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Spiacenti Manuel, la rivoluzione è finita

 


Antonio Carioti


Come sanno bene i suoi lettori, il catalano Manuel Vázquez Montalbán non è solo un raffinato narratore, noto soprattutto per le inchieste dell'investigatore bongustaio Pepe Carvalho. Lo si può considerare un intellettuale a tutto tondo, che coniuga il talento letterario a un forte impegno civile. Come idee politiche si avvicina al nostro Dario Fo: sinistra radicale, ma non settaria, molto sensibile alle ingiustizie sociali e aspramente ostile verso il capitalismo. Uno degli avversari più strenui del cosiddetto "pensiero unico" neoliberale.

Con queste premesse ci si accosta al suo libro-inchiesta "E Dio entrò all'Avana", edito in Italia da Frassinelli, con il timore di trovarvi un'esaltazione acritica del regime cubano, come quelle che non di rado si odono nel nostro paese da parte di scrittori, cantanti, registi.

Una prima conferma sembra venire dalla copertina, descritta efficacemente nelle prime righe del testo di Vázquez Montalbán: "Come un Atlante, Castro sorregge il cielo tempestoso e la sua poderosa statura spicca sulle rocce in riva al mare, la città sullo sfondo comincia a essere avvolta dalle tenebre e non è il sole, bensì un raggio a illuminare l'esitazione dei cieli. Ma non c'è esitazione in questo Fidel Castro oramai invecchiato e magro...".

Roba da interrompere subito la lettura, per il fastidio che suscita l'immeritato prestigio di cui gode un dittatore al potere assoluto da oltre quarant'anni, i cui sudditi vivono in una deplorevole condizione di miseria e mancanza di libertà. Possibile che il romanticismo rivoluzionario faccia ancora tanta presa, a dispetto dei fatti?

Se però ci si inoltra nelle pagine successive, l'impressione cambia. Malgrado emerga spesso il suo pregiudizio favorevole a Castro, e soprattutto contrario agli esuli anticomunisti, l'autore fa parlare anche parecchie voci critiche verso il "líder maximo" e non nasconde gli aspetti più negativi della realtà cubana.

E' chiaro che il cuore di Vázquez Montalbán batte per gli ideali rivoluzionari, ma non abbastanza forte da obnubilare la sua ragione o da indurlo a ingannare i lettori. Di questo gli va reso merito, se non altro perché ha compiuto uno sforzo di comprensione autentico, invece di limitarsi a ripetere litanie ideologiche preconfezionate.

Eppure stupisce la sua insensibilità verso le sofferenze del popolo cubano. Vázquez Montalbán non commenta in alcun modo lo squallido episodio di una donna che gli offre la figlia. Non s'indigna perché le imprese estere che impiegano manodopera nell'isola pagano i relativi stipendi in dollari al governo dell'Avana, che poi li trasferisce ai legittimi destinatari in pesos dal valore assai inferiore.

Non trova mostruosamente iniquo che lo Stato sorvegli e penalizzi i gestori di piccoli ristoranti a conduzione familiare o i contadini che portano i loro prodotti al mercato "perché non si arricchiscano troppo", mentre i capitalisti stranieri fanno profitti con il turismo. Non trova nulla da ridire quando il ministro della Cultura Abel Prieto gli spiega che a Cuba il settore di sua competenza "è e sarà un sistema completamente statale, cioè di tutti" (!).

Vázquez Montalbán scrive tra l'altro con serafica indifferenza: "In pochi capiscono che Miami è un buon affare per il castrismo: ogni visto d'uscita da Cuba costa da tre a trentamila dollari e lo Stato si leva di dosso una bocca da sfamare e un potenziale dissidente". Come se questo cinico commercio di carne umana, già praticato ampiamente in Europa dalla Germania Est, non meritasse la minima deplorazione.

C'è da scommettere che se il creatore di Pepe Carvalho avesse constatato situazioni del genere in un paese capitalista, avremmo sentito la sua penna magistrale fremere per lo sdegno. Invece a Fidel si perdona tutto: anche infliggere vent'anni di galera agli oppositori politici è una colpa veniale, se la si commette in nome della lotta contro l'imperialismo yankee.

Si dirà che Castro non è un santo, ma in America Latina c'è molto di peggio, paesi dove la povertà e la violenza del potere toccano vertici ben più elevati. L'argomento non è del tutto infondato, ma si presta a due obiezioni.

La prima è che Cuba, quando Fidel prese il potere, era il paese latino-americano più prospero e progredito: "Non bisogna dimenticare - precisa l'economista Carlos Solchaga - che nel 1959 quest'isola aveva un reddito pro capite di cinquecento dollari, mentre noi in Spagna non arrivavamo di certo ad averne trecento". La seconda è che nessuno in Europa si sogna di elogiare o addirittura citare come modello i governanti del Messico, della Colombia o del Perù.

Nemmeno Vázquez Montalbán, a dire il vero, giunge al punto di cantare le lodi di Castro o giustificarne gli abusi. Eppure per lui la linea che divide il bene dal male resta sempre quella: l'Avana è "la città degli spiriti", Miami "la città della barbarie", anche se la gente fugge dalla prima verso la seconda e non viceversa.

Conscio del fallimento del collettivismo burocratico di cui Cuba è uno degli ultimi esempi, lo scrittore catalano ripone le sue speranze in una nuova sintesi di pensiero gramsciano, cultura comunitaria indigena, populismo cattolico. Strana mistura in cui dovrebbe incarnarsi, all'Avana come altrove, la resistenza al mercato globale.

I diretti interessati, tuttavia, non sembrano prestare grande attenzione a simili suggestioni. Scrive Vázquez Montalbán: "La letteratura cubana di oggi, come anche il cinema cubano, parla della Rivoluzione in una sola maniera: non menzionandola". Una ragione ci sarà.

 

 

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