Caro Habermas, questa guerra non va Alessandro Pizzorno
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Speciale/Gli intellettuali discutono la guerra
Ogni commento sulle vicende jugoslave non può che giungere gravato dal
sentimento della totale impotenza di ogni ragionamento intellettuale su quegli
avvenimenti. Lo accompagna, tenuissima, la speranza che prima che questi ragionamenti
diventino pubblici una buona notizia faccia intravvedere la fine del martirio. Per giorni
e giorni ci si è illusi che questa non fosse lontana, ma ogni volta la "nuova"
notizia ha solo perpetuato l'orrore.
Due temi sembrano però poter ancora sopportare un non vano tentativo
di ragionare. L'uno perché è di interesse generale e duraturo, e può valere la pena
continuare a farlo oggetto di dibattito ponderato : è la questione della natura e della
legittimità dei cosiddetti "interventi umanitari", o "guerre giuste"
che chiamar si voglia (forse c'è una differenza, ma non è rilevante qui). L'altro, al
contrario, perché è impellente e vicino, e quasi a portata di tutti noi in quanto
cittadini, ed è la questione degli interessi italiani in queste vicende, e
dell'adeguatezza della politica del nostro governo al riguardo.
Come definire gli "interventi umanitari"?
In un recente articolo in Caffè Europa, e poi sulla
"Repubblica" dell'8 maggio, Jürgen Habermas ha sostenuto la tesi che in attesa
della costituzione di un ordine giuridico internazionale, il quale sia fornito di
istituzioni capaci di giudicare e sanzionare le infrazioni ai diritti umani di questo o di
quel governo, è inevitabile fare affidamento a una politica dei diritti umani che
sia mossa da valutazioni morali, non giuridicamente determinabili. Sarebbe auspicabile che
una tale politica fosse nelle mani delle Nazioni Unite. Ma poiché queste attualmente sono
impotenti, in attesa che vengano riformate bisogna adattarsi a lasciar svolgere questa
funzione alla Nato. Anche se, e così si chiude l'articolo, "l'autoinvestitura della
Nato non può diventare la regola".
Beh, non basta! Troppe questioni son lasciate aperte. Ne vedo almeno
tre importanti: primo, a chi ci si deve affidare che sia responsabile e capace di dare il
giudizio morale che legittimi un intervento bellico che si pretende umanitario? Secondo,
chi è in grado di valutare e controllare se l'azione della "potenza umanitaria"
(poiché occorrerà chiamarla così) cui ci si affida, non sia in realtà guidata da
interessi nazionali o di potenza, che distorcano la sua condotta e tradiscano i fini
umanitari? E infine, quale luce getta sull'idea di una politica internazionale guidata da
principi morali, la circostanza che le Nazioni Unite sono attualmente impotenti a svolgere
il loro ruolo? Occorrerà rispondere attentamente a tali interrogativi, uno a uno,
applicandoli alle vicende jugoslave, se si vuol contribuire a far chiarezza sulla nozione
di "intervento umanitario".
1. Chi ha titoli per dare un giudizio morale che conta? Da un recente
sondaggio su un campione rappresentativo della popolazione russa risulta che alla domanda
"chi è da accusare per il conflitto nel Kossovo", il 51% ha risposto: "i
separatisti albanesi"; il 13%, "gli Stati mussulmani"; l'8%, "i
circoli militari della Nato"; il 2%, "il governo serbo"
(dall'"Economist", 1/5/99, p.30). Sono russi, si dirà, non sono imparziali, non
sono bene informati. Invece gli americani sì? Noi sì? Ne siamo sicuri?
Chi si sia limitato a seguire durante i primi tempi del conflitto la
televisione e la stampa quotidiana, e poi invece abbia cercato di informarsi da studi più
documentati e accurati, si è accorto facilmente del grado di manipolazione
propagandistica nel cui contesto si è giunti a formulare i giudizi con i quali fu
approvato il cosiddetto intervento umanitario. Oggi, bisogna riconoscere che diversi
giornali e trasmissioni in Italia offrono un'informazione non del tutto unilaterale. E del
resto i sondaggi di opinione registrano un'inversione degli atteggiamenti verso la guerra
del tutto inaspettata due mesi fa. Furono però le prime espressioni dell'opinione
pubblica occdentale, assai favorevoli all'intervento aereo, cui ci si riferì, almeno in
parte, per legittimarlo.
