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Il mito di Narciso



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Questa intervista fa parte dell’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, un’opera realizzata da Rai-educational in collaborazione con l’Istituto italiano per gli studi filosofici e con il patrocinio dell’Unesco, del Presidente della Repubblica Italiana, del Segretario Generale del Consiglio d’Europa.

L'obbiettivo è quello di diffondere nel mondo, tramite le nuove forme d’espressione e comunicazione sociale consentite oggi dalla tecnica, la conoscenza della filosofia nel suo svolgimento storico e nei termini vivi della cultura contemporanea.

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Professor Curi, parliamo del tema dell'amore, la cui ricorrenza in numerosi miti dell'antichità è assai nota: a quale di questi ci si potrebbe rivolgere per una considerazione filosofica dell'amore, intendendolo cioè nel suo rapporto con la conoscenza?

Innanzi tutto, penso sia opportuno partire da una precisazione a proposito dello stesso concetto di mito. Come è noto il termine italiano mito deriva dal greco mythos che ha un equivalente pressoché diretto nel latino fabula; quanto all’origine etimologica della parola greca mythos, non esiste un parere unanime fra gli studiosi. L'orientamento prevalente è quello di far derivare mythos dal verbo myo, che vuol dire “essere racchiuso”, “stare chiuso in se stesso”. Vedremo come questa possibile etimologia sia anche in grado di fornire indicazioni importanti per quanto riguarda il significato della parola mythos. Si deve ricordare in ogni caso che, fino a tutto il V secolo, il termine greco mythos coincide, dal punto di vista del significato, con il termine che in seguito fu usato in opposizione ad esso, cioè logos.

Da Omero fino, all'incirca, a Platone e a Tucidide, mythos è l'equivalente di “parola” o “discorso”; viene anche usato come sinonimo di “consiglio”, “ammonimento” e in qualche caso anche di “ordine”, indipendentemente dal contenuto di verità o falsità di questo discorso. Esiste una coincidenza di significato o, se vogliamo, una indistinguibilità di significati, fra mythos e logos, nel senso che entrambi alludono a discorsi in senso generico, senza alcuna precisazione circa il loro contenuto di verità o falsità.

E' solo con il IV secolo, dunque con Tucidide e con Platone, che si assiste ad una netta distinzione fra i due termini e ancor più, ovviamente, tra il concetto di mythos e quello di logos. È Tucidide a sottolineare la necessità di espungere dal racconto che intenda essere storico tò mythôdes, cioè l'elemento mitico, tutto ciò che, in qualche modo, sia connesso con la tradizione orale; ed è Platone a operare una distinzione molto precisa, ad esempio nel Sofista, fra i discorsi dei filosofi presocratici, i quali sembrano raccontare soltanto un mythos allorché alludono alle forme in cui si esprimerebbe la arché della physis, il ‘principio’ della natura, e la verità del logos.

Tra verità razionale e rappresentazione mitica non c'è nessuna relazione? Oppure nel mito è sottintesa, e poi anche si svela, una verità che possiamo definire filosofica?

Per ritornare alla possibile etimologia della parola, se è vero che mythos si può far derivare dal verbo myo, secondo l'interpretazione che ne ha fornito, ad esempio, Creuzer, si può intendere il mythos come quel discorso nel quale è “racchiusa” una verità: in una qualche misura sarebbe il discorso la cui verità, il cui contenuto, non è esplicitamente espresso, e va pertanto interpretato allo scopo di cogliere la verità che custodisce. Questa premessa è importante, a mio giudizio, per sottolineare un aspetto del ragionamento che si cercherà di svolgere a proposito di alcuni miti classici, nei quali il tema filosofico del rapporto amore-conoscenza viene trattato con particolare ampiezza e rigore. Occuparsi in chiave filosofica dei miti non vuol dire affatto abbandonare il terreno impegnativo dei testi filosofici, per consegnarsi al più agevole sentiero della riflessione in chiave mitica.

