Letti per voi/Il
Manifesto degli hackers
Antonio Polito
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degli hackers
Questo articolo è
apparso su la Repubblica (www.repubblica.it)
del 14 marzo
E' un libro voluminoso e impegnativo, ma bisogna leggerlo, perchè
tutto ciò che passa per la mente ai ragazzi che spaccano le vetrine
di McDonald's, attaccano Yahoo, boicottano la Shell, sfilano in corteo
contro la Nike, tutto quello che passa per la testa all'uomo di
Seattle è qui dentro, in questo No logo (ed. Flamingo), nuova bibbia
della protesta giovanile, manifesto del Sessantotto prossimo venturo.
Naomi Klein, bella figlia trentenne di due veri sessantottini, che
fuggirono dagli States in Canada per scampare alla leva del Vietnam,
ha cercato con zelo in quattro anni di ricerche in giro per il mondo
tutto ciò che non va nella "tirannia delle corporation",
queste grandi potenze economiche transnazionali, ormai più grandi e
più ricche di intere nazioni. Per lei, la vera rivoluzione del nuovo
capitalismo comincia il "venerdì della Marlboro", due di
aprile del 1993, quando la Philip Morris decise di tagliare la cifra
destinata alla pubblicità del "Marlboro man", e di ridurre
del venti per cento il prezzo delle sigarette.
Sembrava la fine dei ruggenti anni Ottanta, e l'inizio di un'era più
sensata, nella quale la gente avrebbe cominciato a badare ai prezzi
dei prodotti invece che al nome che portavano stampato sulla
confezione. E invece... Da lì in poi, cambia tutto. Il capitalismo
prende la strada opposta, decolla letteralmente verso un altro mondo,
prima sconosciuto ai consumatori. I giganti economici, uno alla volta,
smettono di progettare, costruire e vendere prodotti, e si lanciano a
progettare, costruire e vendere idee, stili di vita, attitudini,
filosofie, immagini. Di fatto, si trasformano in produttori di
"marchi", e diventano indifferenti ai prodotti. Nike è il
prototipo vincente.
Non perde tempo e soldi nel fabbricare scarpe da ginnastica, mettere
su impianti industriali, trattare con i sindacati, gestire materia
prima umana. Nike non possiede nemmeno una fabbrica, tutto quello su
cui mette il proprio marchio è prodotto da un reticolo di piccole
industrie decentrate nel mondo in via di sviluppo. Ciò che la Nike
produce è una filosofia di vita: essere sportivi, essere atletici,
essere magri, essere giovani, essere teenager.
Seguono Adidas, Levi's, Champion, Reebok, Starbucks, Gap. E
precede - se è ammessa una piccola puntualizzazione nazionalistica -
Benetton, il primo a smettere di produrre cose per vendere una "Weltanschauung".
Siccome concentrarsi sul "branding", il marchio, è
notevolmente costoso - vedere i contratti pubblicitari delle stelle
del basket americano - queste "corporation" devono
drasticamente tagliare i costi altrove. Sulla base della filosofia
"produrre poco e vendere molto", si disfano di tutti i loro
impianti e si servono nelle Filippine, in Cina, in Vietnam, dovunque
la paga sia bassa, gli orari di lavoro lunghi, e i regimi autoritari.
L'incorporeità di questi gruppi diventa eterea, impalpabile. Virgin,
il grande successo economico della Gran Bretagna moderna, vende ai
consumatori tempo libero, che siano biglietti aerei, viaggi in treno,
lattine di coca-cola, dischi, o le avventure in pallone aerostatico
del suo mentore e fondatore, Richard Branson.
L'amministratore delegato di Diesel, abbigliamento giovanile,
chiarisce che lo scopo della sua azienda è "creare un
movimento".
Bill Gates si dimette da leader della Microsoft per concentrarsi sulla
sua vera missione: essere Bill Gates. L'impresa trascende, si fa fede,
è guidata da profeti.
Ma che cosa succede all'altro capo di questo rivoluzionario processo?
Le pagine meno scontate nel libro di Naomi Klein sono i suoi reportage
nelle "free-trade zones", specie di enclave in Indonesia,
Messico, Vietnam, dove in uno stato di totale "vacanza
fiscale" sorgono le miniere del nuovo capitalismo; dove
giocattoli, giacconi, computer, automobili, scarpe, vengono
materialmente assemblati da donne e minori, a ritmi di lavoro di
dodici-quattrodici ore al giorno, a paghe irrisorie, servendo nello
stesso laboratorio marchi diversi e spesso concorrenti tra di loro. Ci
sono già un migliaio di queste "export-processing zones",
sparse in settanta diversi paesi, dove si accalcano e lavorano 27
milioni di lavoratori, in condizioni che l'autrice descrive non molto
diverse da quelle dei campi di lavoro in tempi di guerra.
Non a caso le "corporation" mantengono un assoluto e pudico
segreto su dove si produce ciò che finisce nelle vetrine dei nostri
negozi. Il principio fordista, secondo il quale il lavoro umano non
solo produce cose, ma anche i salari necessari a comprare quelle cose,
è lì completamente ribaltato.