Non si dovrà dar troppo peso alle dichiarazioni, pur di per sé
raccapriccianti, della compagnia di pubbliche relazioni Rudder & Finn, che dal 1991,
per incarico dei governi croato e bosniaco, lavora per promuovere gli interssi anti-serbi
(si erano offerti di lavorare per Milosevic, ma questi li aveva respinti), e il cui
direttore ha scritto nel suo libro Les vérités yougoslaves ne son pas toutes bonnes a
dire: "Abbiamo potuto far coincidere nell'opinione pubblica serbi e nazisti.....
Siamo dei professionisti. Abbiamo un lavoro da fare e lo facciamo.... (Chi ora vorrà)
provare che i serbi sono delle povere vittime, coraggio, sarà tutto solo." (cit.
Quaderno speciale "Limes" sul Kossovo, p.31). Forse è casuale che nessun titolo
di scatola si sia mai letto sulla pulizia etnica che ha cacciato 700.000 serbi da varie
parti della ex-Jugoslavia, e che nessuna scena drammatica che li riguardasse è apparsa
sugli schermi televisivi. Ma non possiamo non riconoscere che i giudizi che siamo in grado
di dare su avvenimenti le cui notizie ci arrivano attraverso il filtro dei media sono
troppo insicuri per fondare un'opinione che serva a legittimare bombardamenti di città,
distruzioni di fabbriche e raffinerie, disastri ecologici. O dobbiamo magari fidarci
ciecamente delle informazioni che lasciano filtrare i servizi segreti della potenza
imperiale, quelli che sembra non possiedano neppure la mappa della città di Belgrado che
si compra all'edicola?
In un articolo sul "Daily Star" di Beirut (11/5/99, p.6) il
professore della Columbia University di origine palestinese Edward Said racconta di come
fu trattato da un presentatore della BBC, che lo intervistava, lui mussulmano, sulle
vicende del Kossovo. Quando, nel corso dell'intervista, si accorse che Said criticava
l'azione della Nato, il presentatore incominciò a perdere le staffe, urlando rinfacciò a
Said che così non era totalmente solidale con i suoi correligionari, e non lo lasciò
continuare. Questo la BBC! Nel corso dell'articolo Said interpreta quello che lui chiama
"lo straordinario ruolo propagandistico svolto dai media anglo-americani", come
dovuto alle partecipazioni attraverso le quali le cinque maggiori società che li
controllano sono legate all'industria bellica. Non so se questo sia vero, e in ogni caso
con questo tipo di argomenti mi sembra si voglia dimostrare troppo. Anche senza far
ricorso ad essi occorre però convincersi che ove si formi l'esigenza che qualche
autorità internazionale sia legittimata a condurre una politica dei diritti umani, con
relativi interventi bellici, non si potrà accettare che lo faccia sotto la pressione di
un'opinione pubblica frastornata da media incontrollabili (o, meglio, troppo ben
controllati). Anche senza voler aspettare che si arrivi a una giuridificazione delle
procedure, è indispensabile almeno che si dia luogo ad accertamenti e garanzie prima di
uscirsene con qualche ultimatum (Rambouillett, di fatto, è stato nient'altro che questo),
seguito da uccisioni e distruzioni di innocenti. Ma intanto, nel caso jugoslavo - si
potrà obiettare - le milizie serbe avrebbero continuato a cacciare gli Albanesi dalle
loro case. Lo hanno fatto assai di più dopo l'inizio dei bombardamenti. E si è sicuri
che si sia fatto davvero tutto, sin dall'inizio, per mediare il conflitto con l'Uck?
2. Se questo che ho detto vale per un'analisi dell'idea di intervento
umanitario in genere, come giudicare lo specifico intervento Nato ora in corso? È giusto
attribuirgli la qualità di un intervento umanitario? Pe rquanto mi riguarda, e credo di
non essere il solo, a sentirlo definire così avverto la stessa macabra risonanza di
quando leggo la scritta "Arbeit macht frei" all'entrata dei lager
nazisti.
Ma se ci si vuol tenere a ragionamenti di fredda logica, una sola
considerazione dovrebbe essere sufficiente. Tutti, anche da parte Nato riconoscono che
senza ombra di dubbio l'intervento ha provocato direttamente più rovine e più vittime,
e, indirettamente, più profughi, di quanti ci si poteva aspettare si sarebbero avuti
senza l'intervento. Una grande quantità in più. Ogni giorno che passa gli effetti
disumani dell'intervento umanitario si aggravano, e nessuno ha il coraggio di calcolare
quanto. Se il fine è umanitario, perché non ci si ferma? È una domanda ingenua, dicono
i realisti: la Nato non può perdere la faccia, non può mostrare di lasciarsi vincere da
Milosevic, deve condurre la guerra fino a che l'altro cede. Così infatti è, così è in
genere nelle guerre. In quelle che conosciamo dalla storia. In quelle, cioè, che nessuno
ha onestamente preteso di chiamare "umanitarie".