Al contrario, si tratta di riferirsi a testi come quelli che contengono i miti dell'antichità, con l'impegno, alla lettera, di farne sprigionare la verità in termini filosofici. Pertanto il lavoro filosofico sul mito richiede, al limite, persino maggiore impegno, cioè disciplina intellettuale e rigore analitico, di quanto non sia necessario per l'analisi di testi soltanto filosofici. Questo, comunque, a condizione che si vada al di là di quello che è il contenuto favolistico del mito, e se ne sappia cogliere il significato in termini filosofici.

Per ritornare alla domanda che è stata posta, certamente tra i numerosissimi miti che compongono il repertorio mitologico dell'antichità ve ne sono due particolarmente significativi per quanto riguarda il tema dell'amore, e cioè il mito di Narciso e quello di Orfeo e Euridice. Fra i miti classici, quello di Narciso attesta al massimo la ricorsività, pressoché ininterrotta, della storia della cultura occidentale. Se facciamo risalire, come è necessario, la prima versione completa del mito al libro III delle Metamorfosi di Ovidio, abbiamo la possibilità di cogliere uno sviluppo, una tradizione, che abbraccia quasi due millenni della cultura occidentale. Pressoché contemporanea alla versione di Ovidio è quella di un autore greco, Conone; a queste due versioni segue quella di Pausania, nel II secolo d.C.; assistiamo poi ad uno sviluppo pressoché ininterrotto, salvo alcune fasi di relativa eclissi, in cui questo mito viene riletto, ripresentato, reinterpretato in forme e in contesti diversi, con significati e funzioni notevolmente differenti fra loro.

Se volessimo continuare a tracciare una storia per grandi linee di questo mito, dopo la versione di Pausania potremmo ricordare la ripresa realizzata in età medievale, in seguito alla prima traduzione in lingua moderna delle Metamorfosi di Ovidio (risalente al 1180), nonché al fiorire di quella che è stata definita la prima aetas ovidiana, coincidente con l'inizio del XIII secolo. Dovremmo poi seguire la fortuna del mito attraverso le sue riprese rinascimentali, e attraverso l'importante, anche se breve reinterpretazione offertane da Francesco Bacone; ricordare il testo assai significativo che Rousseau ha dedicato al mito di Narciso, nonché l'importanza che questa figura mitologica ha avuto nella cultura tedesca dell'Ottocento, e in particolare in autori come Herder, Hamann e in una serie di altri letterati o pensatori dell'Ottocento tedesco, i quali sovente si sono riferiti alla figura di Narciso, reinterpretata perlopiù in chiave romantica.

Inutile poi ricordare come al mito di Narciso abbia riservato particolare attenzione Sigmund Freud, facendo della figura di Narciso in certa misura l'emblema, la rappresentazione, di una forma in cui si manifestano l'eros e la pulsione erotica, nella forma determinata, appunto, dell'amor sui, dell'amore per se stesso. Ma, sempre dal punto di vita filosofico, uno dei testi più recenti che riprende, non solo nel titolo, il riferimento a Narciso, è quello di Louis Lavelle, intitolato, appunto, L’errore di Narciso. Una tradizione, dunque, bimillenaria, testimonia l'importanza, la carica di suggestione del mito e la capacità che esso sembra avere di suggerire impostazioni molto diverse tra loro, ma sempre particolarmente ricche di indicazioni e, appunto, di suggestioni.

In ogni caso, il primo autore che ci riferisce il mito di Narciso, è Ovidio. Qual è il contenuto di questo mito?

