Per quanto mi riguarda, il
meglio dell'arte nel Ventesimo secolo si sviluppa a partire da una scelta di fondo che
trova i suoi padri nobili in Rimbaud e Baudelaire. Rimbaud diceva: bisogna essere moderni.
Baudelaire celebrava, rappresentandola, la citta' e il suo spleen. Credo, dunque, che il
meglio del secolo nel campo dell'arte figurativa vada cercato fra le avanguardie che hanno
vissuto in anticipo, in avanscoperta rispetto alla maggioranza silenziosa: quindi
movimenti come espressionismo, futurismo, cubismo, surrealismo, costruttivismo, con una
continuazione nel dopoguerra da parte delle neoavanguardie - action painting, new dada,
pop, fino alla transavanguardia - animati dalla generosa speranza di capovolgere e
modificare la realta' attraverso un linguaggio in grado di dare il senso della modernita'.
Seguendo questo tragitto, scelgo un movimento e un artista, il dadaismo
e Pablo Picasso, come due situazioni culturali che, viste in maniera complementare, danno
il senso del meglio del Ventesimo secolo. Il dadaismo destruttura il linguaggio, sviluppa
un disincanto creativo, lavora sulla cleptomania linguistica e sul recupero di scoperte
provenienti da altri movimenti, ad esempio il cubismo e il futurismo, e nello stesso tempo
mantiene un atteggiamento di maggiore anarchia, sospetta che la destinazione delle
avanguardie sia il museo, e a un certo punto muore per eutanasia, con la dichiarazione del
suo grande teorico, Tristan Tzara: "Dada e' morto".
Credo che il dadaismo esprima tutte le istanze utopiche delle
avanguardie storiche ma, a differenza degli altri movimenti, anche grande lucidita' e
disincanto: il dadaismo aveva capito come si sarebbe conclusa la parabola di queste
avanguardie - ghettizzate nei musei, assorbite dalla curiosita' di un pubblico che nutriva
verso di loro un interesse esotico. L'avanguardia veniva vista dalla societa' come un
raggruppamento di uomini la cui idea di contestazione era legata a una sorta di
immaturita' che li deresponsabilizzava. E il museo diventava la cassaforte entro cui la
societa' chiudeva i propri valori.
Attraverso le figure di Marcel Duchamp, di Man Ray, di Hugo Ball e
soprattutto di Kurt Schwitters, il dadaismo e' stato capace di utilizzare il quotidiano
attraverso il ready made, di utilizzare l'oggetto di serie sottraendolo alla sua funzione
quotidiana per spostarlo nello spazio della contemplazione, del museo e della galleria, e
attraverso questo spostamento ribaltandone l'identita'. L'esempio classico e' l'orinatoio
di Duchamp firmato con il nome della fabbrica, Mutt, e intitolato Fontana: ecco che un
oggetto sanitario adatto a raccogliere liquido, attraverso il titolo e lo spostamento
diventa fontana, cioe' un apparato che espelle liquido.

I dadaisti creano dei processi di alchimia per cosi' dire laica, meno
esoterica, piu' ludica. Nello stesso tempo dimostrano un grado di flessibilita', una
capacita' di antieroismo che a mio avviso lo sottraggono al destino patetico delle
avanguardie in quanto portatrici di quella che io chiamo l'ideologia del darwinismo
linguistico, cioe' l'ideologia di un'idea evoluzionistica dell'arte, il bisogno di
appartenere a una sorta di cosmopolitismo sperimentale per sentirsi moderni.
Il dadaismo accetta di operare a Parigi, citta' cosmopolita per
eccellenza, nella prima meta' del secolo, e i suoi adepti provengono dalla Romania come
Tzara, dalla Svizzera come Ball, dalla Francia come Duchamp, dall'America come Man Ray,
dalla Germania come Schwitters. Ma cio' che e' piu' interessante e' che il dadaismo
utilizza le scoperte degli altri gruppi attraverso una forma di cleptomania linguistica
shakerata col senso del gioco, e fa dell'arte uno spirito che si vaporizza nel sociale,
dopodiche' decide per l'eutanasia con l'orazione funebre di Tzara.
L'eredita' del dadaismo e' proprio il disincanto, un'idea laica della
creazione, la necessita' di puntare sul presente, la dignita' di un ruolo non affidato
semplicemente all'esibizione sperimentale dei propri mezzi, il tentativo di utilizzare in
termini antropologici l'arte e la cultura. L'immagine che meglio riassume il dadaismo,
oltre all'orinatoio di Duchamp, e' il Merzbau di Schwitters, lo studio, bombardato durante
la seconda guerra mondiale, che l'artista definiva Cattedrale dell'angoscia ed entro il
quale aveva realizzato una sorta architettura nell'architettura, un'opera di arte totale
in cui tutti i linguaggi - architettura, pittura, scultura - concorrevano e si aggregavano
giorno per giorno: una metastasi ludica della fantasia dell'artista, una metastati implosa
che trovava il proprio luogo di fecondazione all'interno dello studio e poi si espandeva
fisicamente verso l'esterno, fuoriuscendo dalle finestre per aggredire la realta' e
aggregarsi con le cose del quotidiano.
La mia ammirazione per il dadaismo come movimento laico, anarchico e
ludico combacia con la mia antropologia napoletana della cultura: provengo da una citta'
che galleggia sul tufo, quindi sul vuoto, e so che per rimanere a galla ci vuole
intelligenza. Il dadaismo ha dimostrato che nel Ventesimo secolo l'unico atteggiamento
dignitoso da tenere non era quello di utilizzare la bandiera darwinistica per muoversi
verso le sorti progressive del mondo ma piuttosto galleggiare all'interno della vita,
eternando il proprio presente.

