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Capitolo 1: Il medium è il massacro. Il giornalismo nella guerra del Kosovo.

Laura Tettamanzi

 

Il medium è il massacro. Il giornalismo nella guerra del Kosovo, pubblicato per Ricerca & Sviluppo Mediaset, nasce da una ricerca etnografica sulle modalità di lavoro degli inviati delle grandi emittenti televisive internazionali a Belgrado, Skopie e Pristina condotta da News Lab, Osservatorio sull'informazione di cui Laura Tettamanzi è responsabile. Il prossimo saggio a firma dell'autrice, per RAI-VQPT, sarà Spettatori nella rete. La convergenza fra televisione e Internet come modello di tv interattiva.

 Come le altre guerre balcaniche anche quella del Kosovo è stata una guerra dei media e della persuasione, che ha richiesto enormi investimenti da parte degli apparati televisivi e giornalistici. CNN ha rivelato recentemente che ogni giorno di conflitto costa alla rete 150 mila dollari. L'investimento tuttavia è remunerativo. Non solo perché le audience in tempo di guerra crescono e con queste gli investimenti pubblicitari, ma anche perché in ogni conflitto televisione e carta stampata vengono utilizzati come strumento di propaganda e di consenso per rafforzare la coesione nel proprio terreno e suscitare divisione in quello dell'avversario.

Il braccio di ferro fra Slobodan Milosevic e le forze dell'Alleanza Atlantica ha assunto connotati assolutamente nuovi dal punto di vista della comunicazione. Gli inviati di guerra si sono trovati di fronte uno scenario diverso da tutte le guerre precedenti, che li ha obbligati a reinventare il proprio lavoro, per raccontare una guerra invisibile. Poche ore dopo l'inizio dei bombardamenti, i confini del Kosovo sono stati chiusi e l'accesso impedito ai giornalisti occidentali. Il teatro degli eventi, come un gigantesco occhio serrato, è rimasto chiuso agli sguardi del mondo fino allo scorso giugno, con l'ingresso del primo contingente K-for. Ancor più che l'Iraq, il "mio bel Kosovo" di cui parlano tante canzoni popolari serbe è diventato un fronte virtuale dove nessun reporter con l'elmetto poteva avventurarsi, se non cladestinamente, al seguito di contingenti dell'UCK oppure - nella seconda fase del conflitto - condotto per mano dalle "visite guidate" dell'esercito serbo.

Fin dal mio arrivo a Belgrado il 25 marzo, secondo giorno dei bombardamenti, ho capito che il mio lavoro di ricercatrice inviata "sul campo" per cercare di capire da vicino come funzionano i media (quali sono le fonti giornalistiche e come vengono utilizzate? Perché una notizia diventa una notizia?) sarebbe stato più complesso, ma al tempo stesso più produttivo, del previsto: gli inviati erano costretti a lavorare da lontano, contando su poche fonti di informazione quasi tutte "propagandistiche": le conferenze stampa del Ministero dell'Informazione o dell'Esercito Yugoslavo puntualmente riportate dalla tv serba, i centri informativi albanesi con i loro numerosi e aggiornati siti Internet, la comunicazione della Nato

Belgrado, 25 marzo 1999

"Una tana di volpe foderata di pelliccia"

Mi trovo al centro degli eventi, ma ho l'impressione di essere alla periferia, confinata come la maggior parte dei giornalisti in una stanza dell'Hotel Hyatt, il più elegante ed attrezzato di Belgrado, una situazione che Walter Cronkite, grande giornalista americano, ha definito "una tana di volpe foderata di pelliccia".

L' atmosfera è insonorizzata e il sibilo delle sirene (non sempre arriva prima dell'impatto dei missili) giunge ovattato, accentuando la percezione "virtuale" e onirica di una guerra che ha - vista da qui - tutti i connotati della "operazione chirurgica" , come la definiscono i telegiornali di CNN.

Credo di essere stata con i colleghi di Mediaset Anna Migotto e Mimmo Lombezzi l'unica rappresentante di una televisione di un paese aderente all'Alleanza ad entrare in Yugoslavia attraverso la frontiera ungherese il primo giorno di guerra. Gli inviati delle grandi emittenti americane ed europee sono stati espulsi, persino la corrispondente della Reuters, la più grande agenzia di informazione al mondo, è stata costretta a far le valigie in fretta e furia e a lasciare il suo ufficio di Belgrado.

