Bobbio: "Sta fallendo la guerra dei
diritti" Giancarlo Bosetti
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Speciale/Gli intellettuali discutono la guerra
TORINO. Norberto Bobbio tira fuori da cumulo di ritagli di giornale una
pagina che gli è piaciuta. Forse è anche una mossa diplomatica; infatti siamo qui in
due, nel suo studio, io per "l'Unità" e Alberto Papuzzi per "la
Stampa" e la pagina che ci propone è della "Repubblica". La firma
Francesco Erbani che ha "censito" le posizioni degli intellettuali sulla guerra.
La classificazione in "favorevoli" (tra i quali è catalogato lui medesimo),
"contrari" e "incerti", ed anche il vasto repertorio di opinioni
raccolte, incontrano il suo apprezzamento, ma l'insieme sembra fatto apposta per stimolare
il suo scetticismo sulle pretese degli uomini di cultura. E ci si mette anche lui, nel
novero. "Tot capita, tot sententiae. Non c'è niente - commenta - che li tiene
insieme. È una categoria, quella degli intellettuali, che non esiste dal punto di vista
delle idee che sostengono. Ci sono quelli che provocano, quelli che stimolano il
ripensamento, molti dicono cose interessanti, ma l'uno diversamente dall'altro, l'uno
contrapposto all'altro: mille sfumature. E sapete che cosa hanno in comune? Perchè una
cosa in effetti ce l'hanno: la presunzione di contare qualcosa in una situazione nella
quale invece non contano niente. Non formano una opinione, sono semplicemente persone che
credono, attraverso queste loro riflessioni, di avere una parte, che non hanno".
Siamo qui per raccogliere le repliche di Bobbio a quanti lo hanno
criticato, come Michael Walzer, Eric Hobsbawm, nonchè molti suoi amici ed estimatori, ma
il discorso, come vedete, comincia dagli intellettuali.
Il famoso "ruolo degli intellettuali", Bobbio! Nel corso dei
decenni quante volte è tornato! Questa guerra però rimescola le carte.
"E mi fa venire in mente un modo nuovo di dividerli: prima di
tutto ci sono i "deprecatori" della guerra. Questi, tra tutti gli intellettuali
che già contano poco, sono quelli che contano meno. Deprecare la guerra è una cosa sin
troppo ovvia. Dire, per esempio, che questa guerra "è una follia", non
significa niente. Il pacifismo generico non è altro che una predica. Discorsi che non
hanno conseguenze pratiche. Stimolano emozioni ma non hanno efficacia. E predica per
predica, allora la più autorevole è quella del Papa. E anche il Papa è arrivato fino ad
annunciare che pregava Padre Pio perchè intercedesse a favore della cessazione della
guerra. Mi domando se creda veramente che il Pentagono possa essere influenzato
dall'intercessione di Padre Pio."
L'aspirazione alla pace è fortunatamente diffusa tra gli esseri umani
in tanti modi. Perchè deprimerla?
"Se vogliamo la forma più classica di questa forma di
deprecazione della guerra, la troviamo nella Querela Pacis di Erasmo da Rotterdam.
Leggetevela in questa bella traduzione Einaudi, testo latino a fronte. La pace è
descritta come una donna che gira il mondo ed è scacciata da tutti, scrittori, preti,
teologi. Tutti la allontanano come importuna e lei cerca di spiegare le sue ragioni senza
mai riuscirci. Fatica vana. Quel libro è il testo base della categoria degli
intellettuali "deprecatori"."
Vediamo le altre categorie.
"La seconda: sono gli intellettuali "del giudizio",
quelli che entrano nel vivo della questione e si pongono il problema se questa guerra sia
da fare o non sia da fare, se sia giusta o ingiusta, o meglio se sia legittima o
illegittima, se sia eticamente giustificata o no, con tutta la discussione che ne
segue."
E che adesso faremo. Ma vediamo la terza categoria. Dopo i
"deprecatori" e gli intellettuali "del giudizio" chi viene?
"Viene la categoria in cui io, ambiziosamente, mi colloco: gli
intellettuali che ritengono loro funzione non quella di giudicare ma di comprendere e far
comprendere, non di dare giudizi, che spesso sono emotivi e difficili da argomentare, ma
di usare i loro strumenti, la esperienza, la logica, per argomentare pro e contro. Tra gli
argomenti forti questa categoria mette i fatti. E tra questi fatti c'è l'egemonia
americana e una guerra decisa essenzialmente da loro."