Quella di Ovidio è senz’altro la prima versione completa e dettagliata: Ovidio è l'unico autore dell'antichità che ricostruisca la vicenda di Narciso dalla nascita fino alla trasformazione - alla metamorfosi, appunto - in fiore, ed è anche l'unico autore dell'antichità che collega la sua vicenda a quella di Eco. Anzi, nel contesto delle Metamorfosi sarebbe giusto parlare del “mito di Eco e Narciso”, piuttosto che di “mito di Narciso”. Ho accennato ad alcune versioni coeve a quella di Ovidio; penso che possa essere utile ricordare come Conone interpreti il mito di Narciso. Egli lo intende come espressione di un'eccessiva superbia da parte del protagonista, che rifiuta le profferte d'amore ricevute, e si mostra talmente sdegnoso nei confronti di quanti esprimono amore nei suoi confronti, da inviare una spada ad Aminia (uno dei giovinetti che lo amano), con l’implicito invito ad usarla, per uccidersi. Ma il suicidio di Aminia è in qualche modo colpa di Narciso; e qui entra in gioco uno dei grandi temi di carattere filosofico che attraversano questo e altri miti dello sconfinato repertorio classico, e cioè il binomio colpa-punizione. La colpa di avere indotto Aminia al suicidio verrà pagata da Narciso, il quale morrà nell’impossibilità di realizzare l'amore che ha concepito per la propria immagine riflessa.

Ma ancora più interessante è un'altra versione, pressoché coeva a quella di Ovidio anche se, per la verità, è successiva di quasi due secoli: si tratta di quella dovuta a Pausania e che si trova nella Descrizione della Grecia, in particolare nella parte riguardante la Beozia. Giudico questa versione più interessante perché Pausania, conformemente a un approccio di tipo razionalistico alla questione presentata nel mito, ne riferisce in qualche modo due versioni. La prima è quella tradizionale secondo la quale, appunto, Narciso si sarebbe innamorato di se stesso, della propria immagine riflessa, e ne sarebbe morto; ma Pausania, che naturalmente non crede al racconto, di per sé relativamente inverosimile, punta ad offrirne una spiegazione che ne dissolva, o almeno ne riduca, il carattere irrazionale. Perciò, in una seconda versione del mito ipotizza che Narciso avesse una sorella gemella a lui somigliantissima, della quale si era perdutamente innamorato; e poiché costei sarebbe morta prematuramente, Narciso, vedendo la propria immagine riflessa in uno specchio d'acqua, si sarebbe innamorato consapevolmente della propria immagine in quanto testimonianza-ricordo della sorella amata e perduta. Qui si vede - ed è, credo, un rilievo importante anche per il ragionamento che ci interessa condurre - la necessità di tentare una spiegazione di ciò che altrimenti appare inspiegabile: l'innamoramento di Narciso per se stesso, per la propria immagine riflessa.

Riguardo la versione ovidiana del mito di Narciso, è possibile scorgervi la dominanza di una figura, quella dell'indovino Tiresia. Che significato assume nel contesto della narrazione?

Innanzi tutto, le Metamorfosi sono state giustamente definite un “grande poema delle forme in movimento”, cioè un poema che descrive essenzialmente trasformazioni e mutamenti di forma. Quindi, il contesto in cui si situa la vicenda di Narciso è il contesto di una produzione di nuove forme, o meglio della trasformazione e del passaggio dall’una all'altra. In particolare, nel contesto delle Metamorfosi il mito di Narciso è introdotto in riferimento a una figura appartenente anch'essa alla tradizione, non soltanto mitologica, l’indovino Tiresia, che compare anche nelle tragedie dell'età classica: lo troviamo ad esempio nell'Edipo re di Sofocle, dove è in qualche modo legato al ciclo tebano, e quindi alle vicende della città beotica. Tiresia è diventato indovino (questo passaggio, nel mito, ha un'importanza particolare, e lo vedremo più avanti) per una circostanza molto singolare. Egli sarebbe stato in precedenza interpellato da Zeus ed Era circa un quesito che aveva sollevato fra le due divinità una sorta di diatriba: si trattava di stabilire chi fra il maschio e la femmina, tra l'uomo e la donna, godesse di più dei giochi erotici.

