’invenzione di un apparecchio, lo stetoscopio, nell’Ottocento si considerava una persona "vivente" fintanto che batteva il suo cuore. Con l’introduzione di apparecchi che aiutano la respirazione si può arrivare ad una situazione particolare in cui il corpo respira, il cuore batte, il sangue circola, anche se pensiamo che non ci sia né coscienza né pensiero, ovvero nessuna reazione del sistema nervoso centrale: il cervello è distrutto. Quindi, se possiamo considerare che una persona come persona sia viva anche se un suo organo è morto, allora ovviamente consideriamo come viva una persona alla quale, ad esempio, è stata tagliata una gamba. Ma è molto difficile immaginarsi e considerare come viva una persona nella quale il cervello è distrutto. Abbiamo però casi di questo tipo. Il professor Molarek una volta presentò un paziente, il quale, essendo collegato ad apparecchi che aiutavano la sua sopravvivenza, dal punto di vista vegetativo era in vita; tutte le funzioni restavano efficienti, ma il suo cervello era distrutto. Il professore aveva detto che si trattava di un caso di coma depassé, "coma irreversibile", ma non si osava dire che la persona era morta e non lo si diceva perché essa aveva ancora funzioni vitali. Oggi, in questi casi, si parla di "morte cerebrale" e si considera questa come criterio per stabilire la morte, e ciò accade per ragioni essenzialmente pratiche.

Possiamo parlare allora di alcuni casi, anche clamorosi, che negli ultimi anni hanno riguardato la difficoltà di definire la morte ed in particolare la morte cerebrale?

Certamente, però vorrei prima premettere una cosa sull’importanza dei trapianti e soprattutto sul clamoroso successo del trapianto del cuore. Si sa che nel passato per molti filosofi e biologi il cuore era la sede dell’anima e del pensiero. In tal modo l’idea del trapianto del cuore era impressionante benché sia molto più difficile, anche teoricamente, il trapianto di fegato o quello del cervello, che per il momento è inimmaginabile. Scioccante, inoltre, era considerare che il trapianto andava fatto espiantando il cuore di una persona ancora viva, anche se in coma irreversibile. Era dunque necessario, psicologicamente, parlare del prelievo di un organo vitale, essenziale per la sopravvivenza, da un cadavere. Per questa ragione si è passati dalla definizione di "coma irreversibile" a quella di "morte cerebrale". E non è per caso che solo dopo i successi di Barnard, dopo le esperienze dei primi trapianti, tanto l’Organizzazione Mondiale della Sanità quanto l’Organizzazione Mondiale dei Medici, l’Harvard Medical School ed altre istituzioni abbiano dato una nuova definizione della morte.

Torniamo ora ai casi recenti. Il caso di Poitiers è molto interessante. Questi casi recenti illustrano molto bene i problemi, le implicazioni pratiche, l’importanza bioetica ed anche filosofica delle definizioni, delle pratiche legate alla concettualizzazione della morte. Due di questi casi mostrano come le definizioni non siano mai innocenti. A Poitiers durante un processo il problema era: in che stato si trova una persona esposta all’intossicazione con ossido di azoto, in che modo essa muore? Non si conosceva la risposta. Questa non si trovava nei manuali di medicina. Un medico allora ha fatto una sperimentazione. Ha preso una persona nello stato dichiarato di "coma irreversibile" ed ha mostrato come la morte interviene in questa determinata situazione. Per dare un peso definitivo, dimostrativo, a questo esperimento, il medico doveva considerare che questa persona non era morta all’inizio dell’esperimento stesso, in quanto si trovava nello stato di coma irreversibile. Si poteva anche dire che questa persona era già morta, ma, chiaramente, dire ciò non avrebbe dato consistenza alla dimostrazione.

Immediatamente la reazione fu violenta tanto da parte dell’opinione pubblica che da parte degli organi ufficiali, visto che si trattava di una sperimentazione su una persona viva, cosa non ammessa. Questo medico avrebbe potuto semplicemente dichiarare ufficialmente morto questo paziente affinché non ci fosse nulla da ridire. Un altro caso si è verificato a Pavia. Si trattava di una persona teoricamente e praticamente morta. Ma essendo incinta di un feto ancora vivente, il quale è stato estratto mediante la resezione cesarea, non si osava parlare di morte. Tutti i giornali parlavano di coma benché la persona fosse morta. La cosa, molto grave, si spiega col fatto che non si accetta di dire che un bambino è nato da una madre morta. E’ per tale motivo che, benché la definizione sia stata data in modo chiaro solo di recente, si utilizza il termine "coma". Vediamo dunque come le parole non siano innocue e quanto siano importanti i loro significati.

