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Le radici profonde dell'istinto tribale

Massimo Piattelli Palmarini

 

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Questo articolo è apparso sul Corriere della Sera (www.corriere.it) del 10 luglio

Le scienze cosiddette "dure", come la fisica, la chimica e la biologia, da gran tempo stanno dimostrando con successo che molte cose sono l'opposto di quanto ingenuamente crediamo. E in genere, oramai, si accetta quanto ci dicono, anche se cozza contro il senso comune. Assai maggiori sono, invece, le resistenze ad accettare le scomode lezioni impartite da scienze come la psicologia, la sociologia, l'economia, e la più recente disciplina chiamata scienza delle decisioni. Prendiamo, ad esempio, la triste realtà dell'odio etnico. Una diffusa spiegazione, che lo stesso Marx avrebbe bollato come interpretazione "volgare" delle sue teorie, suggerirebbe che esso sia un travestimento di risentimenti dovuti a disuguaglianze di censo, di territorio e di potere tra i gruppi. Purtroppo è stato dimostrato che non è così, o non solo così. Gli esperimenti sono semplici e chiari.

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Il seguente funziona altrettanto bene con i bambini e con gli adulti. Un gruppo di soggetti viene suddiviso, manifestamente a casaccio, in due sottogruppi. Dopo qualche minuto, si chiede ai membri di un gruppo di osservare bene e poi dire in che cosa "loro" sono "diversi" da quelli dell'altro gruppo. Invariabilmente, sia i bambini che gli adulti, sciorinano un buon numero di differenze. Nessuno reagisce con stizza, dicendo qualcosa come "Che differenze vuole che ci siano? Ci avete suddiviso a casaccio!". Accostiamo ora questo meccanismo psicologico primigenio, creatore di differenze inesistenti, a quello messo in luce da un secondo esperimento.

Si riunisce un gruppo di soggetti e, dopo pochi minuti, li si suddividono, di nuovo manifestamente a casaccio, in due sottogruppi. Ciascun sottogruppo forma, in una stanza separata, una sorta di comitato. A ogni individuo viene data una certa cifra, poniamo dieci dollari, che è libero di tenersi, oppure di investire in tutto o in parte in un fondo comune fruttifero, in modo segreto. Il rendimento dell'investimento è dichiarato apertamente. I proventi del fondo saranno divisi tra tutti equamente, indipendentemente da quanto ciascuno ha segretamente investito. L'ideale per ciascuno sarebbe di non investire, sperando che, invece, tutti gli altri investano tutto. Pochissimi, però, si comportano così, investendo, di norma, almeno la metà della somma nel fondo comune. Ma, si badi bene, purché i proventi del fondo vadano "al nostro gruppo". Pochissimi, invece, investono nel fondo comune, se sanno che i frutti andranno all'altro gruppo (e viceversa, i frutti del fondo degli altri andranno a "noi"). Si noti bene, il comitato, estratto manifestamente a sorte, è stato in seduta solo per una ventina di minuti, eppure tanto basta a stabilire una solidarietà interna al gruppo, e una barriera di non-cooperazione verso l'altro gruppo. Siamo davvero alle radici psicologiche delle divisioni tra i gruppi.

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Chi, come Cristina Bicchieri, da anni professore di filosofia, scienze sociali e teoria della decisione alla Carnegie Mellon University, a Pittsburgh, in Pennsylvania, lavora sui complessi problemi dell'origine della cooperazione sociale e della razionalità economica, scava proprio tra queste radici. I suoi testi professionali, ricchi di equazioni e formule logiche, sconsigliano una distratta lettura sotto l'ombrellone.

 

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