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Arte dell'oblio, dovere della memoria

Francesco Roat

 

Per la mitologia greco-romana il Lete è il fiume dell’oblio. In antico si riteneva infatti che le anime dei morti bevessero la sua acqua per scordare l’esistenza passata, disponendosi così a rinascere a nuova vita. Ma non solo: Lete è anche il nome di una divinità, la quale forma una coppia di opposti con Mnemosyne, dea della memoria. E non è a caso che queste due figure ci siano presentate da Esiodo, nella "Teogonia", come inseparabili e, ancor prima che antitetiche, quasi complementari.

Poiché l’essere umano è un animale che naturalmente tende a ricordare e insieme a dimenticare. In primis è impossibile tenere a mente ogni cosa (ma forse è un bene che il nostro cervello non sia l’equivalente d’un hard disk da computer) e poi dall’oblio di infelicità e sconfitte ci si attende non soltanto sollievo; esso rappresenta la condizione per risorgere davvero dal dolore ad una nuova vita. Quindi memoria e oblio paiono ambiti inscindibili, funzioni entrambi necessarie e al singolo e alle società.

Se esiste perciò un’arte della memoria – e ogni cultura, ogni trasmissione di valori, tradizioni o saperi si fonda su di essa – non ha da esservi anche un’arte dell’oblio, intesa a cancellare dalla mente inessenzialità, traumi ed errori? Questa la domanda che si/ci pone Harald Weinrich in "Lete" (Il Mulino, pp. 324, L.45.000), attraverso un’inedita panoramica sui monumenti della cultura e del pensiero occidentali, da Platone a Nietzsche, da Omero a Borges, da Montaigne a Freud.

Tuttavia è la riflessione moderna, quella novecentesca sul binomio ricordo/dimenticanza ad essere maggiormente intrigante. A partire dal padre della psicoanalisi, secondo il quale l’inconscio, più che l’ambito del non-conscio, rappresenta semmai quello del dimenticato: di ciò che non scompare dalla psiche ma permane latente, pronto però a riaffiorare e ripresentarsi sotto forma di nevrosi. Con Freud, insomma, l’oblio "ha perso la sua innocenza" e diviene sintomo del malessere esistenziale. Spetta all’analista, dunque, richiamare alla coscienza ciò che è stato rimosso in una strategia terapeutica della memoria che non serve tanto meramente a ricordare, quanto a prendersi cura dell’inconscio, riesumando dagli inferi privati un patogeno oblio.

Ma allora quando la dimenticanza, la cancellazione di inutili file dalla memoria, è auspicabile? Certo nel caso di sin troppe informazioni superflue che, in questo nostro tempo all’insegna dell’ipertrofia comunicativa, rischiano di intasare la nostra facoltà ritentiva. Neppure a livello di banche dati, in effetti, alcun archivio esistente può dilatarsi "proporzionalmente all’aumento della complessità del mondo" e della quantità via via crescente di informazione.

Nessun individuo e nessuna società peraltro – sottolinea Weinrich – può "digerire" una massa di innovazioni come quelle con cui veniamo quotidianamente bersagliati. A tale proposito, saper dimenticare quanto è stato incautamente accumulato nei meandri della memoria è importante quanto il ricordare dati significativi. E’ auspicabile allora un’arte che sappia selezionare/rifiutare l’informazione, in quanto forse neppure la ricerca scientifica alle soglie del 2000 può essere praticata senza una certa componente di oblio.

Ci sono però aspetti in cui la dimenticanza non solo è dannosa, ma immorale. Parliamo, ad esempio, del dovere etico (saggiamente stigmatizzato da Primo Levi in "Se questo è un uomo") di non scordare l’Olocausto, che allegoricamente potrebbe essere visto come un attentato alla memoria stessa dell’umanità; come un sanguinoso tratto di spugna inteso a cancellare il popolo ebraico dalla storia, più ancora che dal suolo europeo. Ed è stata forse per molti ebrei la memoria – quella delle preghiere o dei rituali tradizionali; della loro identità, insomma, che il paradossalmente indelebile numero tatuato sul braccio voleva far loro obliare – l’unica salvezza dall’inferno dei Lager.

Come discernere, allora? Come decidere quali eventi/dati resettare dalla memoria storica o privata? Come muoversi senza danno fra dimenticanza e ricordo se ogni cosa, finanche lo stesso oblio, può assumere valenza di ricerca e significato? Forse attraverso l’arte bifronte del sapere volta per volta conciliare i due aspetti della memoria e della dimenticanza assumendo, come suggerisce Weinrich, un "moderato politeismo" che sappia offrire sacrifici ad entrambe le due divinità: Mnemosyne e Lete.

 

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