Altri dicono: occorre collocare la sospensione dei bombardamenti nel
quadro di un processo negoziale costruito sul ruolo centrale delle Nazioni Unite. Ma non
si sono aspettate le Nazioni Unite, come pur si sarebbe dovuto, per iniziarli, i
bombardamenti. Ci si rende conto del cinismo del concetto di "aspettare che
inizi..." quando ci si riferisce ai morti ogni giorno sotto le bombe? E non si vuol
cedere all'idea di una tregua "a tutti i costi". Ma quali costi? E come li si
misura rispetto ai costi di ogni giorno in più di bombardamenti? Si sospendano i
bombardamenti, si incominci a negoziare. Se poi Milosevic ricomincia, è sempre possibile
riprendere a bombardare.
I realisti, d'altra parte, il genere di realisti spuri che troviamo in
Italia (un realista di razza, come Kissinger, sa vedere le cose lucidamente, come ha
mostrato nell'articolo di "Repubblica" di qualche settimana fa, nel quale
escludeva che si potesse attribuire un fondamento umanitario all'azione americana)
abbandonano ogni criterio realista quando analizzano l'attuale politica degli Stati Uniti.
Dicono che non c'è altro modo di spiegarla che attribuendole fini umanitari. Pure
Habermas, lui troppo poco realista, ahimé! sembra convinto che in un caso come questo non
ci sia analisi di Realpolitik da mettere in opera. Basta a spiegar tutto la vecchia
componente idealista presente sin dai tempi di Wilson nella politica estera degli Stati
Uniti. (George Steiner è arrivato a parlare di "guerra altruista": ma ha perso
la testa?)
Davvero? Da "Newsweek" sappiamo che persino Clinton ha i suoi
dubbi. A un congresso di insegnanti ha sostenuto che la presenza degli Stati Uniti nei
Balcani risponde agli interessi del commercio estero americano. Non dobbiamo naturalmente
credere che Clinton abbia in tal modo rivelato la verità. Come per tante altre sue
dichiarazioni, in materia privata o pubblica, anche questa è fabbricata. Non va presa per
quello che dice, bensì per quello che involontariamente rivela. E rivela che neppure al
presidente degli Stati Uniti sembra possibile far bere ai suoi concittadini che tutto quel
po' di spesa pubblica buttato al vento (si fa per dire) nell'azione aerea sia
giustificabile col richiamo a fini umanitari, per di più così mal perseguiti. Allora
escogita una giustificazione che appaia plausibile al pubblico americano: l'interesse
economico.
Certo, non bisogna esagerare con le analisi cosiddette Realpolitik.
Molto spesso un governo si trova a prendere decisioni non ben calcolate che poi hanno
conseguenze assai diverse da quelle volute. Si dice che il governo americano era stato
informato (dalla solita CIA sprovvista di mappe) che alle prime bombe di Milosevic sarebbe
caduto. Il caso Saddam evidentemente non aveva insegnato nulla. In una recente
trasmissione televisiva, subito dopo aver informato il pubblico italiano che tale, appunto
- la fragilità della posizione politica di Milosevic - era stata per Washington la
premessa dell'azione aerea, un esperto americano di questioni strategiche, di cui ormai
quasi quotidianamente sopportiamo l'ossessiva presenza sui nostri schermi., si trovò di
fronte all'ovvia obiezione di uno spettatore: ma se proprio i bombardamenti hanno
rafforzato il consenso popolare intorno al governo! Certo, rispose tranquillo il nostro
esperto, anche un bambino sa che di fronte a un attacco nemico una popolazione
solidarizza con il suo governo.
Se è così sarebbe stato da augurarsi che Clinton, il quale pure a
comportamenti infantili sembra incline, almeno fosse quel tipo, appunto, di bambino che
sa. Invece no. Né lui, né la sua falcheggiante Segretaria di Stato, né il
comandante delle forze Nato, che sempre sorridente ci spiega come dia gli ordini di
bombardare. Di costui si dice che ce l'abbia personalmente con Milosevic perché in un
certo incontro ne è stato trattato sprezzantemente. Della Albright si dice che dopo mesi
e mesi di insuccessi della sua azione diplomatica, e di personali brutte figure che
l'avevano portata sull'orlo, purtroppo non oltrepassato, delle dimissioni, volesse creare
una situazione di tensione in cui potessse far valere la sua fermezza aggressiva e così
rendersi indispensabile. Di Clinton si dice che essendo uscito molto indebolito
dall'affare Lewinski.... e via discorrendo.
