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Coscienza scomoda di una sinistra distratta

Antonio Carioti


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Jiri Pelikan, morto a Roma lo scorso 26 giugno, apparteneva a un tipo umano ormai quasi estinto, quello dei "rivoluzionari di professione". Uomini segnati dalle vicende piu' tragiche di questo secolo, che sin da giovanissimi si erano consacrati al servizio di un ideale politico. Parlava un'infinita' di lingue, aveva girato tutto il mondo e conosciuto personalmente Mao, Khrusciov, Castro, Guevara, Allende, Ben Bella.

Era diventato comunista negli anni Trenta, prima appassionandosi alla causa della Repubblica spagnola, poi indignandosi per il modo in cui le potenze occidentali, a Monaco, avevano consegnato la sua patria cecoslovacca nelle mani di Adolf Hitler. Nemmeno il patto germano-sovietico del 1939 aveva potuto scalfire le sue convinzioni.

Aveva appena compiuto 25 anni quando il suo partito aveva preso il potere, con il celebre "colpo di Praga" del 1948, ma aveva gia' alle spalle esperienze molto dure: il carcere, la clandestinita', la morte della madre in un lager nazista. All'epoca era uno stalinista di ferro, "un intollerante", come avrebbe ammesso senza difficolta' anni dopo.

Negli anni Cinquanta lo assalirono i primi dubbi, di fronte ai processi farsa contro alcuni tra i massimi dirigenti comunisti cecoslovacchi. Intanto assumeva importanti cariche nelle organizzazioni internazionali studentesche, che gli permettevano di viaggiare all'estero, di vedere da vicino anche l'odiato Occidente capitalista.

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Certo questa apertura mentale contribui' a fare di lui uno dei piu' entusiasti fautori del movimento riformatore promosso da Alexander Dubcek. Cosi' come la sua esperienza del mondo sovietico lo indusse a non farsi mai troppe illusioni sulla possibilita' di un compromesso con Mosca. L'invasione del 20 agosto 1968 gli cambio' radicalmente la vita. Sotto i cingoli dei carri armati moriva l'illusione di cambiare il sistema restando nel Patto di Varsavia, ma non certo la speranza di costruire il socialismo nella liberta'.

Costretto all'esilio, Pelikan si rimise in gioco con la stessa determinazione di trent'anni prima. La Primavera di Praga continuo' a esistere anche attraverso la sua rivista "Listy" e le sue battaglie contro la cappa di piombo calata sulla Cecoslovacchia.

Non furono anni facili. Era approdato in Italia sperando che il Pci desse seguito alla condanna dell'invasione sovietica espressa nel 1968. Ma si accorse presto che i legami di Botteghe Oscure con Mosca restavano forti. Nel suo ultimo libro, "Io esule indigesto", sono raccolte in appendice le lettere inviate ai dirigenti comunisti italiani e rimaste senza risposta. Rievocando quei fatti, non c'era in lui spirito di rivalsa: comprendeva le ragioni dei ritardi del Pci e ne riconosceva i progressi, ma non poteva fare a meno di constatarne l'insufficienza.

In fondo il dilemma posto da Pelikan era semplice: non si puo' stare al tempo stesso con Dubcek e con Brezhnev, con chi si batte per la democrazia e con chi la soffoca, con la vittima e con il suo aguzzino. E se il socialismo vero e' inseparabile dalla liberta', allora e' incompatibile con il dispotismo burocratico di marca sovietica. Concetti elementari, che pure si e' cercato per anni di annebbiare con innumerevoli fumisterie sull'"unita' nella diversita'", sui "tratti illiberali" dell'Urss, sulla "terza via" e chi piu' ne ha piu' ne metta.

Del resto Pelikan non si scontro' solo con le incomprensioni dei comunisti. Eletto al Parlamento Europeo nelle liste del Psi per una scelta felice di Bettino Craxi, ebbe frequenti dissidi con i socialdemocratici tedeschi e i laburisti britannici, che avrebbero preferito, in nome della Realpolitik, mettere la sordina alla denuncia del totalitarismo sovietico. Nessuno pensava che quel sistema sarebbe crollato nel giro di pochi anni. E l'impegno di Pelikan e degli altri dissidenti appariva una sterile lotta contro i mulini a vento.

E' anche per via di questi errori che la caduta del Muro di Berlino non e' stata affatto il trionfo della sinistra democratica che avrebbe potuto essere. Tanto che oggi all'Est l'alternativa e' quasi sempre tra destra nazionalista e nomenklatura comunista riciclata.

Eppure Pelikan non disperava. Gia' malato, aveva assistito alla rivalutazione della Primavera di Praga anche da parte di chi, dopo il 1989, l'aveva frettolosamente relegata nel dimenticatoio. E guardava con fiducia, pur temperata dalla sua tipica equanimita', ai governi di sinistra insediati nei maggiori paesi europei.

La storia non e' finita con la caduta del Muro. E anche se Jiri Pelikan non potra' vederne i prossimi sviluppi, la sua lezione resta preziosa per chiunque creda negli ideali del socialismo.


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