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L’ombra della luna

Francesco Roat

 

Se dovessi riassumere in una parola la chiave di lettura e di scrittura dell’ultimo romanzo di Elisabetta Rasy "L’ombra della luna" (Rizzoli, pp.208, L.26.000), direi senz’altro che esso si delinea all’insegna dell’ossimoro: cioè della insistita compresenza di ambiti antitetici. In primo luogo – e al di là del titolo stesso che allude a una paradossale ombra lunare – lo sfondo su cui si staglia la complessa trama di questo romanzo, fatto di immagini nitidamente fosche, in una concomitanza di tenebre e luce, di atmosfere cupamente romantiche pur se "ogni temporale rende più dolce l’aria e più limpido il cielo"; in secondo luogo il darsi contrapposto di razionalità e passionalità, psiche e soma; infine l’ambivalenza che vede presenti nell’animo della protagonista, accanto all’utopia tutta illuministica (o solare) di far luce su ogni ambito umano, l’inclinazione melanconica (o lunare) verso un cupio dissolvi che ce la presenta nella cornice crepuscolare d’un romanticismo alquanto decadente.

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Insomma, come il lettore apprende dal capitolo introduttivo, si tratta di una storia "crudele" ma insieme "meravigliosa", ambientata nella Parigi della Rivoluzione francese e avente per eroina una donna realmente esistita: Mary Wollstonecraft – sorta di protofemminista autrice di una polemica Dichiarazione dei diritti delle donne –, della quale la Rasy, mediante accorte contaminazioni di fabula e riscontri storici, ci narra uno scampolo di vita trascorsa in Francia e soprattutto l’amore che la legò a Gilbert: un personaggio, guarda caso, ancipite e speculare rispetto alla figura dell’amante: per un verso "coraggioso capitano" fautore dell’indipendenza americana dall’Inghilterra, dall’altro cinico donnaiolo e avventuriero senza scrupoli.

Un’ulteriore vicenda tuttavia, e non meno importante, corre parallela al racconto della passione tra Mary e Gilbert: quella dell’io narrante, ossia della giovane cameriera Marguerite, la quale frequentando Mary impara "a pensare". Così a una attenta lettura riemerge ancora una volta il double-face di questo testo complesso che appare sempre più come un romanzo di formazione. Oserei dire – sottolineando la valenza positiva del termine – un romanzo sentimentale; in quanto gradualmente Marguerite, il cui spirito era un tempo abitato solo "da immagini ed emozioni", grazie alla vocazione pedagogica di Mary riesce a esprimere anche "pensieri e opinioni". E sottolineo il termine anche. Infatti è sul binomio ragione/immaginazione – secondo Mary da coltivare insieme – che si fonda l’apprendistato esistenziale della giovane.

Però talvolta il contrasto fra sentimento e ragione si fa irriducibile; è il caso del rapporto burrascoso fra Mary e Gilbert, destinato a innescare per la donna "l’inizio della rovina". Quindi Marguerite assiste al tracollo dell’amica in un vortice depressivo. "Ho cercato di abitare la luce del giorno, ma vedo che il mio cuore ne predilige il misterioso rovescio" confessa Mary: giusto lei che aveva sempre cercato una sintesi unificatrice fra maschile e femminile, logos e pathos, tentando caparbiamente di conciliare gli opposti. Ma si sa, l’amore "è una scienza inesatta" o l’errore sta forse nel ritenere di poter mai raggiungere una conciliazione definitiva fra le istanze della mente e del cuore.

Tale dunque appare il messaggio di questa atipica prosa: non ci si può illudere di pacificazioni o approdi ultimi; non si può scegliere una volta per tutte di abitare soltanto l’ombra della luna o la "luce solare della ragione". Una prosa, aggiungerei, insolita anche nella scelta stilistica di privilegiare un recupero del romanzo tradizionalmente inteso: basato sulla fabulazione, sul gusto di narrare una vicenda, di dipanare una trama sempre scorrevole e a tenuta di lettore, ma al contempo audace per la complessità tematico riflessiva che emerge da questa storia colta sull’orlo dell’abisso d’una Storia ben più vasta, allorché fatalmente l’utopia ebbe a precipitare nel Terrore.

 

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