Risulta dalle inchieste demoscopiche che gli zingari sono il gruppo
etnico più malvisto dagli abitanti del nostro paese. E nel libro di Marco Revelli
"Fuori luogo", edito da Bollati Boringhieri, se ne trova un'eloquente conferma,
che parte da un caso concreto dai contorni inquietanti.
L'autore, figlio del noto partigiano e scrittore Nuto Revelli, è una
delle voci più radicali della sinistra, una coscienza critica esigente e agguerrita. Tra
il novembre e il febbraio scorsi, ha preso a cuore la causa di una piccola comunità di
nomadi proveniente dall'Est, che si era accampata alla periferia di Torino, nei pressi
dello stadio Delle Alpi, sul territorio del comune di Venaria Reale.
Era gente poverissima, fuggita dalla Romania per sottrarsi alle
persecuzioni di un postcomunismo balcanico dalle tinte torbide. Costituivano una presenza
ingombrante e scomoda, tanto che amministratori locali e funzionari statali, magistrati ed
esponenti del governo hanno fatto di tutto per sbarazzarsene, fino al fatale decreto di
espulsione, o "deportation order", e alla distruzione completa, con tanto di
rogo "purificatore", del campo rom.
Una brutta storia, che ha visto il pregiudizio, il formalismo,
l'ipocrisia e l'amor di quieto vivere prevalere nettamente sui valori umanitari e
solidaristici di cui così spesso ci si riempie la bocca. Per giunta, sottolinea Revelli,
i protagonisti negativi non appartengono allo schieramento politico cui si rinfacciano
solitamente insensibilità ed egoismo sociale, ma a quello opposto. E' ulivista la giunta
di Torino e si può considerare quasi di estrema sinistra quella di Venaria Reale,
composta da Rete, Verdi e Rifondazione comunista.
Eppure non c'è stato niente da fare, malgrado si trattasse di rom
molto particolari, a suo tempo "sedentarizzati" dal regime romeno. Persone
disposte a lavorare regolarmente, contro le quali, durante il loro soggiorno a Torino, non
è mai stata indirizzata alcuna denuncia penale. Insomma, assicura Revelli, zingari che
non rubavano.
Era stata anche avanzata, da una cooperativa antirazzista, la
ragionevole ipotesi di alloggiare i rom, durante l'inverno, in alcune scuole comunali in
stato di abbandono, che essi in cambio avrebbero restaurato. Ma al pensiero della reazione
che ciò avrebbe suscitato nei quartieri interessati, tutti si sono tirati indietro.

Addirittura, denuncia l'autore, ci si è adoperati per fare in modo di
"mantenere il più basso possibile il livello di vivibilità di quel territorio"
dove i nomadi si era insediati, per evitare che "un sia pur impercettibile
miglioramento delle condizioni di vita" attirasse nella zona altri ospiti
indesiderati.
Revelli ha seguito l'odissea dei profughi passo passo. Ha condiviso la
loro mensa, ha dormito nel campo. Le sue narici sono state invase dal "lezzo
dolciastro della miseria". Le sue pupille hanno visto "il muco verde dei
bambini, gli occhi lucidi di febbre, i piedi scalzi sull'erba bianca di brina".
Quanto basta per indignarsi di fronte alla gelida, burocratica noncuranza non solo delle
autorità, ma anche degli intellettuali sedicenti progressisti.
Nella sua Torino, un tempo la città operaia di Gramsci, Gobetti e don
Bosco, egli scorge oggi "qualcosa di osceno". Un'"incapacità di misurarsi
con l'altro", un'intolleranza che non s'incontra, in questa misura, nell'arretrato
Mezzogiorno e neppure nel Nord Est bigotto e leghista, dove almeno la fame di braccia e
"l'informalità del sistema produttivo" svolgono un ruolo di ammortizzatore.
Del resto questa è una vicenda in cui i buoni e i cattivi tradizionali
spesso si scambiano le parti, tra lo sgomento doloroso dell'autore. Lo Stato centrale si
dimostra più comprensivo degli enti locali, i poliziotti più ragionevoli dei magistrati.
E la stessa democrazia mostra il suo volto oscuro, con gli eletti che si adeguano
"agli umori più elementari e più bassi" di coloro che li hanno votati.
Si può trovare troppo rigido l'atteggiamento di Revelli. Gli si può
obiettare che i pregiudizi popolari contro i rom non sono frutto di una psicosi
collettiva, ma trovano una conferma piuttosto solida nelle statistiche sulla delinquenza,
che vedono gli zingari, soprattutto quelli provenienti dalla ex Jugoslavia, largamente in
testa nelle graduatorie dei condannati per furto e rapina.
Lascia perplessi anche l'entusiasmo dell'autore per "il tipo di
socialità" che ha incontrato nel campo. Si assiste quasi a un ritorno del "mito
del buon selvaggio" in alcuni passi del libro. Per esempio: "Ho avvertito più
intensità di vita in questo spazio tremendamente vuoto di cose che nel resto di questa
città esistenzialmente morta sotto la superficie del traffico e delle vetrine".
Oppure: "...qui si avverte fisicamente l'esistenza di quel campo di forze comune, di
quello spazio 'pubblico' di condivisione tra un individuo e l'altro dove ci si può
incontrare e cooperare senza competere, che noi abbiamo perduto, murati ciascuno dentro di
sé come atomi predatori capaci di praticare solo l'algebra a somma
E' curioso, ma forse inevitabile, che l'ultima oasi, per chi rifiuta
l'individualismo utilitarista, diventi una comunità retta da regole arcaiche, nella
quale, per ammissione dello stesso Revelli, "gli uomini parlano, le donne
ascoltano". Marx ed Engels definivano "socialismo feudale" quello che
agitava "a guisa di bandiera la bisaccia da mendicante del proletariato". Ma
erano altri tempi.
Conviene comunque prendere molto sul serio le riflessioni finali
dell'autore sull'impotenza della politica, incapace di tutelare coloro che sono privi di
peso contrattuale o elettorale, e sui limiti della cultura di sinistra, indifferente alla
sorte dei reietti che non può arruolare in qualche modo sotto le proprie bandiere o
almeno mobilitare contro un nemico comune.
Si manifesta qui, per l'ennesima volta, la crisi dello Stato nazionale
come sede suprema e sovrana dello spazio pubblico. Non sono solo i movimenti vorticosi
della finanza internazionale, ma anche le migrazioni di massa rese possibili dal
rimpicciolirsi oggettivo del pianeta, a decretare l'insufficienza di questa dimensione. Il
finanziere rampante di Wall Street e il piccolo rom intirizzito dal freddo sono distanti
anni luce, ma segnalano le stesse lacune della vecchia organizzazione del mondo.
Saprà la politica far fronte a queste sfide nel secolo che viene?
Saprà dare attuazione agli articoli della dichiarazione universale dei diritti dell'uomo,
che Revelli pone ad epigrafe dei capitoli del libro? La lettura di "Fuori luogo"
non induce di certo a previsioni ottimistiche, ma aiuta a diffondere la consapevolezza dei
problemi. Con i tempi che corrono, non è un merito da poco.