Allora la terza categoria sono gli intellettuali "realisti"?
"E in effetti la mia posizione è realistica, più fondata sui
fatti che non sui principi. Piaccia o non piaccia, questa egemonia è un fatto, a me pare,
non discutibile. E non si tratta solo di un fatto compiuto, ma di un fatto storicamente
giustificato, perchè come ho spiegato, nella precedente intervista, gli Stati Uniti, che
hanno in questo secolo sempre vinto, hanno vinto dalla parte dei valori della democrazia e
della libertà. Se mai, sembra che io abbia fatto il passo più lungo della gamba, quando
mi è scappata l'espressione "giustificazione etica". No, è una giustificazione
fattuale che non coinvolge la "morale". In verità quando mi sono riferito, un
po' provocatoriamente a Hegel, al suo principio in base al quale "ciò che è reale
è razionale" e alla sua visione della storia come storia della libertà, per cui
l'egemonia di un popolo rappresenta il momento della libertà del mondo, avrei dovuto
essere più preciso e spiegare che in Hegel, tra l'altro, quella che lui chiama
"Sittlichkeit", e che traduciamo approssimativamente come "eticità",
è qualcosa di diverso dalla "morale". In sostanza mi riferivo al
"senso" della storia nello storicismo hegeliano."
Quel "senso della storia" faceva rabbrividire Karl Popper e
con lui molti liberali antistoricisti, perchè nel nome del "senso della storia"
e della pretesa di conoscerlo si sono commesse molte malefatte.
"Ma tutta la cultura liberale dell'area anglosassone a cui Popper
appartiene non ha molto amato Hegel. Forse non l'ha neppure capito."
Ma torniamo alle categorie degli intellettuali. Quelli "del
giudizio" sono molto divisi.
"Ci sono i favorevoli, e vedo collocati in questa schiera anche
autori di sinistra come Vittorio Foa ed Enrico Deaglio, che sono mossi dalla ragione
fondamentale di combattere il tiranno. C'è chi come Barbara Spinelli ritiene che questa
sia una guerra contro il comunismo. E ci sono quelli organicamente dalla parte degli Stati
Uniti, come Carlo Jean. Mi ha colpito molto, sempre tra i favorevoli, George Steiner. In
una recente intervista ha definito questa guerra "altruista": per la prima volta
assistiamo, ha detto, a una guerra disinteressata che non ha fini di conquista. Tra i
contrari, invece, Mario Vargas Llosa (è una guerra inutile, perchè forse le sue
conseguenze sono peggio del male contro il quale è stata mossa), Eugenio Garin (non ci
sono guerre giuste), Sergio Romano (è una guerra sbagliata), l'ambasciatore Luigi
Ferraris (una guerra "inefficace" che ci creerà problemi nei rapporti con la
Serbia). E ci sono i sostenitori di un pacifismo di maniera, come Pietro Ingrao e in
generale il "Manifesto"."
Per molti dei "contrari" la sua posizione, Bobbio, fa
scandalo. La accusano di condiscendenza verso il fatto compiuto: fatto compiuto l'egemonia
americana, fatto compiuto la decisione di fare questa guerra, che non è combattuta
dall'Onu ma dalla Nato.
"Fa scandalo per chi rifiuta di prendere atto che il diritto non
nasce nel cervello di Giove ma nasce dai fatti. Ex facto oritur ius. Fa scandalo solo se
si rifiuta un principio elementare della cultura giuridica. Sappiamo benissimo che molti
grandi e nobili casati hanno origine dal brigantaggio. Quando i conquistatori andavano a
occupare le terre il loro diritto derivava dall'occupazione, che è un fatto. Prior in
tempore, potior in iure. Ma come si fa a non riconoscere l'importanza del fatto, il
principio di effettività che è alla base della nascita di tanti diritti? È vero, l'ho
già detto, che questa guerra non è pienamente legittima, che è fuori dalle regole della
Carta dell'Onu, ma è anche vero che oggi il diritto internazionale si sta
istituzionalizzando, come ha sostenuto nel suo saggio Jürgen Habermas, che è in corso
una sua progressiva istituzionalizzazione. Esso non è più lasciato ai rapporti di forza
tra gli stati; si sono cominciate a fissare delle regole: il tribunale internazionale per
i crimini di guerra, norme contro il genocidio. Ci sono già dei giudici che, in base a
queste regole, sentenziano al di sopra del potere dei singoli stati."
