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La democrazia vive se sa farsi Stato

Leo Valiani

 


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Quella che segue è la trascrizione di un intervento pronunciato da Leo Valiani il 2 ottobre 1992, nel corso di un forum organizzato per il cinquantesimo anniversario del Partito d’Azione. Si tratta di un testo molto interessante, sia per le osservazioni che contiene sulla vicenda del PdA, sia per i giudizi dell’autore su quel momento di grave crisi della democrazia italiana, caratterizzato da Tangentopoli, dalle stragi di mafia e dal crollo della lira. La versione integrale del dibattito è contenuta nel libro "La Lezione dell’intransigenza", curato da Antonio Carioti e pubblicato dalle Edizioni Acropoli di Roma nel 1992.

 Sono felice e commosso di rivedere qui tanti compagni, a cominciare dal primo che ho conosciuto a Parigi nel ’38 e che è stato il mio maestro, Aldo Garosci. A diciannove anni mi iscrissi al Partito comunista, perché avevo visto la bancarotta di tutti i vecchi partiti davanti all’offensiva fascista e il comunismo sembrava l’unico immune dalle colpe della sconfitta. Garosci mi avvicinò a Giustizia e Libertà: io, che arrivai a Roma qualche settimana prima di lui nel ’43, lo portai nel Partito d’Azione. Saluto anche tutti gli altri con i quali ho combattuto nella Resistenza: Tom Carini a Roma, Vittorio Foa a Torre Pellice e a Milano e via dicendo. Tutti avete il mio affetto.

Passo subito però alla prima questione, il bilancio della storiografia. Sul Partito d’Azione si è scritto molto: naturalmente un partito d’intellettuali suscita molte riflessioni e anche ricordi di intellettuali. E’ tutta buona storiografia. Però, se potessi fare una osservazione, che vale anche per l’ottimo libro del professor De Luna, occorre guardare con più attenzione i fatti particolari e non fidarsi dei ricordi personali. Ci sono gli archivi, ci sono le persone: occorre andare a verificare tutto con quello scrupolo filologico estremo che a volte è mancato. Sono tutte cose giuste quelle che sono state dette del Partito d’Azione, ma sono stati commessi un’infinità di piccoli errori di fatto.

Passo alla seconda questione. Perché è mancato un partito di democrazia moderna in Italia. Innanzitutto ci sono da considerare i difetti organizzativi, che sono fondamentali nel mancato successo del Partito d’Azione. Essi peraltro caratterizzano i partiti di intellettuali di tutto il mondo. Gli inglesi dicono che i partiti di intellettuali falliscono sempre, perché vanno dietro alle idee e non vanno dietro alla gente. Pensano che la gente verrà loro dietro, ma così non accade.

Nel Partito d’Azione questo difetto era affiancato da due elementi negativi: uno, senz’altro negativo, era l’eccesso di personalismo. "O io o lui": così abbiamo vissuto le lotte interne nel Partito d’Azione e in tutti gli altri movimenti che ho conosciuto. Invece in un partito di massa c’è spazio per tutti. Quindi non occorre dire "o io o lui", perché ci stiamo tutti e due. L’altro invece non è un elemento negativo, ma agì negativamente nel Partito d’Azione. Era il nostro vanto, il nostro orgoglio, ma giocava contro di noi: l’estremo antifascismo.

Sono personalmente uno dei quattro (gli altri furono Pertini, Longo e Sereni) che hanno deciso la fucilazione senza processo di Mussolini. Vedo che adesso c’è un certo signor Gobbi che ce lo rimprovera: dice che dovevamo fargli un processo regolare. Ma questa è ignoranza dei fatti, perché il processo non potevamo farglielo: se si fosse arreso, avremmo dovuto consegnarlo agli americani che ce lo chiedevano. Proprio perché lo chiedevano e lui non si era arreso, se non vestito da soldato tedesco, lo abbiamo fatto fucilare senza processo. Naturalmente se si fosse arreso il 25 aprile in arcivescovado, lo avremmo consegnato proprio agli americani.

Una cosa però è fucilare Mussolini senza processo, e un’altra cosa, invece, l’atteggiamento verso la maggioranza fascista del paese. Si, la maggioranza del paese era fascista, anche se naturalmente il 25 aprile erano tutti antifascisti. Vi cito un esempio. A Milano nella settimana dopo l’insurrezione 52 mila persone avevano la tessera del Partito d’Azione, ma l’avevano richiesta perché pensavano che con quella tessera sanavano il loro passato fascista. Quando hanno visto che noi eravamo antifascisti, ci hanno voltato le spalle. Qualche tempo dopo a casa mia capita Vittorio Valletta, che mi dice: "Voglio fare un giornale con lei". Neanche sapeva chi fossi, ma aveva visto sull’"Italia Libera" (il giornale del PdA) che figuravo come direttore. Insomma, Valletta voleva fare un quotidiano col Partito d’Azione, naturalmente per essere disepurato. Chiedemmo a Sandro Galante Garrone, che ci rappresentava nella commissione di epurazione di Torino, e lui rispose: "Assolutamente no, Valletta non può essere disepurato". Invece Valletta, contro l’opinione del Partito d’Azione, fu disepurato.

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Insomma, la maggioranza ex fascista del paese ci trovò troppo intransigenti. E non potevamo far niente: anche se avessimo disepurato Valletta, rimaneva che tutta la massa degli ex fascisti ci considerava come il partito dell’epurazione. E lo eravamo. Eravamo il partito che aveva più violentemente contestato Togliatti, quando entrò nel governo Badoglio; eravamo repubblicani, intransigenti anche verso la monarchia; eravamo laici, quindi la Chiesa ci vedeva come il fumo negli occhi. Non avevamo spazio, non c’era ancora una massa antifascista, laica e repubblicana in Italia, all’infuori delle masse che seguivano già il Partito comunista e il Partito socialista.