Questo e altro si può trovare nella cucina in cui si preparano i
piatti della politica estera, che non sempre riescono secondo le ricette. E se ne potrebbe
concludere che i nostri eroi, accortisi di aver mal calcolato le misure (e si ricordi che
pur lo Stato Maggiore di Washington li aveva messi sin dall'inizio sull'avviso), per
cancellare le conseguenze dello sbaglio che han fatto, s'intestardiscono a buttar giù
bombe fino al completamento della soluzione finale, l'unica che son capaci di concepire,
con annessa distruzione di un intero paese (scusandosi magari di qualche "tragico
errore" per via). Nessuna avance di Milosevic per cedere salvando la faccia
viene presa in considerazione, anzi, i bombardamenti s'infittiscono, costi quel che costi,
il cinquantunesimo più del cinquantesimo, il cinquantaduesimo più del cinquantunesimo,
più morti, più storpi, più famiglie senza casa e senz'acqua, più profughi, più
petrolio nei fiumi, più disastri ecologici.
Le dichiarazioni dei militari della Nato sono di un cinismo inumano,
difficilmente credibile. "Noi piloti avremmo voluto martellare già dalla prima
notte" (il generale Short, al "New York Times"). Le limitazioni ai
bombardamenti per evitare i cosiddetti danni collaterali sono giudicate
insopportabili. "Se un pilota mi comunica di aver visto dei carrarmati nascosti nelle
case, io devo potergli dire: Ok, vai e distruggi i carri armati. Se poi per errore centra
le case...." Del resto, al recente vertice della Nato a Washington è stato deciso
che la scelta degli obiettivi spetta ai militari, senza obbligo di consultare i politici.
Era stata appena distrutta la sede della televisione di Belgrado, il ministro Dini aveva
timidamente protestato per non essere stato avvertito che quell'edificio era stato incluso
tra gli obiettivi bellici. Si è tagliata la testa al toro: i militari non siano più
tenuti ad avvertire i politici. Spetta solo ai militari decidere. Che i politici la
chiamino pure "guerra umanitaria", è guerra. Dini è sistemato. Il
Presidente che non aspirava il fumo della marijuana si è riscattato.
Insomma, la descrizione più realistica sembra essere quella di una
serie di azioni irrazionali che hanno provocato un groviglio burocratico-psicologico, dal
quale la Nato non è in grado di districarsi altro che distruggendo ancor più città e
ammazzando ancor più jugoslavi, ortodossi e mussulmani che siano. Sperando che nel
frattempo Milosevic se ne vada e si possa cantar vittoria in una guerra che ormai è una
terribile sconfitta per tutta l'umanità.
Ma non c'è solo questo, le occasioni possono essere quelle che sono,
ma la logica di potenza decide delle conseguenze e ne trae un significato che dura. E
questo va trovato nell'affermarsi dell'imperativo di una presenza diretta e forte degli
Stati Uniti ai confini turbolenti dell'impero. Perché questo è il modo di evitare che il
controllo dell'ordine imperiale venga demandato ad altre potenze, pur non attualmente
rivali, ma che possono diventarlo in prospettiva, quale Europa in formazione (ed è solo
occasionale che in un primo momento siano stati proprio gli Europei impotenti e confusi a
chiamare in soccorso gli Stati Uniti). E intanto la guerra, come ha spiegato Brezinsky, e
come Blair ha capito al volo, permette di accertare quali sono gli alleati fedeli su cui
contare, e quelli titubanti.
3. Quest'ultima considerazione vale anche a rispondere al terzo
interrogativo che avevo posto: perché le Nazioni Unite oggi sono deboli. Perché è
interesse degli Stati Uniti tenerle deboli. Non pagano la loro quota. Non vogliono che le
loro truppe operino agli ordini di comandanti designati dall'Onu. Westendorp, l'incaricato
spagnolo alla guida della ricostruzione della Bosnia, non può dare ordini alle truppe di
occupazione e di fatto non risponde all'Onu, ma alla Nato. Con risultati disastrosi, come
si sa. La Bosnia, dopo quattro anni dall'inizio della ricostruzione, non ha una funzione
giudiziaria indipendente, non ordine legale, non la minima attività economica propria
(sono dichiarazioni di Klein, l'assistente americano di Westendorp). Si pensi a quale
minima porzione della spesa per i bombardamenti in corso sarebbe stata sufficiente per
l'apprestamento di truppe Onu ben equipaggiate, che sostenessero la disastrosa missione
Osce ( e vedi l'articolo al riguardo sul Quaderno di "Limes" che ho citato
prima), e di campi di accoglienza dignitosi per profughi, ancora non numerosi, prima che a
Rambouillet si volesse imporre la presenza Nato su tutto il territorio, e poi si
iniziassero i bombardamenti.
