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Savater, la filosofia senza oscurità 

Giancarlo Bosetti

 

Se si può imparare a fare filosofia come si impara ad andare in bicicletta, Fernando Savater si candida a fare il maestro. Lui si presenta modestamente: non sono Eddie Merckx e neanche Indurain, spiega. Nella metafora ciclistica il posto di Merckx tocca, mettiamo, a Kant. Non c’è questione. Ma gli sport si imparano da persone che conoscono le virtù dell’insegnamento e della comunicazione, non solo la materia. E in questo campo Savater è un numero uno: conosce le mosse dei grandi maestri della storia del pensiero come i maestri di sci conoscono i segreti dello slalom da Schranz a Tomba. E riesce qualche volta a spiegarli meglio degli stessi augusti autori.

Metti per esempio le pagine di Hegel sullo scontro tra il servo e il signore davanti agli studenti e molti se ne allontaneranno smarriti. Troppe oscurità. Se invece offri loro un’entrata più seducente come quelle del capitolo "Vivere insieme" dell'ultimo saggio di Savater, "Le domande della vita", appena uscito per Laterza, allora la "Fenomenologia dello spirito" apparirà per quello che è, un libro che parla anche di noi, della storia della nostra società, del nostro rapporto con gli altri, con l’altro, del lavoro e della libertà, del passaggio da natura a cultura, dell’amore e dell’odio, delle inquietudini della coscienza, di una lotta per la vita e per la morte.

Si capisce che un bravo maestro di sci o di pianoforte un po’ ti deve imbrogliare, deve farti sembrare le cose più facili, non può dirti alla prima lezione che ci vorranno mesi, anni di fatica per muoversi con destrezza sulla tastiera o sulle piste. Non deve scoraggiarti, insomma, ma se è bravo ti deve "impostare", insegnandoti subito a evitare gli errori fondamentali.

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Ed è quello che fa Savater, infastidito da quel genere di pratica filosofica che si riduce a una discussione puntigliosa tra professionisti prigionieri del dialogo tra specialisti. Il "profano intelligente" non va trattato a pesci in faccia come spesso accade nella saggistica corrente, ma è in un certo senso il "cliente" principale della filosofia. Se non serve alle persone istruite e riflessive, anche se non specializzate professionalmente, per alimentare il loro pensiero sulle "domande della vita", a che altro può servire la filosofia?

Le prime difese preparate da Savater per un profano che non voglia passare per fesso consistono in una serie di accorgimenti necessari per evitare i capitomboli iniziali: in guardia contro quelli che credono di sapere mentre non fanno che ripetere gli errori già fatti da altri; attenzione a quelli che mostrano di aver trovato risposte chiare e conclusive sul tema "che cosa è il mondo" e "che cosa ci facciamo noi lì dentro". Ancora: è inutile cercare di risolvere il problema della conoscenza, e del rapporto tra l’io e il mondo, senza una vaga idea delle difficoltà già incontrate e degli appigli già apprestati lungo il cammino da qualche ragguardevole intelligenza.

Perché, per esempio, una volta prigionieri del solipsismo, e cioè di una impasse per cui non riusciamo a uscire dalla prigionia dell’io (chi ci assicura che esistano altri esseri capaci di coscienza? che tutto quanto il mondo non sia altro che il prodotto di un essere isolato?) non accettare il passaggio offerto da Wittgenstein: da quando inizio a riflettere su me stesso trovo dentro di me un linguaggio senza il quale non potrei né pensare né sognare, un linguaggio che non ho inventato io e che deve essere necessariamente pubblico? La parola rivela il vincolo di una interiorità con altre interiorità.

Ma accettare "gli appigli" non significa ridurre il nostro bisogno di filosofare alla lettura della storia della filosofia. La quale certo male non fa per chi voglia darsi pensiero del senso della vita e delle cose, pena il naufragio nel ridicolo se uno volesse reinventare una sua critica della ragione pura senza avere la minima idea di quella che già è stata scritta.

Con la stessa sapiente capacità di scegliere alcuni dei nodi più importanti per chi intenda evitare gli errori più comuni, Savater propone un bel confronto tra la definizione dell’essere umano in un coro dell’Antigone di Sofocle ("… niente del futuro lo coglie sprovvisto di risorse…, possedendo oltre misura la capacità di inventare risorse, questa lo volge talvolta al male e talvolta al bene…") e la dignità dell’uomo secondo Pico della Mirandola, dove il tratto comune tra l’idea greca classica e quella rinascimentale della natura umana è il suo essere indeterminata, aperta all’azione plasmatrice e rigeneratrice.

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Savater, anche se non ricorre ad Arnold Gehlen, come sarebbe stato forse necessario, introduce con passione il tema filosofico-antropologico dell’uomo come animale "insoddisfatto", incompleto, deficitario, che ridefinisce i suoi stessi obbiettivi, che distanzia gli altri esseri dell’universo zoologico grazie non alla sua superiorità ma alla sua inferiorità di partenza, che lo costringe per sopravvivere ad applicarsi in un’opera mai terminata di ricerca e trasformazione.

Elegante è il duello finale tra religione e filosofia a proposito del senso della vita, dove la stessa domanda di senso è già di per sé religiosa perché ci porta fuori, oltre la vita, perché cercare il senso significa cercare comunque "un’altra cosa" rispetto a quella che abbiamo davanti. Il senso del mondo – soccorre ancora Wittgenstein – deve essere fuori di esso. La caratteristica della mentalità religiosa non consiste tanto nel rispondere che questo fuori "è Dio", ma nell’imporre una "frenata" dopo che si è data quella risposta. La mentalità filosofica infatti andrebbe volentieri avanti: una volta ascoltata la risposta "Dio", chiederebbe "e qual è il senso di Dio?".

Religioso non è allora tanto chi spinge per andare al di là della realtà terrena con le sue risposte, ma chi vuole imporre che si smetta di fare domande una volta arrivati là fuori. Commentano questo passaggio due belle citazioni (di cui Savater è un instacabile raccoglitore), una di Pessoa: "Le cose non hanno significato, ma esistenza,/le cose sono l’unico senso occulto delle cose"; e un’altra di Cioran: "Un sistema filosofico è come una religione, ma in versione più idiota".

Ciò che è veramente assurdo, conclude da laico implacabile Savater, non è il fatto che la vita non abbia senso, ma l’ostinarsi a volergliene conferire uno. La mancanza di un senso accertato della vita non apre tuttavia le porte al pessimismo, ma alla gioia di starci, nella vita presente, come temporanea ma incancellabile, irreversibile vittoria sulla morte.

 

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