Qual è attualmente, dal punto di vista medico, il criterio per accertare la morte di un individuo?

Dal punto di vista legale in quasi tutti i Paesi oggi la definizione di "morte" è semplicissima: "morta" è una persona dichiarata tale da uno-due-tre medici. Dunque lo Stato, e la maggior parte delle giurisprudenze e delle leggi, per paura di essere superati dagli eventi, non definiscono più la morte. In tal modo il peso della responsabilità ricade sui medici. La morte è definita generalmente come morte cerebrale.Il criterio medico fondamentale per accertare la morte di un individuo è quindi la mancanza di attività elettrica del cervello, il che in pratica vuol dire elettroencefalogramma piatto. L’importante, però, non è dire che una persona si trova in uno stato in cui c’è perdita di coscienza, ma che questa perdita di coscienza è irreversibile. Bisogna cioè accertarsi che non ci sia nessuna speranza che la persona torni in vita. In un certo senso non esiste praticamente l’accertamento della morte a meno che non si tagli la testa o venga distrutto, a causa di un trauma terribile, il cervello. Normalmente si tratta quasi sempre di una prognosi di morte, di una predizione dell’impossibilità del ritorno alla vita, all’attività cerebrale. Anche nel caso di elettroencefalogramma piatto ci si deve accertare, per la sua attendibilità, che la persona non abbia preso barbiturici o che non si siano determinate certe altre condizioni. Questa diagnosi precoce è importante perché ovviamente la certezza assoluta si può avere dopo qualche giorno, quando cominciano i processi di putrefazione. In tale circostanza la diagnosi è sicurissima.

Il problema si pone oggi perché noi abbiamo bisogno di fare la diagnosi di morte anche quando non si è arrivati all’ultima parte di questo processo. Se noi consideriamo la morte come processo, allora solo quando l’ultima cellula dell’organismo è morta, il cadavere è veramente completo. Noi però vogliamo determinare il momento della fine quando la distruzione è arrivata al punto tale che non si può più tornare indietro. La grossa sorpresa della diagnosi di morte cerebrale è la scoperta che non è la cessazione dell’attività della parte più alta della personalità, cioè della corteccia cerebrale, a rendere irreversibile il processo di morte. Infatti si sono registrati casi di ritorno alla vita dopo la cessazione dell’attività della corteccia cerebrale. L’irreversibilità si determina, piuttosto, in un punto critico di una parte inferiore, in una specie di nodo di comunicazione nel cervello: è coinvolto certamente sempre il sistema nervoso centrale, ma non al suo più alto livello. Solo quando questa parte è lesa, non c’è più, secondo l’esperienza attuale, speranza di ritorno; la distruzione, la cessazione di attività di questa parte del cervello, viene oggi considerata, da un punto di vista medico, come il criterio di accertamento e definizione di "morte".

Quali sono stati i cambiamenti nella morte rispetto allo sviliuppo demografico e quali conseguenze ci sono state sulla concettualizzazione della morte e anche sull’atteggiamento degli individui e delle società di fronte alla morte?

C’è un vecchio detto: nulla di più certo della morte, nulla di più incerto del momento della morte. Il cambiamento consiste proprio nel fatto che questo vecchio detto, demograficamente, non vale più. Tempo addietro una persona rischiava seriamente di morire durante i primi anni di vita; la maggior parte dei bambini moriva prima di arrivare al quinto anno di vita. Passato il quinto anno, si poteva invece arrivare a una tarda età, senza sapere quando si sarebbe morti. Oggi non è più così. La grande maggioranza delle persone ha una quasi certezza di vivere fino a 70-80 anni. Prima, questo" muro" era all’inizio della vita; passato il muro, anche se si moriva presto, a trent’anni, non c’era nulla di scandaloso. Oggi, invece, se una persona muore a 35-40 anni, ad esempio una donna in seguito al parto, è una cosa scandalosa: tale morte viene avvertita come uno scandalo. Questa è una cosa completamente nuova e noi adesso, invece di avere una morte incerta, abbiamo più o meno una morte certa ad una età tardiva. Inoltre, abbiamo creato delle istituzioni particolari mediante le quali questa morte certa viene anche sottratta ai nostri occhi. Si dice che dalla "pornografia del sesso" si è passati alla "pornografia della morte".