Michael Walzer non è d'accordo, la dimensione giuridica dell'Onu non
è ancora quella del diritto positivo. L'Onu non è paragonabile a uno stato sovrano.
Quella del diritto internazionale, degli interventi per crimini contro l'umanità è una
dimensione di doveri e diritti "imperfetti".
"E ha ragione nel definirli imperfetti, ma l'approvazione e la
messa in vigore di questi diritti "imperfetti", il loro enforcement è uno dei
fenomeni più straordinari e innovativi del diritto internazionale. D'accordo, un
tribunale internazionale non ha ancora le stesse facoltà che il giudice di uno stato ha
verso il criminale giudicato in quello stato, ma la tendenza verso la messa in vigore di
questi poteri coercitivi è già in atto. Dunque di fronte ai crimini di Milosevic non
possiamo dimenticare questa progressione istituzionale del diritto internazionale e
lavarcene le mani sostenendo, come fanno molti pacifisti, che gli Stati Uniti stanno
facendo quello che vogliono, a loro arbitrio. In un paese, sappiamo, accade che venga
impiegata la forza per commettere l'illecito e che lo stato impieghi a sua volta la forza
per sanzionare l'illecito. Noi ci stiamo avviando verso una situazione in cui anche sul
piano internazionale, per analogia, sempre di più sarà prevista la possibilità di
impiegare la forza per sanzionare l'illecito. Forza lecita contro forza illecita, questo
è il diritto. Non possiamo confondere l'una con l'altra e mettere sullo stesso piano la
Nato e l'esercito o la polizia serbe."
La distinzione è chiarissima negli ordinamenti statali: i criminali
contro la polizia. Sul piano internazionale è più complicato.
"La differenza si può stabilire soltanto se c'è un ordinamento
giuridico. E si capisce che in uno scontro internazionale questa distinzione è più
difficile. Ma il problema del lecito e dell'illecito sul piano internazionale si è
spostata a poco a poco dal terreno vago delle valutazioni morali a quello delle regole
giuridiche. Proprio per questo dobbiamo abbandonare criteri puramente morali per stabilire
chi ha ragione e chi ha torto, e dobbiamo passare dalle regole morali a quelle giuridiche.
Ed ha perfettamente ragione Habermas quando sostiene che siamo in cammino tra morale e
diritto."
Walzer invece sembra avversare l'idea di un ordinamento
internazionale, lo teme come un possibile mostro di dimensioni gigantesche.
"L'ideale kantiano di un ordinamento cosmopolitico non è una
utopia, non è una profezia, è un ideale limite. Anch'io penso che la messa in vigore di
un ordinamento internazionale sul modello di uno stato presenti il pericolo del dispotismo
universale. Lo stesso Kant temeva la "monarchia universale". La
istituzionalizzazione internazionale del diritto deve necessariamente procedere di pari
passo con un duplice processo di democratizzazione:da un lato l'estensione del regime
democratico a tutti gli stati esistenti, dall'altro la democratizzazione del potere
centrale della loro unione. Oggi per l'Onu non è cosi. Non abbiamo nè la prima nè la
seconda condizione. Qualsiasi stato ne può far parte, non è prevista una condizione di
democraticità. È sufficiente che quello stato esista. Si richiede soltanto la
effettività (rieccola). Uno stato per far parte dell'Onu deve semplicemente essere in
grado di mantenere il proprio potere in modo continuo e stabile."
Se lei crede nel cammino verso un pieno ordinamento giuridico
sovranazionale e vede questa guerra, come Habermas, a mezza strada verso quell'obbiettivo,
perchè ha parlato allora di analogie tra questa guerra e le "guerre sante"?
"Perchè se si attribuisce un valore etico alla guerra come
tendono a fare gli americani, allora si ritorna a un principio di giustificazione arcaico.
È vero che Eisenhower ha intitolato le sue memorie sulla guerra "Crociata in
Europa", ma non possiamo impiegare un criterio analogo per giustificare questa
guerra. Io ho parlato di guerra santa per mettere in guardia contro un rischio: se si
insiste sulle ragioni umanitarie, cioè morali, dell'intervento nei Balcani, torniamo al
principio inaccettabile delle crociate, mentre quella che abbiamo di fronte oggi è una
nuova causa di guerra, completamente diversa dalle precedenti: una guerra per il rispetto
dei diritti dell'uomo."
Che non sono però stabiliti con la stessa limpidezza e forza che ha in
uno stato il diritto civile e penale.
