La fatica di imparare a vivere
Francesco Roat
Sino a poco tempo fa, nei Paesi occidentali almeno, il suicidio tranne le rare
eccezioni del sacrificio volontario di sé per salvare vite altrui veniva
considerato alla stregua dun vero e proprio omicidio. Già a partire dal diritto
romano assistiamo ad un suo interdetto, per non parlare di quello ecclesiastico che mette
sullo stesso piano delittuoso chi uccide e chi si uccide.
Certo oggi si guarda con maggiore indulgenza al fenomeno del levar la mano su di sé,
venendo esso ritenuto quasi unanimemente la conseguenza di un gravissimo disagio
psicologico-esistenziale. Non un atto criminoso, quindi, ma sempre riprovevole e in un
certo qual senso patologico.
Semmai il parallelismo suicidio/libera scelta, per una ristretta fascia
dellopinione pubblica, si pone solo nei confronti delleutanasia: pratica
intorno a cui è ancora in corso un dibattito acceso fra sostenitori e detrattori ma che
tuttavia, secondo i più, è faccenda di malati terminali o inguaribili e comunque non
interessa la stragrande maggioranza della gente.
Resta che, di là da ogni polemica in merito allargomento suicidio ed alla sua
liceità o meno, il problema non sta forse nello schierarsi a favore o contro la
determinazione a togliersi la vita, quanto piuttosto in cosa ciò significhi e comporti
nella psiche di chi sia intenzionato a compiere tale atto estremo; anzi nellanima,
come preferisce chiamarla con voce latina James Hillman, che nel saggio "Il suicidio
e lanima" (Ed. Astrolabio-Ubaldini) si interroga giusto su uno fra gli ultimi
dei tabù dellOccidente, non a caso legato alla morte: il rimosso per antonomasia
dalla nostra cultura.

Infatti lalternativa di mettere fine volontariamente ai propri giorni prima di
quanto natura concederebbe sarà pure una questione etico-socio-filosofica, ma in concreto
ciò non toglie che il suicidio sia una delle possibilità umane. "La morte può
essere scelta" sottolinea Hillman, rimarcando il vero scandalo insito in tale opzione
estrema.
Ma allora il problema è piuttosto: fino a che punto essa è un libero arbitrio e fino
a che punto rappresenta invece solo un escamotage da parte di quanti non abbiano
saputo, durante la vita, accettare la morte (ossia la perdita di status, affetti,
persone) e si sentano costretti a cercarla anzitempo, a rifugiarsi in essa per eludere
frustrazioni o conflitti?
In questo caso, secondo Hillman, la crisi del suicida - il quale paradossalmente cerca
la morte avendo sempre mancato/esorcizzato lappuntamento fatale con
linevitabile declino di tutte le cose - rappresenta "uno dei modi per fare
esperienza della morte", del venir meno, appunto.
In questa prospettiva lapproccio psicoanalitico che coglie in questo desiderio
lanelito dellanima ad "avere la sua morte, per poter rinascere",
riconoscendo il profondo bisogno di trasformazione e confermando la morte psichica,
può giungere a liberarla dalla fissazione organica; in parole povere: può far sì che il
suicidio concretamente non si attui.
Ma senza negare gli aspetti negativi di sé (lOmbra, direbbe Jung), anzi
accogliendo angoscia e sofferenza quali ambiti virtualmente salutiferi, in unottica
che si rifà alle teorie di Jaspers e von Weizacker sul senso biografico di ogni malattia,
colta in modo olistico come espressione (sintomo) di un male-stare che investe globalmente
luomo in quanto unità psicosomatica.
Da qui lidea che il problema che lo psicoterapeuta deve affrontare non stia tanto
nella cura di questa o quella patologia, ma investa in modo assai più ampio e complesso
il "come vivere" e in parallelo il "come morire".
Tutto al contrario di quello che persegue una certa medicina, assillata
dallurgenza di sbarazzarsi al più presto possibile della malattia attraverso
un troppo disinvolto utilizzo degli psicofarmaci, il cui risultato è magari sì la
scomparsa dei sintomi ma al contempo anche di quel disagio da cui il paziente non va
sottratto, dovendolo piuttosto attraversare/esplorare per ritrovare sé stesso e
ricostituire la propria integrità.
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