Eppure si ha l'impressione che ciò che veramente preoccupa Naomi
Klein e tutti i rivoluzionari che la leggono non è tanto la
condizione dei nuovi schiavi che sgobbano in Asia. Tutto sommato, quei
ventisette milioni di lavoratori prima non lavoravano nemmeno. Ogni
rivoluzione industriale, ai suoi albori, è stata segnata da enormi
costi umani e da grandi focolai di sfruttamento: certi quartieri di
Glasgow o di Torino sono ancora lì a ricordarcelo. No, ciò che
davvero turba i movimenti "anti-corporation" è quello che
accade dalla nostra parte del mondo.
Se tutto è "branding", se tutto è marchio, se il
capitalismo trascende i confini della produzione di merci per
incarnarsi in filosofie di vita, il rischio da combattere è il
deserto civile, culturale e sociale che Naomi Klein sintetizza in tre
slogan: "No space, no choice, no jobs". Le strade delle
nostre città appaltate alle immagini pubblicitarie, le attività
culturali non solo sponsorizzate ma decise e orientate dal marketing,
la democrazia sospesa, la scelta inibita, i libri di matematica per
ragazzi americani che invitano a calcolare la circonferenza di un
biscotto di successo, un ragazzo sospeso da scuola in Georgia perché
indossava una maglietta Pepsi nel giorno dedicato allo sponsor Coca;
tutto l'armamentario del catastrofismo culturale viene usato a piene
mani per terrorizzarci su un futuro in cui il mercato penetrerà nelle
nostre indentità, e le renderà schiave.
E se le cose stanno così, la risposta non può che essere luddista,
anarchica, fatta di tanti piccoli gesti di ribellione: assaltare un
sito informatico, boicottare la Shell per l'esecuzione di
un'ecologista in Nigeria, trascinare in un tribunale inglese McDonald's
per sfruttamento della credulità infantile, insultare telematicamente
Clinton e Blair. Fino alle torte in faccia a Bill Gates e a Michel
Camdessus. Ecco il nuovo spettro che si aggira in Occidente, ecco la
profezia: se il capitalismo sceglie l'immaginario come terreno di
scontro, firma la sua condanna a morte. Questa "new economy"
- dice la Klein - è un pallone gonfio d'aria, basterà uno spillo a
farlo scoppiare. I suoi nuovi nemici stanno imparando a non predicare
più inutili rivoluzioni contro governi impotenti, ma useranno il
"boomerang" dell'immagine, intasando Internet, cavalcando i
"mass media" con le loro azioni, mettendo nel mirino
direttamente le "corporation". Meglio un "rave-
party" di uno sciopero, meglio la guerriglia dei "murales"
che un'elezione, meglio un'"eco- warrior" arrampicato su un
albero secolare che un comizio.
Evviva i "tecnomarxisti", le fa eco Pintor. Evviva la Quinta
Internazionale degli "hackers".
Stili di vita contro stili di vita. La nuova sinistra radicale si fa
apocalittica. Ogni riformismo è tagliato via, la politica è ormai
inservibile, la proposta è inutile. Qual è il mondo che Naomi Klein
preferisce? Quella della recessione e della disoccupazione di massa,
un nuovo '29 in cui finalmente i prezzi crollano e la pubblicità
sparisce? Un'era in cui si consuma di meno perché si è più poveri,
ma si gode di un'idealizzata cittadinanza che non è mai esistita, di
un'Agorà che l'Indonesia non ha mai conosciuto, e forse neppure il
democratico Occidente?
Qual è il rimedio: un'economia di scambio, in cui le merci
riconquisterebbero la loro centralità, insieme con il lavoro manuale?
E che ne sarebbe dei ventisette milioni di schiavi nel mondo in via di
sviluppo, se tutto questo finisse? Meglio la schiavitù di un tempo
che quella moderna? Per colpire al cuore il neo-capitalismo, Naomi
Klein non rinuncia nemmeno a qualche marchiana semplificazione. Come
quella di sommare - in un'angosciosa statistica - chi non cerca
lavoro, chi lo cerca ma è disoccupato, e chi lavora in proprio o
saltuariamente e part time, per dimostrare che il totale fa il 52%
degli americani. Come se il lavoro non fosse lavoro se non è
dipendente, a orario fisso e alla catena di montaggio. Come se non
fosse proprio questo nuovo lavoro la spina dorsale del più lungo
periodo di alta occupazione e di benessere della storia recente
americana.
Le "corporation" commettono molti peccati. Il loro senso di
colpa per l'"ingorgo culturale" che stanno creando le mette
sulla difensiva, le fa tremare di fronte all'aggressività di questi
nuovi movimenti. Molto dovranno fare sul piano ambientale, democratico
e sociale, soprattutto nel mondo in via di sviluppo, per rispondere
alle critiche motivate e sensate. Eppure, c'è più morale nel finale
di Toy Story 2 (Disney, un altro grande accusato, vedi The Mouse that
Roared, Henry A. Giroux, Rowman and Littlefield), quando i giocattoli
preferiscono rassegnarsi alla morte pur di farsi consumare da un
bambino invece di trascendere in icone di culto per sempre venerate in
un museo, che nelle profezie apocalittiche sul dominio del mercato. E'
possibile amare le merci senza trasformarle in feticci, ci dice il
film di Disney. C'è più saggezza nel suo messaggio che nella lugubre
copertina di questo libro: tutta nera, una sola scritta, No logo.
Anche No logo può diventare un "logo". Solo più tetro.
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