Reset/Ken Loach, regista "vetero" Ken Loach intervistato da Paola Casella
Questa intervista è uscita sul numero di gennaio/febbraio di
"Reset".
Ken Loach è orgogliosamente vetero: vetero laburista (anche se ha
pubblicamente dichiarato di non voler rinnovare la tessera del partito come gesto di sfida
a Tony Blair, "l'amico degli uomini d'affari, che ha voltato le spalle alla gente
comune, quella che descrivo nei miei film"), e prima ancora vetero comunista,
"anzi, trotzkista", come tiene a precisare. Il regista inglese (è nato nel '36
a Nuneaton, nel Warwichshire) definito "il maestro del realismo sociale", autore
di film polemici come Terra e libertà, La canzone di Carla e, adesso, My name
is Joe, si fa un punto d'onore di passare alla storia (perlomeno quella del cinema)
come l'ultimo dei mohicani. Perché per Loach rimanere arrabbiato è tanto un imperativo
morale quanto una scelta artistica, e questo fin da quando, trent'anni fa, era uno dei
protagonisti del Free Cinema inglese.
Loach, che viene da una famiglia altoborghese ed è laureato in legge a Oxford, ha scelto
di comportarsi da rinnegato nel quadro della struttura di casta inglese, schierandosi con
gli esclusi, gli emarginati, i perdenti (persino come tifoso sportivo: alla squadra di
canottaggio della sua alma mater preferisce la scalcagnata squadretta di calcio del Bath,
che sostiene anche economicamente).
Anche il suo cinema è, fin dagli esordi, insopprimibilmente militante:
crudo, esplicito, spietato nella denuncia quasi documentaristica del costo umano di certa
politica conservatrice. La sua filosofia si potrebbe definire cinicamente ottimista,
oppure pessimisticamente fiduciosa: i suoi protagonisti, infatti, pur vivendo in
condizioni sociali disperate, non perdono la speranza, non si rassegnano, anche se sanno
-- e lo sanno bene -- che per loro non esiste via d'uscita. Una contraddizione che già da
sola si traduce in tensione drammatica, così come fa parte della tradizione letteraria e
teatrale l'eterna battaglia fra l'ineluttabilità del fato e la volontà di
autodeterminazione dell'individuo (basti pensare a Thomas Hardy, per rimanere nel Regno
Unito, o a William Shakespeare).
Già nel film d'esordio, Poor Cow ('67), c'era tutta la
tematica di Loach: l'ambientazione nel microcosmo proletario, i protagonisti stritolati da
una morsa economica che mette a dura prova la loro dignità umana, le tragedie personali
"motivate da fattori politici". Seguivano nel '70 Kes (mai arrivato in
Italia) e nel '71 Family Life. Poi otto anni di silenzio e, fino agli anni ottanta,
un film per decennio: colpa della censura, dice Loach, che si era accorta del potenziale
esplosivo dei suoi racconti metropolitani. Eppure proprio in epoca thatcheriana Loach si
è ritagliato una credibilità da grillo parlante, denunciando i pericoli della trickle
down economy, preannunciando lo spettro della recessione. E negli anni novanta, quelli
del Ripensamento, ha riscosso finalmente il successo, che per lui significa "la
possibilità di continuare a fare film senza interferenze esterne".
Il giro di boa è avvenuto con L'agenda nacosta (premio speciale
a Cannes nel '90) e soprattutto con l'agghiacciante Ladybird, Ladybird del '94,
esplicita denuncia della brutalità (e dell'inefficacia) del welfare system
inglese. I successivi Terra e libertà ('95) e La canzone di Carla ('96)
uscivano dai confini della periferia britannica per acquisire un tono da lezione di storia
(ovviamente riletta da sinistra): il primo era ambientato in Spagna durante la guerra
civile, il secondo nel Nicaragua di fine anni ottanta.
Ma Loach ha sempre dato il meglio di sé quando, invece di salire in
cattedra, si è mantenuto ad altezza uomo, raccontando storie di disperazione quotidiana
che lui stesso definisce "personali", dove in primo piano stanno gli individui,
e le istituzioni restano sullo sfondo. In questo senso il suo ultimo film, My name is
Joe, è classic Loach: la storia di un disoccupato e di un'assistente sociale,
eroi della workless class, che intessono rapporti umani in un ambiente - quello dei
quartieri degradati di Glasgow - che sembra fatto apposta per negare al singolo qualunque
parvenza di dignità umana.
"Nel sobborgo di Glasgow in cui è ambientato il film - ci spiega
il regista - la disoccupazione raggiunge livelli del 40 per cento, e ci sono giovani di
età compresa fra i 25 e i 35 anni convinti che, nel loro arco vitale, non troveranno mai
un lavoro. In questi quartieri, paradossalmente, il principale datore di lavoro è la
droga, che dà da mangiare agli spacciatori ma anche ai poliziotti, ai medici, alle
infermiere, agli assistenti sociali. E' una situazione socioeconomica che dura da
vent'anni, cioè da quando è iniziato il regime Thatcher, che ha tagliato i fili che
collegavano i quartieri poveri alle città, trasformandoli definitivamente in
ghetti".