Un decreto governativo il giorno dopo consentirà a stampa e tv di rientrare, alle condizioni stabilite dal press center militare e sarà un rappresentante del Ministero dell'Informazione a scortare le troupes di CNN che tornano in Jugoslavia, sottoscrivendo un patto con il regime: ci impegnamo a non fare propaganda per la Nato. Alessio Vinci e Brent Sadler, rispettando in tutto e per tutto la promessa fatta a Komnemic tanto da apparire filoserbi. Nelle sue corrispondenze Sadler insiste sul dolore e la sofferenza del popolo jugoslavo e in uno stand up dal ponte Brankov denuncia l'assurdità di alcune missioni Nato: perché dovrebbe colpire questo ponte, che non ha importanza strategico-militare? Verrà richiamato in patria dopo tre settimane. Nell'intervista Sadler ammette: "E' molto ironico il modo in cui svolgiamo il nostro lavoro in questa guerra. Questa è senz'altro una situazione confortevole se paragonata ad altri posti in cui sono stato. Vediamo il panorama di Belgrado, le fiamme che divampano, sentiamo gli allarmi antiarei, i missili Cruise che passano accanto alle finestre eppure siamo in un Hotel confortevole".

Molti corrispondenti stranieri arrivati a Belgrado prima del giorno X sono tuttavia rimasti a presidiare il campo, più infastiditi che preoccupati dalle guardie del corpo di Arkan, il "criminale di guerra" ritenuto uno degli esecutori materiali della pulizia etnica in Bosnia e poi in Kosovo, che proteggevano la tranquillità del capo nella sua suite all'Hyatt. John Simpson, storico cronista di BBC, finito sotto accusa in Inghilterra perché accusato di "riferire acriticamente le fonti serbe" nonostante le sue corrispondenze assolutamente neutrali, ma forse sgradite a Tony Blair, mi dice fra una diretta e l'altra (ne gestisce circa un centinaio al giorno, lavorando per i notiziari di BBC, il canale all news, la radio e il sito Internet, uno dei più visitati al mondo): "Molti di noi avevano paura delle ritorsioni dei fedelissimi di Milosevic, dopo la prima notte di bombardamenti. Anche i miei operatori sono stati arrestati mentre riprendevano dalla terrazza dell'albergo. Ma ho deciso di rimanere, così come avevo fatto a Baghdad nel '91. In queste occasioni penso sempre alla confidenza che mi fece un collega di CNN: era in Vietnam nel 1975, quando gli americani abbandonarono il paese. Prese la decisione di andarsene, ma passò quindici anni della sua vita a pentirsene. Si sentiva colpevole di non aver fatto il suo dovere di giornalista, di aver ceduto alla paura".

 

I tamburi di Clinton

La prima cosa che mi colpisce è che la guerra - dal punto di vista giornalistico - è una guerra del cellulare: centinaia di giornalisti impegnati tutto il tempo a rompere - attraverso le testimonianze orali - l'assedio che il regime imponeva all'informazione. Nessuna immagine poteva uscire da Belgrado se non quelle autorizzate dal Press center e dalla tv serba, unica stazione dov'era possibile trasmettere e se Santoro ha potuto realizzare una diretta dal Ponte Brankov - fra gli ostaggi umani del partito dello Jul - è solo perché, a detta dello stesso conduttore, ha trattato direttamente con il potere, cioè con Milosevic, impegnandosi per iscritto a rispettare tutte le condizioni imposte dal Ministero dell'Informazione su cosa dire e non dire.

D'altro canto il Kosovo, assediato da ogni parte dal più grande schieramento di troupes della storia della tv, evocava l'immagine di una Sarajevo rovesciata: là i giornalisti erano "dentro", vedevano e come testimoni vicini all'azione erano anche target, bersagli diretti dell'opera dei cecchini e delle bombe.

Il secondo aspetto che emerge dalla mia ricerca è che i giornalisti a Belgrado sono lontani dalla gente: spesso hanno paura di circolare per strada, e una tv che paragona costantemente il presidente Yankee a Hitler alimenta l'odio del popolo per i rappresentanti dell'aggressore "nazista" (OTAN=NAZI è una scritta che si legge frequentemente sui muri). I servizi di CNN vengono vissuti come i tamburi di Clinton. Dice ancora Brent Sadler: "Quello che accade qui è una via di mezzo fra la situazione in Iraq, dove c'era ovviamente molto controllo, e gli altri conflitti, dove la libertà di accesso alle informazioni era maggiore. Qui non sono stato vittima di alcuna forma di censura. La difficoltà di accedere non è tanto dovuta alle autorità che vogliono impedirti di visitare alcuni posti piuttosto che altri, quanto alla reazione del popolo yugoslavo verso quelle nazioni che appartengono alla Nato. Non ci si sente per niente al sicuro, a meno che non si goda di qualche forma di protezione in genere fornita dalla Polizia locale, quando ti trovi faccia a faccia con persone cui hanno distrutto la casa o l'impresa come danno collaterale. La reazione sulle strade è molto violenta, a volte. In queste circostanze è difficile garantire la copertura dell'informazione".

