Bush-Gore: candidati mascherati
Raffaele Oriani
Time, 6 novembre 2000
Non
essendoci mostri palestinesi da sbattere in prima pagina, Time questa
settimana torna ad occuparsi di cose di casa propria: manca una
settimana alle elezioni presidenziali e la rivista americana fa quindi
l’ennesimo tentativo di mettere a fuoco la personalita’ dei due
candidati in lizza. In realta’ l’elettore americano e’
disorientato: non perche’ le ideologie siano tramontate e i gusti
politici siano diventati molto incerti, ma perche’ i due candidati
stentano ad uscire allo scoperto, sono estremamente guardinghi e
spesso finiscono per sovrapporsi sul medesimo terreno elettorale. L’unica
cosa certa e’ la differenza di carattere tra i due figli di: da una
parte il cordiale Bush, l’uomo della porta accanto che pero’ i
democratici accusano di essere il portavoce dell’1% piu’ ricco del
paese; dall’altra il freddo Gore, l’aristocratico che - clamoroso
paradosso politico e personale - ha deciso di puntare le sue carte
elettorali su toni decisamente populistici. E tuttavia se dagli
aspetti caratteriali ci si sposti sul terreno biografico anche il
punto di vista personale non si rivela molto utili ad evidenziare le
differenze tra i due contendenti: l’uno e l’altro sono infatti
rampolli di dinastie politiche impiantate a Washington da decenni (Bush
figlio del presidente, Al Gore dell’omonimo, storico senatore del
Tennessee). Nonostante il ritratto disincantato che ne traccia, Time
pero’ non guarda con sufficienza al profilo dei due candidati: non
rivela dichiaratamente le proprie preferenze politiche, ma riconosce
che entrambi sono riusciti a salvaguardare al meglio l’equilibrio
tra il richiamo della foresta dei loro rispettivi partiti (big
government per i democratici, tagli alle tasse dei ricchi per i
repubblicani) e la necessita’ di presidiare il centro dello
schieramento politico. Gore pero’ ha voluto o dovuto fronteggiare
una difficolta’ in piu’ che potrebbe fargli perdere la gara: si e’
rifiutato infatti categoricamente di correre sulla scia dei successi
clintoniani, al punto che mai o quasi mai ha rivendicato i meriti di
otto anni di Amministrazione democratica ( di cui e’ stato membro
autorevole), preferendo continuare a parlare dei grandi cambiamenti
che attendono l’America nel futuro. Il 7 novembre sapremo se si e’
trattato di saggezza o di semplice azzardo.
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