La morte è una cosa della quale non bisogna parlare, mentre in passato essa era storicamente e socialmente "addomesticata". La gente conviveva con la morte. Quasi nessuno arrivava a trent’anni senza avere un’esperienza diretta della morte, senza aver visto morire persone attorno a sé, senza avervi partecipato. Il padre di famiglia moriva nel suo letto con i familiari intorno. Anche i cimiteri erano vicini, si trovavano in prossimità delle chiese. Adesso tutto è diverso. La gente muore in ospedale, ci sono professionisti che se ne occupano. La morte è diventata una cosa che l’uomo vuol dimenticare. Quando arriva una malattia come l’Aids che uccide i giovani, la morte è uno scandalo, è una cosa incredibile, ci si chiede come mai possa accadere.

Nelle scienze biologiche, specialmente in microbiologia, si sottolinea spesso che in realtà una linea cellulare è praticamente eterna. Essa non muore perché l’informazione contenuta in una cellula si può riprodurre all’infinito. Questo vuol dire che può esistere la vita senza la morte?

Vita e morte sono una coppia dialettica: la morte è negazione della vita, non esiste la morte se non c’è la vita e anche le definizioni filosofiche di solito prendono insieme i due termini, come nella più famosa definizione di Bichat: "La vita è l’insieme delle forze che si oppongono alla morte". Ma la definizione della vita come processo, evento, o altre definizioni più moderne in termini di "cristallo", "struttura", suppongono due diversi modi di concepire la morte. Se la vita è un cristallo, aperiodico, come si dice, allora in questo caso la morte è la distruzione e l’annullamento di una struttura, la rottura di qualcosa. Se invece la vita è un processo, un insieme di reazioni chimico-fisiche, allora la morte è la cessazione di peculiari funzioni. Questa definizione è la più comune, ed in questo caso la coppia vita/morte si comprende molto bene. Ma che cosa fare se le funzioni vitali cessano e però poi riprendono? Abbiamo un terzo stato, uno stato di frontiera, di "non vita-non morte". Le strutture possono essere conservate, ma non c’è nessuna attività vitale, eppure la vita può riprendere. La biologia, le ricerche biologiche, dopo la seconda metà dell’Ottocento, hanno dimostrato la possibilità di congelare questi processi; non possiamo parlare più della vita, ma di vita latente. E’ vita in potenza, ma non è vita in atto, comunque non è morte. Nasce l’esistenza di questo terzo stato che è qualcosa di completamente nuovo anche nel pensiero filosofico .

Tuttavia, nelle scienze biologiche, specialmente in microbiologia, si sottolinea spesso che in realtà una linea cellulare è praticamente eterna. Essa non muore perché la materia, soprattutto l'informazione contenuta in una cellula, si può produrre all'infinito. Si potrebbe dire, quindi, che esiste la vita senza la morte, ma tutto, allora, verrebbe a dipendere dalla definizione di "individuo". La morte esiste sempre come una parte della vita, del processo vitale quando esiste l’individuo. Se si definisce in un certo modo, in un punto l’individuo cessa di esistere definitivamente. Se la riproduzione si fa con la divisione microbica come in certi protozoi, in questo caso non c’è cadavere, anche se l’individuo iniziale non esiste più, poiché al momento della divisione ci sono due individui diversi. Ma anche qui le cose non sono così semplici come si pensava inizialmente quando si è scoperto questo fenomeno dell’immortalità potenziale delle nostre cellule o degli esseri unicellulari. Dopo un certo numero di divisioni infatti esiste una necessità biologica di scambio di materiale genetico tra i diversi individui e questo scambio implica la morte dei due individui, la cessazione della loro esistenza individuale. Dunque anche quando si sopravvive, quando non c’è cadavere, esiste però, la cessazione dell’individuo. Altrimenti la morte non esisterebbe.

Anche nell’uomo c’è una parte che è, in senso biologico, immortale. Adesso non parlo filosoficamente, non penso all’anima, ma alla parte germinale: una parte dell’organismo umano è conservata, preservata e non funziona nella sua vita di ogni giorno, la parte genetica, le cellule sessuali, le quali non muoiono perché sopravvivono nei figli, i nostri figli sono una continuazione di noi.

Lei ha parlato anche, riguardo ai microorganismi, dell’importanza dello scambio del materiale genetico per assicurare la continuità delle linee cellulari. In questo modo la morte è in un certo senso associata con il processo di organizzazione del vivente. Qual è il significato biologico della morte?