E il nostro governo?
Il nostro governo cerca di distinguersi un po', ma non molto.
Probabilmente cerca di muoversi dietro le quinte. Apparentemente non con molto successo.
È vero che l'azione diplomatica è in genere più efficace se si svolge dietro le quinte.
Ma non sempre. L'Italia è il paese più coinvolto dagli avvenimenti nel Kossovo. È
geopoliticamente interessata ai Balcani più di ogni altro paese della Nato, eccettuata la
Grecia. Mette a disposizione le basi per i bombardamenti, con non poco disturbo per
l'organizzazione della sua vita civile. Aiuta i profughi più di altri paesi. Li riceve in
Italia in gran numero, quelli concordati, e ancor più quelli clandestini. È
probabilmente vittima del traffico di droga organizzato dall'Uck. Nelle reti dei suoi
pescatori trova le bombe lasciate cadere dall'Adriatico dagli aerei della Nato. Avrebbe
più giustificazioni di altri per far valere le proprie ragioni.
Di fronte a tutto questo, si dice che la preoccupazione maggiore del
nostro presidente del Consiglio sia quella di dimostrare che l'Italia è un "alleato
serio". L'sperto strategico americano di cui parlavo prima, ha tessuto una sera
l'elogio di questa affidabilità che rappresenterebbe D'Alema per gli stessi alleati della
Nato, e che lo legittimerebbe sulla scena internazionale. Gli è stato obiettato, da una
deputata Ds, che D'Alema è legittimato da altro, dalla storia del suo partito. Beh!
proprio da quello non direi. È vero piuttosto che la storia del Pci, almeno dal
dopoguerra, è una storia segnata dall'ansia di venir considerato un partito serio,
rispettabile (il complesso del figliol prodigo, lo chiamò una volta Bobbio). Ed è
un po' come se quest'ansia non sia stata del tutto cancellata andando al governo. Non è
difficile giustificarla, del resto. mancano episodi di poca rispettabilità nella storia
della politica estera italiana.
Se però la serietà è una qualità necessaria, non è sufficiente.
L'affidabilità è un buon principio guida nelle alleanze e nei negoziati, ma si può
anche essere affidabilmente sottomessi. Tali, del resto, ci vorrebbero quegli ineffabili
commentatori di qualche grande organo d'informazione, bramosi soprattutto di servilismo, i
quali predicano un cieco tenersi stretti all'alleato americano come unico principio guida
per la politica estera italiana.
Riconosciamo che la diplomazia lavora meglio dietro le quinte, ma ci
sono momenti in cui un'opinione pubblica avvertita e che si esprime ad alta voce può
aiutare un governo a sostenere meglio le sue posizioni nei confronti degli altri governi.
Non è esigenza di più democrazia, ma di più efficacia. Perché insomma il Governo non
espone davanti al paese, davanti al Parlamento, le linee di politica estera che lo stanno
guidando? Perché non dice chiaramente per quali criteri ritiene che questo tipo
d'intervento aereo sia da giudicare umanitario, e quindi da sostenere in ogni caso, o fino
a quando? Se il principio che la Nato possa intervenire dove e quando lo decidano i paesi
membri, in pratica gli Stati Uniti, anche in assenza di una risoluzione dell'Onu, debba
restare valido in ogni circostanza; o invece debba considerarsi limitato. Se proporrà che
gli accordi per le basi aeree continuino così come sono, o se vuole rinegoziarli, e
secondo quali principi, e in vista di quali costi e di quali benefici (negli anni settanta
Berlinguer poteva aver ragione nel voler fare affidamento sull'ombrello Nato, ma oggi?).
Se c'è una posizione italiana sul riordino dei Balcani, e qual è. Se il principio
"un'etnia, uno Stato", per questo riordino, sia realistico. Se l'idea di una
grande Albania, o anche solo del Kossovo indipendente, e quindi dell'inevitabile
dismembramento della Macedonia, la cui popolazione è formata per un terzo da albanesi,
sia da considerare uno sviluppo positivo? Se l'Italia accetta che l'Uck rifiuti di deporre
le armi, anche in caso d'accordo di cessate il fuoco, come ha appena dichiarato. Siamo in
guerra, anche se la combattono gli altri, e il governo è muto sulla natura, gli obiettivi
reali, le conseguenze di questa guerra. Nient'altro che alibi umanitari. Ma ce ne rendiamo
conto?
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