Caffe' Europa
 
Rassegna Internazionale




Die Zeit / Germania: stato sociale al capolinea?

Raffaele Oriani

Die Zeit, 27 maggio 1999

Zeit e Spiegel si marcano stretti sul terreno della politica sociale ed economica e questa settimana tocca a Zeit inseguire e rilanciare le rivelazioni di Spiegel sui progetti di riforma dello stato sociale. Anche per il settimanale di Helmut Schmidt non si puo’ infatti continuare cosi’: la politica deve responsabilmente adattare le prestazioni della mano pubblica alla situazione reale del paese; la giustizia sociale non puo’ piu’ essere intesa come nel dopoguerra a misura di lavoratore dipendente legato per trenta o quarant’anni ad una stessa azienda con stipendio in costante, regolare crescita. I rapporti di lavoro sono cambiati e per la Zeit e’ ora di passare dalla giustizia distributiva alla giustizia partecipativa, secondo cui ognuno ha la possibilita’ di partecipare alla societa’, alle sue chance e al suo auspicato sviluppo economico. Ecco allora che lo stato non puo’ piu’ considerarsi indipendente dalla societa’ con le sue prestazioni sempre uguali per tutti e in tutte le stagioni: ha l’obbligo invece di integrarsi con le organizzazioni private e con la creativita’ individuale; ha l’obbligo di registrare le nuove forme di lavoro nell’epoca delle nuove tecnologie e, messaggio probabilmente centrale dell’editoriale della Zeit, di accettare un settore corposo in cui vigono stipendi piu’ bassi e garanzie meno solide. Qualcosa insomma si muove in Germania, o perlomeno la stampa piu’ vicina al governo oggi in carica auspica che si muova qualcosa: nessuno pero’ e’ certo che la coalizione rosso-verde sapra’ recuperare il bandolo della matassa assistenziale e occupazionale.

Wolfgang Sofsky, sociologo dell’universita’ di Gottinga recentemente tradotto anche in Italia da Einaudi, interviene sulla guerra nel Kossovo con un saggio molto critico sulla condotta della guerra da parte delle potenze della Nato. In sostanza la posizione di Sofsky e’ che se guerra doveva essere (e a suo parere doveva essere per la serie interminabile di crimini commessi dai serbi ai danni prima dei bosniaci e poi degli albanesi) doveva essere una guerra decisa e sicura fino alla vittoria. Ma vittoria non puo’ essere se ci si limita ai bombardamenti aerei che da piu’ di un punto di vista hanno invece peggiorato la condizione dei profughi albanesi: da un lato infatti non si contano piu’ gli errori dei bombardieri, dall’altro le truppe serbe senza piu’ collegamento con il comando centrale di Belgrado sono sempre piu’ portate alla violenza gratuita e brutale tipica piu’ delle bande criminali che degli eserciti. Fino ad ora quindi nessun obiettivo e’ stato raggiunto tranne forse l’aver fatto capire alle nostre societa’ che l’altruismo e’ buono solo se portato fino in fondo e l’interventismo va bene se oltre che ad uccidere si e’ pronti anche a morire per la causa che si vuol difendere.

 



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