"Ma con la dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, anche
se qualcuno l'ha definita una collezione di pii desideri, è avvenuto un cambiamento
fondamentale: che non sono più soltanto gli stati i soggetti del diritto internazionale,
ma gli individui, tutti i cittadini di tutti gli stati. Siamo tutti soggetti del diritto
internazionale in quanto abbiamo questi diritti nei confronti del nostro stesso stato, e
in quanto esso ha accettato la dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. È l'inizio
di una nuova storia. A questo punto la guerra internazionale diventa un'azione di
polizia."
Ora però bisogna anche guardare a come la guerra sta andando nei
fatti.
"E sono il primo a dire che di una guerra bisogna guardare i
risultati. Respice finem. Tutti siamo persuasi che la discussione sulla guerra giusta o
ingiusta non cava un ragno dal buco se poi non applichiamo un criterio realistico, quello
dei risultati. E qui possiamo dire effettivamente che questa guerra è già fallita, che
per incapacità, inefficienza, errori strategici (la pulizia etnica era davvero già
cominciata prima dei bombardamenti?) si presenta come il "pasticcio" di cui
parla Hobsbawm. Dal punto di vista dei risultati forse possiamo già oggi definirla una
guerra sbagliata. Ed è inutile che si faccia scandalo perchè - di questo mi accusano -
Bobbio dice che ha ragione chi vince, se vince. A queste critiche rispondo che è inutile
fantasticare. È vero o non è vero che la storia dà ragione a chi vince? Ci sono dei
fortunati casi in cui c'è una corrispondenza tra chi vince e chi ha ragione. E in questo
secolo la coincidenza c'è stata per le vittorie degli Stati Uniti. Lo ripeto ai miei
critici antiamericani: ritenete che sarebbe stato meglio che vincessero i nazisti? O che
l'Europa fosse occupata dall'Unione sovietica? Potete negare che l'egemonia americana
nasce dal fatto che l'Europa deve la propria salvezza agli Stati Uniti? Senza lo sbarco in
Normandia l'Europa sarebbe diventata nazista o comunista. Volete fare questo esame di
coscienza ed ammetterlo?"
Hobsbawm sostiene che non è vero che la storia sia un seguito di
egemonie gobali. Sono state egemonie parziali e limitate nel tempo e nello spazio. È la
prima volta che abbiamo di fronte un mondo unificato dalle tecnologie e dall'economia.
"Ma come? Non c'è stata l'egemonia britannica nel XIX secolo? E
non si è estesa su tutto il mondo, fino all'India, all'Australia? Ricordo la linea rossa
sulle carte scolastiche che percorreva tutta l'Africa, dall'Egitto al Sudafrica, e
indicava le colonie inglesi. No, non è la prima volta che uno stato si presenta come
guida del mondo, con una egemonia che non è solo militare o tecnologica, ma anche
economica e culturale. E l'Impero romano? Quale migliore prova di quello che dico il fatto
che per secoli il latino sia stata la lingua universale e che oggi lo sia l'inglese?"
Hobsbawm dice che la sua è una visione eurocentrica.
"Guardate, io non nego affatto nè che gli Stati Uniti siano
prepotenti nè che dalla Cina o dall'America latina le cose possano apparire diversamente,
ma vedo anche che ci sono ancora molti pregiudizi antiamericani della sinistra. Come si
può negare la analogia tra la pax romana e la pace americana. Siamo entrati in una nuova
fase della storia destinata ad essere contrassegnata, come ho già scritto, dalla
"pace d'impero". A chi ne dubita chiedo: si è accorto quante volte le
trattative di pace di lontane aree del mondo si svolgono alla Casa Bianca anzichè nel
Palazzo di vetro delle Nazioni Unite? A Hobsbawm può dispiacere questo fatto, ma non può
negarlo"
Una conclusione comunque questa guerra dovrà averla.
"Sono io tentato di chiedere, ora che siamo arrivati a un punto
tragico, che cosa faranno gli Stati Uniti? Sembrano costretti dalla forza delle cose a
continuare fino alla resa incondizionata di Milosevic. Ma intanto l'andamento delle azioni
militari non sembra in grado di raggiungere lo scopo. Come andrà a finire questa guerra
io non lo so. So soltanto che diventa ogni giorno più atroce rispetto alle prime
previsioni. E anche chi era favorevole alla guerra non può non porsi il problema delle
proporzioni tra i mezzi e il fine, una proporzione che si sta evidentemente perdendo. I
bombardamenti e gli errori non bastano mai?"
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