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Un incubo orwelliano fra vette innevate

Francesco Roat

 

Non è certo un romanzo nel senso tradizionale del termine "Il distretto di sinistra" (Edizioni e/o) del rumeno – ma scrive in ungherese – Ádám Bodor. Innanzitutto non vi è una vera e propria storia, una vicenda che si dipani dall’inizio alla fine lungo i capitoli del libro.

Già dalle prime pagine, infatti, la conclusione è anticipata, se si può davvero parlare di punto d’arrivo per questo testo eccentrico (qualche anno fa sarebbe stato etichettato come narrativa sperimentale) dove persino la voce narrante, in prima persona, ad un tratto ammutolisce cedendo il testimone a un resoconto stilato in terza persona. Dove ogni atto o pensiero rimanda ad altro dall’azione o dalla riflessione in sé, assumendo una cifra allusiva e simbolica. Dove la straniante atmosfera surreale fa sì – l’ha ben sottolineato Zádor Tordai nella puntuale postfazione – che anche se quanto ci viene descritto può avere senz’altro agganci col passato prossimo d’uno dei tanti Paesi ex comunisti dell’Europa centro-orientale, siamo ben consapevoli che nulla può essere accaduto nel modo in cui tali accadimenti vengono descritti, giacché appunto Il distretto non è e soprattutto non vuole essere storia, ma piuttosto metafora.

Una intensa, a tratti poeticissima narrazione metaforica su un mondo-sistema, su quella monade alienata che era il regime comunista in uno dei tanti satelliti dell’URSS; poco importa se la Romania, l’Ungheria o altri. Non a caso, per rimarcare questo tratto alienante, il protagonista del libro – Andrej – attraversa il davvero sinistro distretto come uno straniero.

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Di lui il lettore non saprà quasi nulla, se non che è solo provvisoriamente destinato al soggiorno in quella gelida landa concentrazionaria, dove non esistono vere identità (persino i nomi e i cognomi delle persone sono imposti loro dall’alto) o individualità. Anche i "colonnelli", sorta di capi politico-militari, muoiono sin troppo facilmente e vengono sostituiti senza che di loro rimanga la minima memoria.

Del resto sembra che nessuno riesca mai a fare ciò che vorrebbe nel distretto, il controllo del quale – sin nei minimi e quotidiani ambiti privati e familiari – viene gestito da un sistema arbitrario e sordo alle esigenze dei singoli. Non solo: all’interno dell’inferno sulla terra che l’inconsapevole Andrej attraversa, tutti si assoggettano di buon grado finendo per divenire complici di autentiche atrocità. Come lo stesso protagonista, che arriva persino ad aiutare un colonnello nell’eliminazione di un transfuga.

Perché una è la regola sovrana del distretto di sinistra: non è data o, quel che è peggio, per i più non è neppure pensabile la diserzione, la ribellione contro tutti i soprusi ed i delitti che, in una sorta di bizzarro contrappasso, ci vengono descritti dallo straniero-straniato protagonista senza sdegno ma con apatia tranquilla, quasi costituissero il naturale andazzo d’un Paese più che normalizzato, normale.

Nonostante questo, e insieme allo scopo di ribadire ulteriormente lo iato lacerante fra ambiente incorrotto e istituzione corruttrice, il popolo montanaro del distretto di sinistra vive in un habitat di spazi aperti e boscosi, tra riserve naturali, vette innevate e valli verdeggianti visitate da "uccelli dalla coda di seta". Lo stesso Andrej si occupa della raccolta dei frutti di bosco, dissipando come un sonnambulo i propri giorni giacché "da quelle parti non succedeva più niente ormai da decenni".

Ed è questo l’aspetto più sconsolante del distretto: un disimpegnato esilio da etica e speranza, forse l’unica autentica colpa, se la si può considerare tale, da imputare agli oppressi personaggi metaforici di Bodor; una fuga dall'intollerabile realtà che però rappresenta l’unica forma di evasione concessa ad ognuno, come a quel memorabile "alpino lento e trasognato con l’animo di un cervo, che stava senza far nulla per ore intere, a guardare attraverso i vetri le nuvole grigie e gli uccelli che passavano sopra gli abeti neri".

 

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