"Assolto per non aver
commesso il fatto": Giulio Andreotti è uscito a testa alta dal processo di Perugia,
che lo vedeva accusato di aver commissionato a Cosa nostra e alla "banda della
Magliana" l'omicidio del giornalista Mino Pecorelli. Ora si attende il verdetto di
Palermo, dove l'ex capo del governo è imputato di associazione a delinquere di stampo
mafioso. Ma nel frattempo i mass media, specie la tv, hanno rilanciato alla grande la
figura dell'ottantenne senatore a vita, tanto da far ritenere che anche un'eventuale
condanna ben difficilmente potrebbe comprometterne l'immagine.
A partire da questa vicenda e dai suoi paradossi, abbiamo parlato con
Emanuele Macaluso del suo libro "Mafia senza identità" (Marsilio), che non
risparmia critiche all'operato della procura di Palermo. L'autore, dirigente di lungo
corso del Pci e oggi voce critica all'interno dei Ds. è stato un protagonista attivo
della vita politica siciliana sin dalla caduta del fascismo.
La sentenza di Perugia ha riaperto la polemica sul ruolo dei mafiosi
"pentiti" nel processo penale. Siamo forse a una svolta nell'atteggiamento della
magistratura?
Non so se si possa parlare di svolta. Il verdetto è stato emesso da
una Corte d'Assise, comprendente non solo membri togati, ma anche giudici popolari, cioè
comuni cittadini. E la cosa mi sembra importante, anche se, dalle indiscrezioni comparse
sulla stampa, pare che l'assoluzione sia stata decisa all'unanimità. Comunque sia, mi
sembra un'occasione da cogliere per riflettere con attenzione sull'uso che è stato fatto
dei pentiti nelle inchieste di mafia.

Secondo lei i pubblici ministeri hanno attribuito una credibilità
eccessiva ai "collaboratori di giustizia"?
Credo di sì. Come scrivo nel libro, si è sottovalutato che questi
individui sono mafiosi incalliti. Si tratta cioè di criminali che hanno una straordinaria
capacità di mentire, di simulare, di venire incontro alle aspettative degli inquirenti
che li interrogano. Si è fatto affidamento sulle loro deposizioni al di là di ogni
ragionevolezza, mentre sarebbe stato necessario verificarle con estremo rigore.
A proposito dei presunti rapporti di Andreotti con la mafia, lei
sostiene che le sue responsabilità non sono molto diverse da quelle di tutta la classe
dirigente democristiana. Ma allora perché proprio lui è finito alla sbarra?
Il problema è che noi oggi abbiamo un processo di rito accusatorio,
come negli Stati Uniti, ma conserviamo l'obbligatorietà dell'azione penale, sconosciuta
nel mondo anglosassone. Perciò se uno o più pentiti accusano Andreotti e Calogero
Mannino, e non altri esponenti politici che hanno operato in modo analogo, i primi vanno
sotto processo e i secondi no. Lo stesso vale per il questore Bruno Contrada, condannato
per contatti occulti con esponenti di Cosa nostra che tempo fa erano una pratica piuttosto
comune, con cui la polizia tentava di strappare informazioni usando una cosca contro
l'altra.

Si tratta comunque di condotte censurabili.
Non lo metto in dubbio. Ma so per la mia lunga esperienza, risalente
agli anni Quaranta, che i comportamenti di parecchi dirigenti delle forze dell'ordine sono
stati simili a quelli addebitati a Contrada. E che molti democristiani di alto livello non
hanno agito diversamente da Mannino. Il punto è che oggi la decisione sull'esercizio
dell'azione penale finisce in mano ai pentiti. Sono loro che scelgono di fare quel nome e
non un altro. E' un meccanismo perverso di cui non incolpo certo i magistrati, che sono
tenuti a procedere di fronte a ogni notizia di reato. Ma mi chiedo se possa reggere un
sistema che nei fatti consegna a elementi mafiosi un potere spropositato.
Lei pensa che l'esito del processo ad Andreotti celebrato a Palermo
sarà influenzato dalla sentenza di Perugia?
E' probabile. Sia perché alle origini di entrambi i procedimenti ci
sono le rivelazioni di Tommaso Buscetta, sia perché una condanna per il delitto Pecorelli
avrebbe bollato Andreotti come assassino, mentre l'assoluzione con formula piena riporta
il suo caso nell'ambito del concorso in associazione mafiosa, che è un reato piuttosto
nebuloso, in cui risulta piuttosto sottile il confine tra la semplice responsabilità
politica e la vera e propria responsabilità penale. Il contesto complessivo è dunque
mutato, ma si tratta di vedere come la Corte valuterà le deposizioni dei pentiti.
A parte gli episodi specifici addebitati al senatore a vita, lei
critica la ricostruzione storica dell'accusa, secondo cui le fortune politiche di
Andreotti sarebbero dovute in gran parte all'apporto delle tessere siciliane controllate
da Salvo Lima.
Su questo non ho dubbi. E' un nonsenso sostenere che Andreotti è
arrivato ai massimi vertici perché aveva il sostegno del gruppo di Lima. Ben prima di
poter contare su quell'appoggio, che ottenne solo nel 1968, era stato sottosegretario alla
presidenza del Consiglio con Alcide De Gasperi e più volte ministro, senza contare i suoi
rapporti privilegiati con il Vaticano e con altri centri di potere. A Palermo la corrente
andreottiana era costituita da personaggi più che discutibili, più che equivoci, che
certamente avevano rapporti con la mafia, ma non sono stati affatto determinanti nel
portare il loro leader nazionale fin dove è arrivato.