E chi invece ha ribaltato l'eterno presente dell'arte per cavalcare il
futuro se non il grande cannibale, Pablo Picasso? Per riprendere l'imperativo categorico
di Rimbaud, essere moderni significa farsi carico del tempo come dimensione che ci
accompagna, di cui siamo frutto e che ci sposta in avanti. La lezione di Picasso e'
proprio questa: essere moderni significa essere contemporanei alla storia, che non e' solo
la cronaca del proprio tempo ma tutto cio' che la cronaca si porta dietro, e presente e
passato sono gli elementi che l'artista o l'intellettuale deve shakerare per produrre il
futuro. E attraverso la produzione culturale l'artista e l'intellettuale puo' progettare
anche il passato, rivedendolo, riassemblandolo, masticandolo e digerendolo per trasferirlo
appunto in un nuovo prodotto, che rappresenta la persistenza dell'arte.
A seguito alleghiamo la trascrizione del capitolo dedicato da
Achille Bonito Oliva a Picasso così come appare nel volume Oggetti di turno (Marsilio).
Il gran cannibale
"Non domandatemi chi sono e non chiedetemi di restare lo stesso:
è una morale da Stato civile: regna sui nostri documenti". Questa affermazione di
Michael Foucault nellArcheologia del sapere sembra appartenere alla difesa di
un interrogatorio ideale allimputato del secolo: Pablo Picasso. Insistendo un
po con le buone e le cattive maniere, credo che a domanda Picasso risponderebbe:
"Io sono il Gran Cannibale". La confessione riguarda il doppio versante
dellopera e della vita privata. In entrambi i casi lartista spagnolo ha
praticato in ununica strategia due complessi antistanti del codice psicanalitico:
quello di Laio e quello di Edipo.
Sicuramente nella vita, nel suo erotismo mediterraneo e
controriformista insieme ha, con la sua grandezza, fomentato e provocato disastri
familiari: suicidi ed immaturità filiari intrecciati a disperazioni muliebri.
Dalla precoce e mozartiana produzione adolescenziale fino alla febbrile
creatività tizianesca degli ultimi anni, egli con insopportabile grandezza ha divorato,
masticato, digerito ed espulso frammenti, dettagli e resti della storia dellarte, da
quella primitiva ai giorni nostri. Vero cannibale, egli era portatore sano di una
posizione assolutamente amorale, psicologicamente esente da ogni senso di colpa e
praticamente pronto a interdire con la sua prodigiosa creatività il lavoro artistico del
padre, lui pure pittore.
Tutto questo senza frontale crudeltà del figlio, piuttosto, con
materno riconoscimento del suo inevitabile stato di grandezza datogli dalla Natura.
Riconoscimento quasi materno del figlio verso la modestia di un padre, immediatamente
cancellato con lassunzione del solo nome della madre: non più Pablo Picasso Ruiz,
ma soltanto Pablo Picasso.
Divorato il padre con un semplice colpo anagrafico, sistemato il
piccolo presente del proprio quotidiano familiare, Picasso passa alla storia
dellarte.

Qui egli trova prima suoi sfortunati coetanei, altri artisti delle
avanguardie storiche che lavoravano per rinnovare il linguaggio secondo attitudini
specializzate: Matisse, Braque, Boccioni, Balla, Duchamp, Dalì, Mirò, Mondrian, Ernst,
Leger e altri. Questi, con etico spirito di rinnovamento, si adopravano ad erigere la
piramide dellarte contemporanea, febbrili portatori di una manodopera
inevitabilmente specializzata: espressionismo, futurismo, dadaismo, astrattismo,
costruttivismo, ecc. Ognuno di loro partecipava puntando sullossessione di un
processo creativo in cui stile e comportamento trovavano conferma attraverso la
ripetizione. Si sentivano moderni e riconoscibili proprio per questo. Come per ogni
prodotto che circola nella società moderna la ripetizione stilistica ne conferma la
bontà esecutiva e la riconoscibilità del suo artefice.
Picasso no. Egli per eccesso di salute fisica ed artistica, affida la
riconoscibilità dellopera allantipatia del proprio genio personale. Un genio
eclettico e volubile che non si consegna allo stile ma alla mutazione delle forme.
Contraddizione al trend collettivistico del XX secolo, in quanto individuabile come genio.
Antipatico per necessità, non sincronico cioè al pathos ripetitivo della produzione
contemporanea. La febbre da cercatori doro delle avanguardie storiche senza dubbio
è parallela allo spirito del capitalismo che sperimenta nuove condizioni produttive nel
XX secolo. Essere moderni perciò significava per gli artisti accettare lo spirito
puritano di ricerca nel grande sistema industriale internazionale.
Il ready-made di Duchamp rappresentava lo Zeit-Geist di
tale miteggiamento, leroico sforzo dellarte di sintonizzarsi col mondo.
Picasso, lantipatico, attua un comportamento non simpatetico: "Io non cerco, io
trovo". Egli, fuori da ogni ansia, con un senso di onnipotenza infantile, si afferma
centro di un mondo che va nella direzione della sua bocca. Urano moderno con forti
mascelle, pronto a masticare presente, passato e futuro. Il presente, i suoi fratelli
compagni di strada, lo ha divorato con precoce prontezza linguistica piegando
espressionismo, cubismo, futurismo, surrealismo e dadaismo