Poiché questa controversia non era in alcun modo risolubile, le due divinità chiesero a Tiresia - del quale si diceva che avesse vissuto per sette anni come femmina, prima di essere nuovamente trasformato in maschio (e dunque poteva essere a conoscenza di ciò che era necessario per rispondere a questo interrogativo) di risolvere la controversia. Tiresia rispose, per così dire, accontentando Zeus, ed Era, adirata, lo privò della vista. Tiresia allora divenne cieco e Zeus, per compensarlo in qualche modo, gli conferì il dono - dice Ovidio - di “scire futura”, cioè di conoscere il futuro. Perciò Tiresia, da un lato, è privato della vista, mentre dall'altro è gratificato del dono di poter vedere il futuro, di conoscerlo. Questa ambivalenza della figura di indovino cieco-veggente, di colui che è privato della vista delle cose immediate, vicine, prossime, sensibili, ma è invece provvisto della vista delle cose che riguardano il futuro, è uno degli elementi più significativi sui quali lavorare per l'interpretazione filosofica del mito. A Tiresia si rivolge - così comincia la trattazione ovidiana delle Metamorfosi - la ninfa Liriope che, avendo appena dato alla luce il figlio concepito per effetto della violenza di Cefiso su di lei (appunto, Narciso) domanda se il figlio potrà giungere ad una "longa senectus", se, cioè, gli sarà riservata la possibilità di una lunga vecchiaia.

Prima di soffermarsi sulla risposta di Tiresia, è necessaria una precisazione a proposito del nome stesso di Narciso. Lo si fa concordemente derivare dal termine greco narké, che significa “torpore”; e quindi questo carattere, rivelato anche dall'etimo - ricordiamo che etymon vuol dire “ciò che è vero”, la verità di un nome -, sottolinea un aspetto di Narciso: il collegamento, che risulta peraltro da numerosi altri aspetti oltre che da numerose altre fonti, di Narciso col torpore. Torpore che prelude certamente al sonno, ma anche alla morte. Non a caso, nei riti funebri, venivano predisposte corone di narcisi, ed il narciso, nell’iconografia tradizionale, compare sovente come il fiore che accompagna le divinità degli Inferi. In certa misura, già nel nome Narciso sembra portare scritto il proprio destino.

Torniamo ora alla risposta di Tiresia. Tiresia risponde all'interrogativo di Liriope circa il destino del figlio, dicendo che egli potrà aspirare sì ad una “longa senectus”, ma ad una condizione molto particolare: “si se non noverit”, cioè “se non conoscerà se stesso”. Il responso del cieco veggente Tiresia è un responso particolarmente importante per lo sviluppo della vicenda di Narciso, ed è evidentemente tale da evocare altri riferimenti dal punto di vista filosofico, sia delle origini che del suo culmine, che è ovviamente la figura di Socrate. Secondo una testimonianza indiretta lo stesso Talete avrebbe rivendicato di avere indagato se stesso. Vi è un frammento di indiscutibile autenticità di Eraclito, nel quale il filosofo di Efeso afferma: “Ho indagato me stesso”; e certamente è facile ricordare, a questo proposito, quanto lo stesso Platone fa dire a Socrate nella Apologia circa il modo in cui egli avrebbe fatto proprio il responso dell'oracolo di Delfi: provando a conoscere se stesso. Quindi, la tematica della conoscenza di sé è una tematica filosofica, nella quale sembra esprimersi ciò che di meglio l'uomo può fare: impegnare le proprie energie intellettuali nel conoscere se stesso. Qui assistiamo, invece, ad uno scarto che sarà decisivo per la vicenda di Narciso e che, a tutta prima può apparire inspiegabile: Narciso potrà aspirare a una “longa senectus” solo a condizione di non conoscere se stesso.

Un altro personaggio presenta nel racconto di Ovidio è la ninfa Eco. Che cosa rappresenta?

