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Ai confini del corpo


Francesco Roat

 

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"Dove corrono i confini del corpo? Dove termina il corpo?" si chiedeva Heidegger senza trovare risposta. Come penetrare l’enigma di una carne che (ha detto bene Merleau-Ponty) ci consente di cogliere "la carne del mondo"? Ancora: la psiche, la mente, l’io sono mere funzioni fisiologiche o altro? E soprattutto: fino a che punto noi siamo padroni o schiavi del nostro corpo, di quest’ambito dagli sfrangiati confini che sempre è proteso verso l’altro da sé, che sempre abbisogna dell’altro in cui specchiarsi e riconoscersi?

Questi, fra i tanti sollevati, sono gli interrogativi cruciali che si/ci pone Franco Rella in "Ai confini del corpo" (Feltrinelli) mediante una riflessione la quale – proseguendo il discorso iniziato nel saggio precedente ("Negli occhi di Vincent. L’io nello specchio del mondo") intorno al soggetto che tenta di sapersi e di dirsi – cerca di investigare quelle frontiere dell’esperienza corporale che sono le passioni, la sofferenza, nonché la consapevolezza di quell’impensabile costituito dall’assurdo della morte.

E di un saggio davvero erratico ed eccentrico si tratta, che alterna analisi di testi letterari, filosofici e di opere d’arte a scampoli narrativi; infine a considerazioni in prima persona sull’esperienza del "corpo proprio", attraverso una scrittura ad andamento ellittico, fatto di avanzamenti e retrocessioni, di scarti improvvisi e intrusioni dell’immaginario, per cogliere dalle più svariate angolature quel microcosmo che è il corpo nel suo senso più autentico o segreto, costituito sia dalla coscienza di esistere entro il limite angusto di una vita destinata alla morte, sia dal cercare di superare quel limite di finitudine, nell’inesausta tensione verso un oltre che potremmo chiamare orizzonte metafisico, spiritualità o anche soltanto Eros.

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Nell’erotismo, nell’abbraccio amoroso si apre uno spazio inedito, sottolinea Rella, poiché il desiderio che esso esprime "è sempre desiderio di un altro, di un oltre", sebbene il luogo in cui ci conduce Eros sia piuttosto un’atopia, una straniante assenza di luogo rispetto al panorama consueto del logos, della fredda razionalità calcolatrice. Sarebbe quindi opportuno trovare un’espressività unificante, una modalità esistenziale che avvicinasse amore a ragione: per un sì alla vita a 360 gradi che non avesse tuttavia a comportare rimozioni o esorcismi rispetto al suo fatale venir meno.

Ma da Eros a Thanatos entro/oltre il perimetro della fisicità il passo è breve, giacché la morte abita il corpo fin dall’istante della nascita e ogni domanda intorno al corpo comporta pure una domanda intorno alla sua destinazione finale: costituita da un nullificarsi – come ritiene chi non crede nella possibilità di una vita ulteriore dopo la morte – o da un’apertura indicibile verso l’altrove per antonomasia.

E sono proprio le pagine sulla vecchiaia, non a caso al centro del saggio, a costituirne il cuore. Pagine amare in cui l’autore si scava e si confessa, confrontandosi con quella che per lui rappresenta la terribile verità dell’invecchiamento: quell’essere sospinti "faccia a faccia con la morte che è più terribile della morte stessa, come una interminabile angosciosa insonnia". Quando, raggiunta la senescenza, l’uomo perviene a quello che forse è il suo stato più liminare e autentico allorché, nel mettersi a nudo, la vita scopre il suo lato oscuro, quello della morte, appunto.

Così ai confini del corpo appare l’ombra del nulla e della vacuità ma, al contempo, la speranza d’una pienezza che solo i mistici osano dire d’aver sfiorato. Per gli altri, sottolinea Rella, per coloro i quali vivono il disincanto del nostro tempo, la filosofia "ha messo in questione l’essere e messo in questione il soggetto". Tramontati gli assoluti, venuta meno la supponenza di trovare fondamenti o principi primi e sgombrato il campo dall’ontologia, pare d’avvertire come una sorta di vuoto nel linguaggio e nel corpo. Non sarà azzardo, suggerisce Rella, definire questo spazio "sacro"?

Ovvio che qui la riflessione speculativa debba arrestarsi, memore del monito di Wittgenstein ("Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere"). Anche se l’urgenza di dire ciò che la teoresi logico-concettuale non riesce a esprimere può trovare altre vie, come appunto quella di un discorso che stia fra il saggio, l’invenzione artistica e il romanzo; di un linguaggio inaudito che esprima ciò che Rella chiama "il pensiero del confine", in grado di cogliere "il dentro e il fuori, il qui e l’altrove". Un pensiero che però non esuli dalla corporeità ma ne sia pregno, in quanto la parola "senza la vibrazione nella carne, evapora come una nebbia leggera che si leva dall’asfalto delle strade la mattina d’estate".

 

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