La difesa di Andreotti insiste sul fatto che fu un governo da lui
diretto ad assumere provvedimenti molto severi contro la mafia e a chiamare a Roma
Giovanni Falcone. Che ne pensa?
E' tutto vero, ma bisogna distinguere fasi diverse. Andreotti, come
gran parte della Dc, per lungo tempo ha praticato e quasi teorizzato una sorta di
tolleranza nei riguardi di Cosa nostra. Riteneva che la politica potesse tenere sotto
controllo la mafia senza concederle più di tanto. Poi deve essersi accorto che quel
compromesso, a mio avviso deleterio per la democrazia italiana, non reggeva più. Grazie
agli enormi proventi ricavati dal traffico della droga, Cosa nostra era diventata sempre
più arrogante, aveva cominciato a uccidere magistrati e politici di rango. A quel punto
c'è stata una svolta, cui ha partecipato anche Andreotti, perché la linea della
tolleranza era diventata insostenibile.
A proposito di svolte, lei sostiene che Gian Carlo Caselli, come
procuratore capo di Palermo, si è distaccato dalla via che Falcone aveva tracciato.
Eppure entrambi si sono dimostrati nemici acerrimi di Cosa nostra.
E' innegabile la continuità tra i due magistrati sul piano morale.
Decidendo di venire in Sicilia, Caselli ha fatto una scelta di grande impegno civile, che
merita un assoluto rispetto. Ma oggettivamente la strategia della lotta alla mafia è
cambiata.
In che senso?
Falcone riteneva che il nucleo da colpire fosse il vertice di Cosa
nostra e negava l'esistenza di una "cupola politica" sopra quella mafiosa.
Sapeva ovviamente che c'era un rapporto tra crimine organizzato e potere costituito, ma
era persuaso che nessun "terzo livello" potesse pilotare i capi delle cosche
dall'esterno. Caselli invece, dopo l'estensione a dismisura del pentitismo, ha pensato che
il nodo essenziale da sciogliere fosse l'intreccio dei gruppi criminali con la politica
nelle sue diverse incarnazioni: Lima, Andreotti, Mannino, forse più di recente Forza
Italia. E quindi ha agito di conseguenza.
Secondo lei l'analisi di Caselli è sbagliata?
I legami tra mafia e potere sono un dato di fatto. Tuttavia pensare che
colpendo la politica sul piano penale si possa sconfiggere Cosa nostra è un'illusione.
Tanto è vero che oggi i partiti sono in una condizione di estrema debolezza, ma gli
stessi magistrati ammettono che la minaccia mafiosa resta assai grave. Io credo che, se
non si rivitalizza la partecipazione popolare e non si afferma la cultura dello Stato di
diritto, si faranno pochi passi avanti.
Per questo lei critica la linea emergenzialista di certe procure,
che pensano di debellare il crimine organizzato con misure eccezionali?
E' un'osservazione che non rivolgo solo ai magistrati, ma anche alla
politica, a cominciare dai Ds. Il mio partito si è purtroppo allineato alla cultura per
cui il fine giustifica i mezzi ed è quindi opportuno forzare le leggi pur di ottenere
certi risultati. Ma così si torna a una logica vecchia. Dall'unità d'Italia in poi, lo
Stato ha sempre cercato di sgominare Cosa nostra con leggi speciali, spesso lesive dei
diritti individuali. Il risultato è che in Sicilia non si è affermata la cultura dello
Stato di diritto e si è rafforzata viceversa quella mafiosa. Se infatti i rappresentanti
delle istituzioni manipolano le leggi e commettono abusi, è chiaro che il cittadino si
sente autorizzato fare lo stesso. E' una sorta di avvitamento che dura tuttora e può
essere spezzato solo facendo prevalere le ragioni del diritto su quelle dell'emergenza. Lo
diceva Leonardo Sciascia: il rispetto scrupoloso della legge è l'unica via per battere
davvero la mafia.