Tortughe nella Rete?
Piero Comandè
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Le sentenze che hanno decretato la fine del caso Napster non
sembrano aver chiuso la stagione di caccia al “libero” scambio
dei file in Internet. Quest'estate, nella Rete della I.D.S.A. (Interactive
Digital Software Association) sono finiti BH
legend , House of
underdogs e Flashback
Abandonware , importanti siti della "gaming community"
(comunità internettiana degli appassionati dei videogiochi) che
collezionano e distribuiscono "abandonware", software il
cui sviluppo è cessato- e a cui è stata intimata la cessazione
dello scaricamento gratuito dei file.
Sono contesi per lo più giochi "abbandonati", giochi
introvabili per PC-DOS degli anni '80 e '90, scomparsi dal mercato,
benché ancora soggetti a "copyright" (non mancano giochi
o software per computer mitici o dimenticati come Commodore 64, MSX,
Atari o Amstrad!). Contro la minaccia di un'azione repressiva più
ampia e sistematica però la comunità è insorta. Dei tre siti
incriminati solo Flashback-aw.net ha interrotto i servizi gratuiti
di scaricamento; Theunderdogs.org ha tolto dai database i titoli
più “caldi”, ma ha continuato a funzionare; Harry Hunt di BH
legend invece ha mobilitato l'opinione pubblica giovanile, ed è
nata così l'I.C.A.S. (International Campaign of Abandonware
Supporters).
La maggioranza degli altri siti sta a guardare, ma i contatori dell'Abandonware
Ring , che raggruppa 74 siti “abandonware” in tutto il mondo
o The oldgames linkpages (TUOL)
che ne conta 128 danno sempre numeri da capogiro: Computer Emuzon
(software spagnolo) mette a disposizione 1022 giochi e dichiara più
di 675.500 contatti, ma anche i più piccoli come Haba's page con un
database di soli 20 giochi ne ha più di 273.400! Il 10 settembre Bh
Legend ha ringraziato per il sostegno internazionale ricevuto nel
“net land”. Quindi la disputa appare ben lontana da una rapida
conclusione.

Dietro l'I.C.A.S. c’è un popolo di giocatori
appassionati, di collezionisti, ai limiti del feticismo; sostenuti
anche da chi per necessità, non può acquistare il software più
nuovo o i computer adatti ad utilizzarlo perché troppo costosi; da
chi, per scelta, rimette in funzione i vecchi computer, magari per
regalarli alle scuole o alle famiglie povere. Forse è moda, ma
ripropone la responsabilità del peso delle licenze sul “digital
divide”: è possibile chiederle per il software ritirato dal
mercato da anni?
La gaffe estiva della Microsoft sull’operato di PC for Kids, -l’associazione
caritatevole australiana diffidata dal donare vecchi PC alle scuole
timoresi senza pagare le licenze del software- o l'impiego di
sistemi obsoleti nei paesi in transizione e sottosviluppati -per es.
il browser Arachne della software house della Repubblica Ceca
Arachne labs che consente a vecchi sistemi DOS di navigare in
Internet- può far dubitare che si tratti solo di un caso di
pirateria deviata.
Questi ribelli, spesso giovanissimi, dichiarano però di non volere
“napsterizzare” indiscriminatamente videogame o vecchi sistemi e
applicativi dos il cui sviluppo non è cessato; al contrario queste
iniziative riconoscono le ragioni degli autori e il loro il diritto
a non vedere sfruttato da altri il proprio lavoro. Ma chiedono che
si faccia differenza tra "abandonware" e "warez",
tra il software non più in vendita e quello commerciale: "I
siti warez (normalmente) sono zeppi di banners, pop-ups, forced
voting ecc. La sola ragione per cui le persone possiedono pagine
warez è di fare dei soldi con un piccolissimo sforzo. Chi crea
pagine abandonware invece è spinto dalla passione per i vecchi
giochi ("old games") a spendere un numero incalcolabile di
ore per caricarli e recensirli".
Più che pirati sembrano dei naufraghi che si aggrappano a zattere,
a sistemi PC-DOS perché temono di essere espulsi dal “net”
insieme alle proprie manie o ai propri bisogni inconsueti.
Pretendono di essere ascoltati, non vogliono -si legge in una “abandonware
petition" (firmata in Rete da 3285 persone)- trovarsi nella
situazione di usare un software illegale o non usare affatto le
proprie macchine. Si difendono: se dopo 3 o 7 anni dal rilascio o
dopo due release è impossibile acquistare un certo programma
perché non è più in vendita, chi ci rimette?
Chiedono che gli editori modifichino la loro politica commerciale.
Reclamano per sé una funzione socialmente utile che non penalizza
il mercato. Chi gioca con un "abandonware", dicono, gioca
con un "prequel": un demo per la versione successiva
("sequel") che avrà una grafica migliore e altre opzioni.
La nuova versione di "Frogger" (prima "edizione"
nel 1981) è stata rilasciata perché gli editori a un certo punto
hanno scoperto che era ancora un gioco popolare; e non hanno
sbagliato: Frogger è stato uno dei primi 10 videogiochi più
venduti nel 1999. In questo caso l'"abandonware",
concludono, ha aiutato le società d’intrattenimento informatico a
scoprire una nuova nicchia di mercato.