Ancora una volta, è essenziale una precisazione di carattere generale: la struttura delle Metamorfosi è deliberatamente congegnata come una struttura a incastro, nel senso che Ovidio, ad esempio, ricostruisce le vicende di Eco e Narciso attraverso quattro passaggi successivi. Il primo è la descrizione della storia di Narciso che, per usare un termine cinematografico, si svolge come un flashback, cioè tramite un racconto retrospettivo. Subito dopo vi è il secondo passaggio, cioè il primo incontro tra Eco e Narciso descritto, per esprimerci ancora in linguaggio cinematografico, “in presa diretta”. Vi è poi il terzo passaggio, che è la storia di Eco, descritta nuovamente in un flashback. Il quarto, infine, presenta il secondo e conclusivo incontro tra Eco e Narciso, descritto di nuovo in presa diretta. La struttura ora delineata è importante perché mostra come, dal punto di vista compositivo oltre che artistico-letterario, la vicenda di Eco e Narciso è presentata fin dal principio come una vicenda di corrispondenze; come vedremo, corrispondenze non compiute, non risolte, ma in cui si cerca di stabilire delle simmetrie, dei richiami di carattere speculare tra Eco e Narciso.

Questa specularità, peraltro, è già implicita nella scelta di intrecciare la vicenda di Narciso con quella di Eco. La ragione fondamentale che presiede a questa scelta è che, in latino, eco si dice “imago vocis”; è quindi un riflesso di carattere acustico, così come Narciso è, ovviamente, il simbolo di un riflesso di carattere visivo. Fra i due personaggi esiste dunque, direi già sotto il profilo percettivo, una stretta corrispondenza tra l’acustico e il visivo. Nella descrizione ovidiana, cioè nella modalità con la quale i quattro passaggi prima citati vengono combinati tra loro, è particolarmente importante sottolineare come il primo incontro tra Eco e Narciso preceda la descrizione, fatta in flashback, della storia di Eco. Ne ricordo solo alcuni passaggi, proprio per poterne ricostruire poi l'orditura complessiva e coglierne il significato filosofico. Eco era una ninfa provvista di particolare facondia e che, proprio per questa qualità, era stata impegnata da Zeus nel distrarre Giunone con lunghi discorsi, in modo da consentirgli di tradirla con altre ninfe. Scoperto l'inganno, Giunone avrebbe punito la stessa Eco colpendola nello strumento che le era servito per commettere la sua colpa, cioè nella parola. Giunone aveva quindi privato Eco della possibilità di parlare autonomamente, rendendola capace solo di riferire, di rimandare, di rispecchiare le parole che altri pronunciavano.

Questa punizione, secondo un classico contrappasso, corrisponde alla colpa commessa. Questo carattere di Eco ne mostra fin dall'inizio l'intrinseca scissione: da un lato, dopo aver incontrato Narciso Eco prova per il giovinetto un sentimento autonomo di amore; ma dall'altro è impossibilitata ad esprimere questo sentimento in maniera autonoma, proprio perché tutto ciò che può fare è semplicemente ripetere le ultime parole che sono state pronunciate da altri.
Da ultimo, per giungere alla parte conclusiva di questo mito e cercare di coglierne gli aspetti più rilevanti sotto il profilo filosofico, saltiamo al quarto passaggio della trattazione ovidiana, nel quale avviene il secondo e conclusivo incontro fra Eco e Narciso. I due si ritrovano in condizioni particolari: Eco è stata respinta da Narciso nell'incontro precedente. È addolorata, e si è prosciugata poco alla volta riducendosi a un sasso situato in prossimità di uno specchio d'acqua; Narciso, trovandosi vicino a questo specchio d'acqua e vedendo la propria immagine riflessa, se ne è perdutamente innamorato, e ad alta voce esprime il proprio dolore e la propria infelicità per l'impossibilità di realizzare l'amore che egli prova nei confronti di quell'immagine riflessa.

Professore, che cosa rappresenta nell'economia del mito l'inganno, di cui Narciso è vittima, che lo porta a scambiare l'immagine riflessa per la realtà?