Non si inventano i ceti sociali che seguono un partito. Se ci sono, ci sono. In prospettiva, evidentemente, l’opinione di Ugo La Malfa era valida. Comunisti e socialisti – lui pensava – organizzano già la classe operaia, noi dobbiamo guardare ai ceti intermedi. Però noi non li rappresentavamo. Una volta Pajetta disse a Parri: "Voi dovete cercare voti fra i bottegai e gli artigiani". E Parri rispose: "Ma che discorso sono in grado di fare io ai bottegai?". Certo non era la persona più indicata, Parri, per acquisire i voti dei bottegai, però la maggioranza di quelli che non erano operai e di quelli che non erano capitalisti in Italia erano, in un modo o nell’altro, bottegai, espressione appunto di quell’economia di mercato nella quale l’Italia si trova da secoli. In fondo è nata in questo paese, l’economia di mercato.

Passiamo alle prospettive attuali. Questo mi pare l’elemento più interessante e fondamentale. I partiti che hanno vinto portavano nel loro cervello, oltre che nella loro realtà, l’eredità della disfatta. Garosci e io a Parigi avevamo visto tutti questi difetti, perché conoscevamo i vecchi partiti, e speravamo che Giustizia e Libertà avesse una maggiore diffusione. Ma i vecchi partiti erano quelli che erano e hanno dato i frutti che potevano dare: governi deboli, assemblee impotenti, molta attenzione agli interessi particolari e nessun senso della democrazia, che poi è il senso dello Stato. In realtà la democrazia funziona se c’è uno Stato, se sa farsi Stato. Invece, dopo il crollo del regime fascista, la democrazia non si è fatta Stato e lo Stato non si è fatto democratico. In queste due parole c’è a mio avviso la spiegazione di 47 anni di storia. Né la Democrazia cristiana, né il Partito comunista, né il Partito socialista, neppure il Partito liberale erano in grado di creare qualche cosa di valido in Italia. Abbiamo avuto 47 anni di ricchezza, perché inseriti nell’economia di mercato internazionale e perché gli italiani lavoravano e risparmiavano. La politica non ha mai funzionato: neppure con De Gasperi, che era di gran lunga quello che aveva più buon senso. Tanto meno funziona adesso.

Che cosa fare? A mio avviso, attualmente, occorre difendere questa democrazia zoppa, zoppa di tutti e due i piedi, non con un solo piede come la democrazia prefascista di cui parlava Salvemini. Non funzionava quella democrazia prefascista e non ha funzionato neanche questa, che adesso sta per tirare le cuoia. Però dobbiamo difenderla, perché se no arriva una dittatura peggiore di quella di Mussolini. Almeno Mussolini aveva un’esperienza politica acquisita come capo del Partito socialista, poi come direttore di un grande quotidiano. Malgrado tutti i loro difetti, quegli uomini che lui cacciò via, ma dai quali imparò a fare politica, venivano ancora dal Risorgimento. Adesso si vede solo il vuoto, dopo la fine di questa democrazia, e quindi è doveroso difenderla con qualsiasi mezzo che si dimostri necessario a questo scopo. Io non sono per l’indulgenza, non sono per la permissività.

Come difendere la democrazia si vedrà. Non ci vorrà molto: è questione di mesi. Con la disgregazione della lira, quando la gente si accorgerà che ha in mano dei pezzi di carta, vedremo che razioni avrà. Può darsi che manderà come primo esperimento al potere i due partiti ex comunisti. Però anche quelli non reggeranno, perché se in tutto il mondo il comunismo è crollato, non è che l’Italia possa avere un avvenire comunista. Se andranno al governo, faranno da battistrada a quello che verrà dopo.

In queste condizioni certamente una forza come il Partito d’Azione ritroverebbe una sua funzione, ma ogni previsione rischia di essere smentita. Occorre ricostituire una comunità ideale fra quelli che operano in diversi partiti. Io sono rimasto senza tessera, ma faccio parte del gruppo parlamentare repubblicano. Paolo Vittorelli fa parte, credo almeno, del Partito socialista: un partito che, come già nel primo dopoguerra, si può attualmente considerare, proprio per la sua forza passata, l’indice dello sfacelo odierno. Insomma, vediamo cosa si può fare insieme per difendere questa democrazia ancora larghissima ma già cadaverica, al cui destino siamo personalmente legati.

Probabilmente occorre un governo di salute pubblica, ma temo che non ci sarà niente del genere, perché naturalmente nessuno oserà costituirlo se non quando sarà troppo tardi. E’ come nel primo dopoguerra: Giolitti e Nitti avrebbero dovuto mettersi d’accordo per difendere lo Stato liberale, ma si odiavano reciprocamente come accade ai politici di oggi. E Mussolini vinse senza dover combattere, se non localmente con le singole Camere del Lavoro o con singoli personaggi come Giovanni Amendola, che certamente fu il migliore di gran lunga di quel ceto politico liberaldemocratico. Quindi noi, che abbiamo consapevolezza della gravità della situazione, cerchiamo di restare uniti e di batterci quando tornerà l’occasione di difendere la democrazia. Vorrei aggiungere solo che tutti questi scioperi affrettano la fine della democrazia: come spesso accade, la classe operaia viene chiamata dai suoi capi incapaci e ottusi a combattere contro se stessa.

 

 

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