E' cambiato qualcosa con Blair?
"Il governo Blair non sta facendo di meglio. Di recente ha
approvato un provvedimento secondo il quale i disoccupati potranno continuare a ricevere
il sussidio governativo soltanto se riusciranno ad ottenere un lavoro: è la creazione
istituzionale di un circolo vizioso, perché questa gente non riesce neppure ad elevarsi
ad un livello sufficiente per presentarsi ad un ufficio di collocamento. In realtà si
tratta di un sistema brevettato per dare sempre meno soldi a chi ne ha veramente bisogno.
Gli assistenti sociali operano già quasi tutti su base volontaria, cioè con le spalle
scoperte, perché non rappresentano il braccio di una struttura governativa, ma
l'espressione di una coscienza individuale. E io dico sempre che l'individuo non conta,
nel senso che da solo è impotente. Sarah, l'assistente sociale protagonista di My name
is Joe è animata dalle migliori intenzioni, ma è troppo slegata dalla realtà per
essere efficace, e comunque il suo sforzo è personale, non collettivo".
Comunque Sarah è un personaggio più umano degli assistenti sociali di
Ladybird, Ladybird, quelli che strappavano i figli dalle braccia della madre.
"Anche in Ladybird, Ladybird non era mia intenzione
condannare le persone, ma il sistema. A livello individuale è evidente che gli assistenti
sociali erano costretti a sottrarre i figli alla madre, per metterli al riparo dalla
violenza quotidiana e dalla miseria. Ma a livello istituzionale una situazione estrema
come quella della protagonista poteva -- doveva -- essere evitata. Avrebbero dovuto
raggiungerla prima che toccasse il fondo, perché poi era davvero troppo tardi, e l'unica
soluzione rimaneva lo scardinamento dell'unità familiare".

Le famiglie, nei suoi film, sono comunque sempre conflittuali, verrebbe
da dire dissociate.
"In ogni famiglia, e non solo in quelle svantaggiate, ciascuno dei
componenti ha commesso qualche torto nei confronti degli altri. E' per questo che, in My
name is Joe, non ho voluto approfondire quale fosse il motivo specifico del senso di
colpa che tormenta la protagonista. Molte cose rimangono non dette, anche nelle migliori
famiglie, e si creano fratture interne difficili da sanare. La differenza è che, nelle
famiglie povere ed emarginate, alle pressioni interne si aggiungono quelle economiche e
sociali che minacciano di distruggere anche le unioni più felici, come quella fra Joe e
Sarah".
Lei sembra guardare con occhio benevolo anche i personaggi più
negativi dei suoi film, ad esempio la madre "snaturata" di My name is Joe
che, pur avendo un figlio piccolo e un marito che cerca di rimettere in piedi la famiglia,
non riesce a smettere di drogarsi.
"Io amo tutti i miei personaggi, soprattutto i più sfortunati, e
cerco di farli rimanere tridimensionali, anche quando le circostanze renderebbero più
facile parlare di loro solo come di "cattivi". I miei protagonisti sono
essenzialmente persone per bene, che fanno del
loro meglio per tirare avanti, e se non ci riescono non è per mancanza
di buona volontà: le condizioni in cui vivono sono obbiettivamente intollerabili, e
questo non può non influire sul loro comportamento".
Influire, dunque, non determinare.
"Determinare mai. Non si può mai accettare di arrendersi. Per
questo, come regista, non smetto di raccontare queste storie terribili, e continuerò a
farlo anche quando la classe operaia smetterà di "tirare", come soggetto
cinematografico. Perché io, che comunque sto meglio della maggior parte della gente con
la quale passo le giornate, ho il dovere morale di continuare a parlare di loro, per loro,
e ricordare al resto del mondo che esistono. Qualche volta i miei film li aiutano anche in
modo diretto: i giocatori di calcio che appaiono in My name is Joe accanto agli
attori principali sono veramente membri di una piccola squadra di Glasgow, e per loro
recitare nel film è stata l'unica occasione di lavoro dell'anno".
Anche nel film la squadra di calcio è un'ancora di salvezza per i
ragazzi del quartiere.
"Per forza, hanno bisogno di qualcosa in cui credere, qualcosa che
faccia da contrappeso all'avanzata graduale della disperazione. Allora una squadretta da
quattro soldi che si traveste da campione del mondo ha uno scopo terapeutico. E non è un
caso che i campioni ai quali si ispirano siano prima i ragionieri teutonici della Germania
di Beckenbauer, poi i meninos de rua scampati alle favelas del Brasile di
Pelè". |