Qui va sottolineato essenzialmente un punto, e cioè che Ovidio passa deliberatamente dall'una all'altra interpretazione della vicenda di Narciso. In un primo momento, Narciso è descritto come colui che si innamora della propria immagine riflessa, senza essere consapevole che quell'immagine è la propria. Si tratta quindi del tema dell'inganno, nel quale Narciso scambia per reale quella che invece è semplicemente un'immagine, e che consiste nello scarto tra realtà e illusione, tra una realtà vera e quella che ne è meramente un riflesso. Successivamente però - ed è questo il punto più significativo anche ai fini dell'interpretazione filosofica - Narciso si riconosce e coglie, nell'immagine che egli ama, la propria immagine riflessa nello specchio d'acqua. L'esclamazione che Ovidio mette in bocca a Narciso è esplicita; Narciso esclama: “iste ego sum!”, “questi sono io”, e aggiunge: “nec me mea fallit imago” - “né la mia immagine mi inganna”, dunque: “non sono ingannato, questo sono io”.

Si tratta quindi del riconoscimento dell'amore che egli prova non già per un'immagine di per sé irraggiungibile, ma per ciò che egli non potrà mai scindere da se stesso. È infatti evidente che questo, nella struttura delle Metamorfosi, è il vero e proprio punto di catastrofe, di rivolgimento, dopo il quale la vicenda si avvia rapidamente al suo esito tragico e luttuoso - cioè la morte di Narciso e la sua metamorfosi in un fiore. Questo accade perché il riconoscimento che quell'immagine appartiene a se stesso sancisce definitivamente l'impossibilità di realizzare l'amore che egli prova.

La parte conclusiva della trattazione ovidiana è di straordinaria bellezza sotto il profilo poetico-letterario: i due - Eco e Narciso - attraverso quello che è stato considerato un vero e proprio gioco di illusionismo linguistico, riescono paradossalmente a comunicare, nel senso che le parole che Eco, ormai tramutata in un sasso, in una roccia, rimanda, prestano in qualche modo la voce all'immagine di Narciso riflessa nello specchio d'acqua. Sia pure paradossalmente, attraverso complicati giochi di corrispondenze, anche sotto il profilo sintattico e onomatopeico, i due protagonisti di questa vicenda comunicano, ma comunicano proprio per sancire definitivamente l'impossibilità di rendersi partecipe e comunicarsi un amore reciproco.

In che senso, secondo lei, il mito di Narciso ci aiuta ad illustrare il tema del rapporto tra amore e conoscenza?

Credo che anzitutto si debba sottolineare un aspetto: non c’è dubbio che il mito tenda a sottolineare il carattere fondamentalmente intransitivo dell'amore, l'impossibilità di far sì che l'amore passi da un soggetto all'altro, e il fatto che esso resti in qualche modo imprigionato, consegnato, racchiuso all'interno del singolo personaggio. Se vogliamo, si tratta del dramma dell’impossibilità di comunicare, di corrispondere o, meglio, è la istituzione di una molteplicità di forme di specularità che possono mettere in gioco un rimando, ma non implicano una vera comunicazione: la simmetria, la specularità, la corrispondenza, non è di per se stessa un fattore o un elemento di comunicazione. Ma un secondo aspetto, sottolineato da molti studiosi, è che, sotto il profilo del loro significato filosofico, queste due figure rappresentano due estremi apparentemente incompatibili, ma anche internamente scissi. Narciso è la figura della pura, totale identità, la quale tuttavia giunge, sia pure paradossalmente, all'estremo di identificarsi con la pura e totale alterità di una immagine riflessa e irraggiungibile.

Al contrario o, se vogliamo, come corrispondenza di carattere simmetrico, Eco è invece la pura, totale alterità, che consiste in questa totale eteronomia dell'espressione, in questo non potersi esprimere autonomamente, ma soltanto come riflesso dell'espressione altrui. Questa pura e totale alterità costituisce, sia pure in maniera paradossale, l'identità di Eco, e l'aspetto filosoficamente più rilevante dell'incontro Narciso-Eco è che l'incontro tra la pura e totale identità (sia pure internamente scissa) e la pura e totale alterità rende impossibile la comunicazione. Quanto viene meticolosamente costruito da Ovidio dal punto di vista strutturale, sintattico, linguistico, delle corrispondenze, e con l’uso di una terminologia che ha la capacità di evocare anche acusticamente la situazione descritta, tutto ciò, per quanto istituisca una rete di correlazioni e di corrispondenze, non si traduce in quella possibilità di intreccio reale, di comunicazione-partecipazione reciproca, in cui consiste l'amore.