Tuttavia le società produttrici e distributrici di software,
specialmente quelle che offrono intrattenimento non sembrano affatto
entusiaste per queste "perfomance". La S.I.I.A. (Software
& Information Industry Association), liquida seccamente l'"abandonware"
come una leggenda metropolitana ("urban legend"),
contestandogli la durata incondizionata del copyright negli U.S.A.:
“Per le opere create dopo il 1978 il copyright dura la vita dell’autore
più 50 anni, o, nel caso di lavori anonimi, o di lavori rilasciati
sotto pseudonimo o fatti per il noleggio, il copyright dura 75 anni
dall’anno della sua pubblicazione, per 100 anni da quello della
sua creazione, qualunque termini prima” (17 USC Section 302c).
Né queste società sembrano disponibili a intenerirsi per gli
accorati appelli della "gaming community" perché cessi lo
stato di abbandono del software più datato. Secondo la S.I.I.A.
"Le leggi a tutela del copyright non impongono alcun obbligo a
carico del proprietario del copyright di commercializzare il
prodotto o di renderlo disponibile al pubblico per un periodo di
tempo indeterminato".
Un nuovo "affaire Napster”, dunque? Contro questa
eventualità c'è la virtualità del danno, mentre i guadagni dei
"pirati" appaiono scarsi. Si tratta di semplici pagine “Web”
e di “ftp”, che non usano, come faceva Napster, un programma o
un sistema di gestione centralizzata delle risorse (e un logo
protetto dal copyright!). Per contro l'"abandonware"
solleva anche questioni di natura non commerciale: che cos'è un
videogioco? E' la "lively art for the 21st century" di cui
parla Herny Jenkins del MIT di Boston oppure solo un prodotto di
consumo, come una saponetta o un pacchetto di patatine, destinato a
diventare presto spazzatura?
Un “game designer” è un artista o no? Qualche tempo fa Greg
Costikyan -“game designer”, “game industry business consultant”
e scrittore di fantascienza- sul New York Times rifletteva
pubblicamente sull'importanza del libero accesso ai vecchi giochi da
parte dei "game designer" per apprenderne la tecnica,
così come possono fare liberamente gli scrittori o gli artisti. E
lanciava un grido di allarme: "molti ‘game designer’
ignorano i giochi pubblicati più di cinque anni fa.
C'è meno varietà di prodotti oggi nell'industria di quando non ce
n'era solo pochi anni addietro. Nessuno oggi pagherebbe per produrre
giochi come "Balance of Power" una seria simulazione delle
dinamiche politiche di Chris Crawford o "M.U.L.E.", un
gioco non violento sull'economia di Dani Bunten; o l'originale
SimCity di Will Wright (tutti "best seller" ai loro
tempi), perché questi giochi non si adattano alle categorie di
marketing oggi accettate".

Se è così, non sorprende che anche tra gli
autori ed editori vi siano delle voci contro: vi è chi si dichiara
in qualche modo favorevole al rilascio dei giochi da parte dei
proprietari dei diritti, ma non da parte di “webmaster”
indipendenti; altri rilasciano già il codice sorgente del software,
magari per portarlo su Linux. Un’importante società di software,
la Borland, offre gratuitamente alla propria comunità di utenti un
certo numero di applicazioni per lo sviluppo non più in commercio.
E poi i siti di "abandonware" continuano a funzionare,
anzi aumentano di numero, pur dichiarando di essere disponibili, su
richiesta dei proprietari dei diritti, di togliere i prodotti
contestati dal proprio database (in alcuni casi rinviano
direttamente al venditore!).
Come uscirne? Greg Costikyan fa una proposta: creare un museo online
dei vecchi videogiochi (e degli emulatori) gestito da
un'associazione no profit, con il permesso dei proprietari dei
diritti, che utilizzi anche il lavoro volontario degli appassionati,
un Gamemuseum.org per gli studenti, i game designer e i fan del
genere!
Sarà possibile? Più che il diritto d'autore, che va tutelato, è
il marketing che rende questa prospettiva molto lontana. Per
Johnathan Clark, Crakdot.com e videogame Abuse, gli editori dei
giochi sono spaventati dalla dispersione dei contatti che invece
verrebbero concentrati sui loro siti ufficiali. Temono che
nonostante le campagne promozionali gli acquisti dei nuovi giochi
subiscano dei rallentamenti; senza contare i contratti di esclusivi
per la vendita dei prodotti (secondo Clark la Sony spende 10 milioni
di dollari all'anno in marketing per i titoli della Playstation!).
Un conflitto sul filo del tempo, le società di “videogame” non
desiderano subire la concorrenza dei loro vecchi prodotti, e perdono
il monopolio dell'affiliazione. Più che altrove nel mondo digitale
il tempo è denaro e chi riesce a "fare comunità" ha
vinto. La storia potrebbe diventare infinita ...
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