La morte è indispensabile perché la vita possa mantenersi. E’ indispensabile perché le strutture viventi devono essere in accordo con l’ambiente, devono adattarsi ai cambiamenti dell’ambiente: se esso cambia, la vita o gli esseri viventi devono cambiare. Se la morte non esistesse non sarebbe possibile adattarsi, non solo, ma anche l’evoluzione degli esseri viventi risulterebbe impossibile. Gli esseri esistenti occuperebbero tutto lo spazio vitale. E’ necessario morire per lasciare posto alla nuova generazione e dare con ciò la possibilità che questa sia un po’ diversa della precedente. Ci sono due strategie con le quali gli esseri viventi resistono ai cambiamenti dell’ambiente e si sviluppano. Queste due strategie, scoperte solo dalla biologia moderna, sono state sentite come tali, individuate già in modo intuitivo dai filosofi e dai letterati, dai poeti di tutti i tempi. Si tratta della coppia Eros e Thanatos, sesso e morte: la morte, Thanatos, lascia posto alla nuova generazione e l’amore, Eros, permette lo sviluppo con l’accoppiamento di due individui diversi, delle informazioni portate dai due, consentendo, da un lato, l’eliminazione degli errori che si sono accumulati e, dall’altro, l’introduzione di capacità nuove.

I mutamenti che si osservano nel concetto di "morte" sembrano rimettere in questione lo stesso statuto ontologico della morte in quanto tale. Quali sono i mutamenti che si sono verificati al riguardo dalla filosofia antica fino ai nostri giorni?

Riassumiamo prima di tutto i mutamenti del concetto in generale. In primo luogo c’è quello della coppia vita-morte, che non è così semplice poiché esiste un terzo stato. Il mutamento fondamentale concerne l’idea della morte come evento; essa viene allora concepita come un processo, come una cosa che si sviluppa in diverse fasi; in tale prospettiva è pensabile anche una gerarchia della morte. Ma questi cambiamenti non toccano in nulla il concetto ontologico della morte. La definizione ontologica è la seguente: la morte è la sparizione totale, il passaggio nel nulla. Se consideriamo che la parte mortale è solo la parte fisica dell’organismo, del nostro Io, quello che noi siamo non muore, poiché muore solo questa parte materiale così che c’è una altra parte di noi che invece continua ad esistere. In questo caso la morte è definita come un trapasso, come il passaggio da un mondo in un altro mondo. Il problema ontologico è che non si può immaginare la propria morte. Se noi pensiamo la nostra morte, e pensando siamo, allora non possiamo, insieme, essere e pensare di non essere. L’ha detto già Lucrezio che non bisogna avere paura della morte: non c’è nessuna ragione di averne paura perché quando noi ci siamo, la morte non c’è, e quando c’è la morte, noi non ci siamo. Essa quindi non ha nessuna importanza per noi poiché non ci tocca.

l problema, dal punto di vista metafisico, è però ancora più complesso e grave. Con lo stesso diritto con cui si dice che dal nulla non può nascere qualcosa, si deve dire anche che nulla può tornare nel nulla: tutto è trasformazione dell’esistente. La morte in senso assoluto sarebbe invece un ritorno nel nulla. Il problema metafisico esiste nella misura in cui si pensa che un essere vivente sia in sé e per sé un’entità ontologica, che abbia un’esistenza assoluta, indipendente, la quale non si esaurisce nelle strutture materiali che lo compongono. In questo caso il problema esiste effettivamente; non si può immaginare veramente la morte dell’anima se, appunto, l’anima è pensata come un ente in senso ontologico. Io sono vicino a questa prospettiva, che si collega alle filosofie orientali. Se esiste lo sparire nel nulla, allora possiamo ammettere anche che esiste un nascere dal nulla: siamo nati e poi torniamo alla stessa situazione precedente alla nascita. Se invece la parte spirituale in noi non muore, non vedo come mai potrebbe nascere; in questo caso, con lo stesso principio, penso che noi esistiamo come tali da sempre e passiamo soltanto attraverso diversi stadi. C’è una specie di metamorfosi del nostro Io. Se, al contrario, possiamo nascere dal nulla, possiamo anche tornare nel nulla.

Si sono scritti libri e se ne scriveranno tanti altri su tale problema. Esso ci coinvolge in modo profondo, emozionale; la filosofia e la scienza se ne interesseranno sempre. Voglio però insistere sul fatto che le recenti scoperte scientifiche mutano il concetto della morte, ma non toccano in niente il problema metafisico ed ontologico.