Al termine del racconto mitico l’autoriconoscimento di Narciso coincide con la propria morte. Professor Curi, si può forse dire che la morte sopraggiunge come conseguenza in qualche modo necessaria della presa di coscienza?

Di certo questo è l’aspetto più significativo da un punto di vista filosofico, e ci riporta senz’altro al problema iniziale del rapporto amore-conoscenza così com’è stato variamente riletto nella storia del pensiero occidentale, da Platone fino ai giorni nostri. Ma per coglierlo adeguatamente è fondamentale ricordare che uno degli autori in cui il mito di Narciso viene reinterpretato e valorizzato in chiave filosofica è Plotino, che ne tratta nella prima Enneade, e precisamente in quella parte che è stata definita “Trattato sulla bellezza”. Questo riferimento, vedremo subito, è importante non soltanto per indicare un altro degli autori più significativi che compongono questa tradizione pressoché ininterrotta, ma per questioni più direttamente inerenti all'interpretazione filosofica del mito. Si è visto come Tiresia, proprio nella parte che introduce la trattazione ovidiana del mito, abbia affermato che quel bambino appena nato potrà aspirare ad una “longa senectus” solo “si se non noverit”, se non conoscerà se stesso.

Ciò che accade nel mito, così come è ricostruito da Ovidio, è che Narciso è condotto a una morte prematura subito dopo il riconoscimento, subito dopo avere esclamato “iste ego sum, nec me mea fallit imago”, “Questi sono io, né la mia immagine mi inganna” Il riconoscimento, così come era stato predetto dal cieco veggente Tiresia, è precisamente la premessa della morte. Si tratta dunque di chiedersi quale sia la spiegazione di quest’aspetto del mito. Per quale ragione riconoscersi, da parte di Narciso, vuol dire inevitabilmente offrirsi alla morte? Quale connessione vi può essere tra il riconoscimento e la morte? O, se vogliamo: che cosa ha conosciuto Narciso di se stesso, che lo conduce inevitabilmente alla morte e poi alla metamorfosi? Ritengo necessario ricordare che il riconoscimento di Narciso non è indicato né da Ovidio né, peraltro, dalla maggior parte degli autori e degli interpreti, in senso generico: piuttosto, Narciso si riconosce come riflesso. Ciò che è alla base della conoscenza-riconoscimento di Narciso è il fatto che conosce se stesso in quanto riflesso.

Si possono proporre allora due interpretazioni di questo riconoscimento come riflesso che è preludio alla morte. Da un lato, riconoscersi come riflesso può voler dire - e questa è l'interpretazione plotiniana alla quale ho fatto cenno - riconoscersi come espressione o emanazione di una realtà che non è se non, appunto, un rispecchiamento rispetto alla realtà vera; è in gioco cioè il riconoscersi, dal punto di vista del proprio statuto ontologico, come realtà inferiore rispetto alla vera realtà, secondo quel processo di “degradazione ontologica” di cui parla Plotino. Riconoscersi come mero riflesso, allora, vuol dire riconoscere il proprio statuto di realtà intrinsecamente difettivo, limitato, contingente: precisamente lo statuto ontologico di ciò che è il riflesso. Ma vi può essere anche un'altra possibilità ermeneutica: si potrebbe dire infatti che Narciso muore proprio perché si conosce come riflesso e sa che si tratta del riflesso di nulla, cioè che non c'è nulla di cui egli sia riflesso, dal momento che il suo statuto di realtà è solo ed esclusivamente quello di essere un riflesso. Questo riconoscimento, questa conoscenza - la conoscenza di sé come mero riflesso di nessun’altra realtà, di una realtà superiore che non c’è -, è per ciò stesso il preludio che conduce Narciso alla morte. Come si vede si tratta di un mito di grandi e, per certi aspetti, inesplorate valenze filosofiche, che illumina anche aspetti tuttora non compiutamente indagati del rapporto tra amore e conoscenza.


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