"La storia di Giovanni
Castorp, che noi vogliamo narrare non tanto per riguardo al personaggio (giovanotto molto
semplice e tuttavia interessante) quanto per la storia in se stessa, ci sembra oltremodo
degna di essere narrata". Quale destino attendeva Giovanni Castorp? "Un
giovanotto di aspetto semplice e comune era partito in piena estate da Amburgo, sua città
natale, diretto a Davos, nel Canton dei Grigioni, dove contava di rimanere tre settimane
in visita presso un suo parente..."
Queste sono le premesse e il primo movimento, il primo gesto cioè, de
"La montagna incantata", uno dei più famosi romanzi del secolo: per Giovanni
Giudici, il poeta de "La vita in versi" e di "Salutz" (l'ultima sua
raccolta, "Eresia della sera", pubblicata da Garzanti, ha ricevuto il premio
"Omegna - Città della Resistenza"), il romanzo di questo Novecento"
Thomas Mann, allora, caro Giovanni? La prima risposta giunge senza
esitazioni.
Thomas Mann e 'La montagna incantata', che riassume e anticipa tutti i
guai del secolo. La morte, la rovina, la guerra, le debolezze e le paure del pensiero, il
tramonto delle idee. Tutto si racchiude in quel cosmo che è Davos e il suo sanatorio, in
quell'incontro casuale di uomini così diversi, tutti posti dalla loro malattia di fronte
alla necessità dei bilanci ma anche delle previsioni.... Hans Castorp con Madame
Chauchat, con l'illuminista Settembrini, con il decadente Naptha, con l'olandese
Pepperkon, che oscura la ragione, l'irrazionalista. Tutti insieme di fronte al
sopraggiungere della guerra, la prima guerra mondiale.

Thomas Mann, dunque, ma perchè non "I Buddenbrook", dove,
se si può, la storia è ancora più storia nella sua evoluzione. La famiglia come
specchio di un secolo, qualche cosa di più di un secolo ovviamente, la famiglia che si
estingue nella malattia dell'ultimo erede, come la storia che finisce...
Per una ragione di gusto mi piace di più 'La montagna incantata', più
felice nella scrittura, più affascinante nell'intuizione e nella costruzione della
vicenda, più avvincente, insomma. Per dirla semplificando: è un romanzo romanzo, dove
s'avverte tutta l'atmosfera di una vecchia Europa, che non sopravviverà, dove si può
ancora leggere "la luce elettrica", un romanzo agli albori di un'altra stagione,
della quale sa anticipare la crisi.
Ma sono tutti "romanzi della crisi". "La montagna
incantata", "I Buddenbrook". Perchè non Proust? Una volta, alla stessa
domanda, Grazia Cherchi mi rispose risolutamente indicando "Alla ricerca del tempo
perduto". Lo escludi dalla tua graduatoria?
Allora dovresti dire anche Joyce. Non si discute la grandezza.
Caspita. Ma Proust è un'epopea di poetica più che di poesia. Non per niente ho usato a
proposito di Thomas Mann l'espressione "romanzo romanzo". Anche il professor
Lukacs avrebbe votato "La montagna incantata".
Lukacs pensava a Cervantes e a Tolstoj. Capisco che avesse qualche
difficoltà con Proust.
La Recherche è un adempimento poetico e un modo tutto interiore di
riflettere su se stessi, per se stessi. Cioè, se si deve parlare di romanzo del secolo si
intende qualcosa che sia narrazione aperta di un secolo, la scelta di misurarsi con
un'epoca, nei modi anche più fuorvianti. In fondo quelli di Castorp e dei suoi accoliti
non sono che discorsi in un sanatorio... L'incombere della guerra però modifica tutte le
prospettive. E la malattia è un altro stato di belligeranza. L'individuo significa
qualcosa nella tragedia collettiva. Metaforicamente la esprime.
Hai conosciuto Thomas Mann quando venne a Milano? Non doveva essere
molto simpatico.
Di una qualche superbia. No, non ebbi modo di conoscerlo. Però mi
piace ricordare una fotografia di Thomas Mann, a Milano. Al suo fianco c'è Oreste del
Buono.
Sistemato Proust, si potrebbero contare altre esclusioni...
Non tante. Ma ti farò una sorpresa, un altro titolo per il romanzo del
secolo: "Il dottor Zivago". Lo chiamo in causa sapendo di provocare qualche
sconcerto, perchè non si può dire che sia un romanzo artisticamente del tutto risolto.
Ma vale come proposta epocale, anche politica, problematica. In fondo è il romanzo che
con più acutezza, attraverso l'escamotage di una storia sentimentale, va a cercare i guai
prodotti da uno dei più grandi eventi di questi cento anni, la rivoluzione d'Ottobre. Non
sarà del tutto riuscito, ripeto, risponde comunque a una necessità: rileggere quella
storia sotto una lente critica. Pasternak è stato uno dei primi a provarci nei modi del
romanzo. In questo senso Pasternak è stato un anticipatore, ha saputo vedere lontano.

Gli ha nuociuto forse la melensaggine del film, che fu un trionfo.
Chiunque ha in mente più facilmente Omar Sharif di Boris Pasternak. Però, scusa, nel
Novecento si può trovare di meglio: non della Rivoluzione d'Ottobre, naturalmente, ma
almeno del dottor Zivago. Ad esempio mi colpisce che tu non faccia neppure un cenno a
Kafka...
Giusto, giusto. Imperdonabile. Se mi chiedessero come vorrei scrivere,
risponderei come Kafka, che è perfetto nel suo meraviglioso tedesco, una lingua straniera
per lui nato a Praga.
A Praga hai dedicato pagine molto belle, riprese nel tuo libro di
prose, "Frau Doktor", "città davvero fatale", "sopravvissuta a
secoli di dominazione straniera aggrappandosi quasi esclusivamente alla ostinata e nobile
realtà della sua lingua." Hai immaginato Kafka in quelle strade. Ma che cosa
sceglieresti di Kafka?
"Il castello", la storia dell'agrimensore K. che vuole
lavorare e che si sente respinto da tutti. L'agrimensore di Kafka esprime l'aspirazione
dell'uomo a inserirsi in un ordine sociale. L'agrimensore chiede il minimo. In un saggio
Hannah Arendt scrisse che chiedere il minimo può equivalere a chiedere l'impossibile. I
nemici sono i burocrati del villaggio dominato dal Castello. Viene spontaneo identificarsi
nel modesto geometra. Anche se noi sopravviveremo. Per questo lo penso come un romanzo
sull'individuo isolato, sull'uomo occidentale in questo secolo. Dunque: Thomas Mann e
"La montagna incantata", Franz Kafka e "Il castello". Il mio
Novecento.
Che avrà un'appendice italiana...
Che si riassume in due nomi: Tomasi di Lampedusa con "Il
Gattopardo" e Carlo Emilio Gadda con "La cognizione del dolore" e con
"L'Adalgisa", che è un ritratto della borghesia milanese, come pochi ve ne
sono. Per il resto meglio di me potrebbe rispondere Pampaloni.