Lei ha detto che, dal punto di vista biologico e medico, la morte non è considerata un evento ma un processo mentre, da un punto di vista ontologico, la morte è un evento istantaneo. Come si può eventualmente risolvere questa contraddizione?

E’ una contraddizione profonda e molto importante che crea tante difficoltà teoriche e pratiche. Non c’è dubbio che, da un punto di vista ontologico, la morte è un evento, un passaggio di stato dell’essere; il passaggio dell’anima da un mondo all’altro. Ma, d’altra parte, noi, biologicamente, dobbiamo considerare tutta una serie di eventi. Dobbiamo distinguere almeno tre tappe completamente diverse: con la loro morte alcune cellule, si creano delle difficoltà molto grandi per il funzionamento di certi sistemi (il sistema respiratorio o il sistema circolatorio), che poi mettono in difficoltà l’attività cerebrale. Questo è l’inizio della morte cellulare. Dopo di ciò c’è una perdita dei meccanismi di regolazione dell’organismo e si ha la morte clinica, ossia una disintegrazione: la morte infatti avviene come perdita di integrazione di una totalità. Diceva Diderot: "Da vivo reagisco come un insieme, da morto reagisco come molecole". Questa è dunque la morte clinica. La "terza" morte è invece la morte di ogni parte dell’organismo, di ogni cellula. La morte in senso filosofico è ovviamente legata al momento della morte clinica e la difficoltà sta nel fatto che non si può, mediante le osservazioni esterne, determinare un punto nel tempo in cui accade, all’interno al processo biologico, un tale evento metafisico. Questo è il momento in cui si perde definitivamente la coscienza: la coscienza degli altri però non è osservabile. Non solo per ragioni filosofiche, religiose, etiche, ma anche per i bisogni giuridici.

Come ho già detto, la morte deve essere un evento ,ed è oggi il medico che con la sua diagnosi trasforma in evento un processo. Possiamo fare un esempio al riguardo: una famiglia, che viaggia in un’auto, incorre in un incidente; più persone della stessa famiglia muoiono ma non tutte insieme; per lesioni varie muoiono una dopo l’altra anche se a poca distanza di tempo. I problemi di eredità non possono risolversi se non si decide esattamente quando è morto chi. Qui è il campo della diagnosi medica, ma questa diagnosi è una prognosi ed è dunque una definizione arbitraria e, anche se non proprio arbitraria, certamente priva di un criterio assoluto. La morte non può essere immaginata dall’uomo, filosoficamente in senso stretto, che come un evento. Come evento essa è un passaggio di frontiera e questa frontiera è una linea, non uno spazio. C’è forse la possibilità di uno spazio di ritorno. Ci sono delle esperienze di persone che erano clinicamente morte e che in seguito hanno ripreso coscienza. Queste persone raccontano eventi che hanno sempre qualcosa di comune: erano in una specie di tunnel, hanno visto una luce azzurra, eccetera; si potrebbe interpretare ciò come un’esperienza dell’"altro mondo". Ovviamente ci può essere un’altra interpretazione. Esso sarebbe un fenomeno della coscienza del momento, quando cioè si realizzano certe condizioni particolari in assenza di ossigeno in certe parti del cervello. Dunque non è straordinario il fatto che c’è la stessa osservazione, lo stesso ricordo. Ma l’uomo non può abbandonare la speranza di sopravvivere. Può sembrare strano che questa sia la speranza dell’uomo occidentale. Dopo i tempi arcaici, dopo le più antiche filosofie occidentali, l’uomo spera e crede alla propria sopravvivenza. Ma non si trova più il bell’esempio delle tombe etrusche o di quelle egizie, le quali testimoniano che l’uomo è talmente convinto della sopravvivenza che porta con sé anche gli oggetti terreni: il suo è un atteggiamento irrazionale, poiché, se c’è un altro mondo, è certo che non vi si possono trasportare gli oggetti. Ma questa speranza non può essere abbandonata ed il pensiero filosofico torna sempre a riflettere su certi temi. Eppure va detto che è una caratteristica degli Occidentali il pensare che l’annientamento dell’essere sia la punizione massima, peggiore dell’inferno. Nel pensiero Orientale sparire nel nulla, identificarsi con il cosmo, con l’insieme del mondo, è invece il massimo scopo.

 

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