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La lunga battaglia di un ragazzo del 1909

Antonio Carioti

 


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"E poi bisogna restaurare l'autorità dello Stato. Basta con le leggi permissive. Non è accettabile che tanti terroristi vengano rilasciati per scadenza dei termini di carcerazione preventiva. Mi raccomando, lo scriva". Qualunque fosse l'argomento su cui concedeva un'intervista, Leo Valiani coglieva immancabilmente l'occasione per tornare sul punto che gli stava più a cuore.

Negli anni di piombo era diventato l'incarnazione vivente della linea della fermezza. Mai trattare con i nemici della democrazia, mai concedere loro nulla, mai sacrificare le esigenze della sicurezza a quelle del garantismo. Poteva sembrare un'ossessione l'insistenza di Valiani sulla necessità che lo Stato si dimostrasse forte. Ma basta ripercorrere brevemente la sua biografia per comprenderne le ragioni.

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Nato a Fiume nel 1909, socialista per slancio ideale sin da ragazzo, per tre volte aveva visto deboli democrazie crollare di fronte all'assalto del totalitarismo. A dodici anni aveva assistito sgomento all'incendio di una sede sindacale da parte degli squadristi. Poi Benito Mussolini si era impadronito dell'Italia e lui si era gettato a capofitto nella cospirazione contro la dittatura.

Era in galera, poco più che ventenne, quando la Repubblica di Weimar era stata travolta dalle conseguenze della crisi economica e dall'ascesa brutale delle camicie brune di Adolf Hitler. Era in esilio, sette anni dopo, quando una Francia divisa e imbelle, soggiogata dalle formidabili armate del Terzo Reich, si era consegnata al regime autoritario e collaborazionista di Vichy.

Esperienze terribili per un uomo che aveva fatto della lotta per la libertà la sua ragione di vita, che si era unito ai comunisti nel 1929, poiché li considerava gli unici decisi a combattere il fascismo senza quartiere, e li aveva lasciati dieci anni dopo, sconcertato dai processi di Mosca e disgustato dal patto Molotov - Ribbentrop.

Valiani aveva così maturato la convinzione che uno Stato democratico deve saper essere duro e spietato, se necessario, per sbarrare la strada a chi intende abbatterlo. E quando l'Italia aveva barcollato di nuovo, negli anni Settanta, sotto i colpi dell'eversione rossa e nera, era tornato in trincea, con lo stesso animo di cui aveva dato prova dal 1943 al 1945, quando aveva diretto i partigiani del Partito D'Azione nel Nord Italia, rischiando la vita tutti i giorni.

Forse in tanta severità verso i terroristi c'era anche una nota autobiografica. Immaginava probabilmente che i militanti delle Brigate rosse fossero determinati come lui, che aveva passato l'intera giovinezza tra reclusione, esilio e clandestinità, pronto a bruciare nel fuoco della battaglia antifascista ogni briciolo di libertà personale che gli riuscisse di riconquistare.

Di che fibra fosse fatto, lo ha raccontato meglio di chiunque altro Arthur Koestler, che fu suo compagno di prigionia nel campo francese di Vernet d'Arièges, dove entrambi vennero internati, come elementi sospetti, all'inizio della seconda guerra mondiale. E' Valiani il 'Mario' di cui parla lo scrittore ungherese nel libro "Schiuma della terra".

"Mario" scrive Koestler "aveva un'idea fissa; evitare in ogni occasione di essere umiliato da chi ci comandava. Questa ossessione, risultato di nove anni di prigionia, determinava la sua condotta al campo e lo portava ad un atteggiamento masochistico e quasi suicida: continuare a lavorare con quaranta di febbre; rifiutare di scrivere istanze di liberazione nel fiorito stile francese richiesto in tali documenti, e perfino rifiutare una dichiarazione scritta della sua lealtà alla causa alleata – aveva fatto domanda come volontario nell'esercito francese dal primo giorno di guerra – per timore che ciò potesse essere interpretato come un atto forzato e non volontariamente politico".

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Rivela molto sul personaggio un semplice confronto fra questo brano e un ricordo dello stesso Valiani, ripreso da "Sessant'anni di avventure e battaglie", un volume in forma d'intervista uscito nel 1983: "Koestler dice in 'Schiuma della terra', il suo libro sul campo di concentramento, che sono angelico - masochista, perché sostenevo che al Vernet non si stava tanto male. Ci facevano spaccare le pietre e questo lavoro faceva venire le vesciche alle mani che sanguinavano, però induriva i muscoli e mi faceva soltanto del bene. Eravamo a 700 metri d'altezza, un posto molto salubre..."

Valiani era dunque un combattente di straordinaria tenacia. Ma non un fazioso accecato dalla passione politica. Insieme a Luigi Longo, Sandro Pertini ed Emilio Sereni, decretò la fucilazione senza processo di Mussolini. Ma le sue memorie della Resistenza, uscite in prima edizione nel 1947 con il titolo "Tutte le strade conducono a Roma", sono dedicate "A Duccio Galimberti per tutti i Caduti, della nostra parte e dell'altra": un esplicito segnale di rispetto rivolto al nemico sconfitto, quando ancora non si era spenta l'eco degli spari.

Accanto al Valiani militante va ricordato poi l'uomo di cultura, figlio della Mitteleuropa cui apparteneva la sua Fiume. Cresciuto in una famiglia ebraica con il cognome originario di Weiczen, poliglotta fin dall'infanzia, dedicò importanti saggi storici agli ultimi anni dell'impero austro - ungarico e alle vicende del movimento socialista.

Agli studi non rinunciò mai, nemmeno nei momenti più duri. Koestler narra che al Vernet si riprometteva di utilizzare lo scarso tempo libero per scrivere le sue riflessioni sulla "Storia d'Europa nel secolo decimonono" di Benedetto Croce. Chi gli è stato accanto negli ultimi mesi di vita ha testimoniato come il venir meno delle forze non lo abbia mai distolto del tutto dal lavoro intellettuale. Anche in età avanzata, non disdegnava di interloquire con i giovani che gli inviavano i modesti frutti delle loro fatiche.

Il suo rapporto con la politica dei partiti fu altalenante, anche perché non era certo un tipo disposto a intrupparsi. Deputato alla Costituente nel gruppo sparuto del Partito d'Azione, era tornato in Parlamento solo nel 1980, come senatore a vita nominato da Pertini. Con il tempo aveva abbandonato il socialismo e si era avvicinato, senza mai prendere tessere, al Pri del suo ex compagno azionista Ugo La Malfa, di cui condivideva la linea di rigore economico. Poi era stato molto vicino a Giovanni Spadolini.

Restava tuttavia un battitore libero, difficilmente inquadrabile. Per molto tempo fu pressoché isolato, a sinistra, nel sostenere la Repubblica presidenziale, fedele alla posizione che era stata di Piero Calamandrei e del PdA. Aveva a lungo deplorato il dilagare della corruzione (lui la chiamava, con un termine un po' desueto, "corruttela"), ma di recente aveva proposto l'amnistia per il reato di finanziamento illecito dei partiti.

Ci ha lasciati tutti più soli in un sabato di settembre, senza riuscire a raggiungere i 140 anni d'età di Giobbe, il personaggio biblico cui l'aveva paragonato Koestler. Ma il tempo di una vita non si misura in termini di semplice durata. Per la loro intensità e per l'esempio che ne discende, i 90 anni di Leo Valiani valgono almeno il doppio.

 

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