La nostra identità personale per costituirsi pare abbisogni del tu: laltro da
sé in grado di cogliere il "chi", impossibile da decifrare da parte del
soggetto in modo autoreferenziale. La prima manifestazione di ogni singolo essere umano
consiste quindi nellesporsi, non potendosi separare laspetto esibitivo da
quello relazionale dellidentità.
Come ebbe a sottolineare Adriana Cavarero, infatti, ogni uomo sa di essere "un sé
narrabile immerso nellautonarrazione spontanea della sua memoria"; per cui
lio che la racconta è indistinguibile dal sé che viene raccontato.
Lautobiografia stessa del resto (o il racconto in prima persona) è una storia
che dice la relazione con gli altri e con il mondo, non trovando luogo conoscenza al di
fuori di tale rapporto e poiché la memoria autobiografica da sola non potrà mai
raccontare per intero la vita, se non altro poiché non può ricordarne linizio.
Così la parola, il ricordo della madre (il primo tu a cui ci rivolgiamo) assume una
valenza basilare per ogni narrazione intorno a noi stessi, divenendo specchio e sorgente a
cui attingere per la nostra rielaborazione mnemonica. Ma se proprio la madre per
trauma o malattia diviene smemorata, come e dove fondare la nostra autobiografia?
Come non rischiare di smarrire noi stessi, assieme a lei, frammenti di vita, evitando
che laltrui naufragio ritentivo si traduca nella perdita di tutto un universo fatto
di ricordi, aneddoti, racconti insieme pubblici e privati: riguardanti cioè sia la storia
con la esse minuscola, sia quella con liniziale maiuscola?
Questa la problematica sottesa al libro dellinglese Linda Grant "Raccontami
chi sono", recentemente pubblicato da Bollati Boringhieri, dove la scrittrice narra
il proprio difficile rapporto con la madre anziana, la quale sofferente di demenza
senile con conseguente deterioramento progressivo della memoria vive la perdita di
unidentità solo a tratti in grado di ricomporsi. Una perdita che innesca in Linda
lurgenza di ripercorrere il proprio passato e quello materno, ovvero le vicende
avventurose di una famiglia di ebrei dellEuropa orientale, emigrati ai primi del
novecento in Inghilterra.
Per aiutarsi in questo viaggio a ritroso nel tempo e nei meandri della sua e
dellaltrui memoria, Linda non solo interroga la madre ma pure una serie di vecchie
foto in bianco e nero, che dovrebbero servire da catalizzatori duna reminiscenza
difficile da realizzare, poiché di tutti i congiunti "Mia madre è lultima.
Tutti gli altri sono morti".
Questo voler ritrovare le proprie radici per Linda è altresì una sorta di esorcismo
contro un vuoto che non è solo lassenza del nebuloso limbo di ricordi sempre più
confusi e vaghi in cui è destinata ad approdare la malata, ma il venir meno negli anni di
presenze e affetti: uno scongiuro contro la morte, dunque.
"La memoria, ora capisco, è tutto, è la vita stessa" confessa Linda
osservando il lento deteriorarsi delle facoltà mentali di sua madre, regredita a un
livello infantile e accudita dalla figlia in uninversione di ruoli che sconcerta
questultima, incapace di elaborare il lutto della perdita prima ancora della
genitrice dellonnipotenza infantile che vuole eterni i genitori.
Unico rimedio al venir meno resta la scrittura, se scrivere è cristallizzare il
ricordo, invertire il corso del tempo, esorcizzando il timore ancestrale della morte.
Accade perciò che non sia più la madre a narrare/rammentare, ma appunto la figlia.
E lo stesso però, se la memoria riesce a trionfare in qualche modo sulloblio.
Si ribalta così in maniera speculare la direzione imperativa voluta dal titolo del
libro. "Ricordami chi sono" non è più rivolto dallio narrante
allanziana signora smemorata, ma da questa a Linda. Limpresa è disperata
però, non avendo possibilità alcuna di riuscita, giacché ogni parola, qualunque
messaggio viene subito scordato dalla madre, la cui vita tuttavia, come affrancata dal
passato e incapace di proiettarsi nel futuro, sembra abitare un presente fatto di attimi
da cogliere con la grazia straniata di "una vecchia, vecchissima bambina",
perennemente stupita di fronte alle vetrine, ai campanili o ai ciliegi fioriti.
Ed è nella resa di entrambe, madre e figlia, o forse meglio nellaccettazione
della realtà, che si chiude questa storia così umana e pietosa. Un racconto sulla
memoria e sul passato, che poi non è davvero morto e sepolto se, interrogandolo, lo
facciamo rivivere in un modo che alla fin fine "non smette di sorprenderci" mai.