Inoltre, all'inizio è anche veramente difficile trovare qualcuno disposto a parlare, a dire cosa davvero pensa di Milosevic, della NATO e della guerra. Gli intellettuali sembrano chiusi in un mutismo che assomiglia alla paralisi. Cerco di contattare i media indipendenti, ma nessuno è disposto ad esporsi, a ragione, vista la fine che farà Slavko Curuvija di Dveni Telegraf, organo di opposizione, freddato per strada da ignoti sicari in una notte di aprile. Radio B92, la storica emittente di opposizione che possiede un centinaio di stazioni in tutta la Jugoslavia creando il primo circuito di media indipendenti e la prima vera comunità online fin dai tempi della Bosnia, viene chiusa e il direttore Veran Matic arrestato.

Le spiegazioni sul silenzio degli intellettuali sono molte, ma la più convincente me la darà a guerra finita Teophil Pancic, direttore editoriale di Vreme, settimanale indipendente: "Con l'inizio dei bombardamenti ci siamo sentiti traditi dall'Occidente. Coloro che si proponevano come esempio di democrazia ora utilizzavano l'arma più potente: la guerra".

Dragan Petrovic, ora corrispondente dell'Ansa, ma che per anni ha pagato con la disoccupazione il rifiuto di far propaganda al regime di Milosevic, dice: "La prima vittima dei bombardamenti sono stati coloro che si opponevano a Milosevic, i germogli della democrazia. Ci vorranno decenni per ricostruirli".

Gente come Dragan e Teophil, come la mia interprete Jasmina è apertamente critica con chi partecipa alla manifestazioni anti-Nato.

Mentre sui muri di Belgrado compare la scritta "Monica, stringi i denti" e "Colombo, accidenti alla tua curiosità", nel centro della città si canta portando sul petto dei bersagli. In Piazza della Repubblica si alternano sul palco gruppi rock per dimostrare che "con la musica si può salvare il Kosovo". "Spesso i musicisti venivano ricattati per suonare in piazza" mi dirà poi Petar Lukovic, direttore di XZ, rivista underground che è diventata il punto di riferimento dei giovani alternativi e cyber belgradesi.

Chitarre elettriche e batterie in città, musica tradizionale yugoslava rivisitata in versione "patinata" sui teleschermi: ogni ora viene trasmesso dalla tv di stato, RTS, uno spot che evoca la tradizione e l'attualità, con scene di vita quotidiana intercalate ai volti di soldati giovani che marciano e alle scene dei primi missili caduti su Belgrado. "Abbiamo poca informazione, la tv trasmette solo concerti o veline " dice Snetzana, una ragazza ventiquattrenne che all'epoca della Bosnia ha vissuto l'incubo della fuga da Zara e che ora frequenta l'Università a Belgrado. E' terrorizzata, impaurita, e quando le chiedo com'è possibile che i giovani come lei non protestino contro Milosevic risponde: "E' difficile prendere posizione,; perché non sappiamo cosa sta davvero succedendo. La tv ci dice che i giornalisti occidentali sono responsabili quanto Clinton di quel che sta succedendo". L'emittente sempre accesa in casa è quella di Studio B, la tv locale di Belgrado che fornisce un'informazione "di servizio": segnala l'arrivo dei raid, spiega alla popolazione come si deve comportare, spesso dà suggerimenti e consigli su come impiegare il tempo libero.

Dopo il bombardamento della tv di Stato, anche Studio B - la rete di Drascovic - sarà obbligata a offrire le sue frequenze per trasmette i telegiornali ufficiali, ma con la fine della legge di guerra il direttore si rifiuta di continuare a servire il regime. Come molte altre emittenti private, Studio B dà voce ad una alternativa democratica che, soprattutto nelle città di provincia, rette dall'opposizione, trova proprio nella tv il punto di coesione. Il 5 luglio sarà l'appello di un operatore della tv locale durante l'intervallo della partita di basket Jugoslavia-Germania a riunire ventimila persone nella piazza di Leskovac, la più grande manifestazione di protesta contro Milosevic dal 1997, quando si chiuse il periodo delle proteste a Belgrado.

 

Ai confini del Kosovo. L'altra faccia della guerra.

Quando ne ho abbastanza delle conferenze stampa del Ministero della "Disinformazia", come viene chiamato dai giornalisti, e di partecipare alle visite guidate (come quella ai resti dell'F117 abbattuto nei pressi di Belgrado, primo trofeo militare dell'Esercito serbo- C'E' LA FOTO) decido che è tempo di vedere altro, e mi spingo in Macedonia, dove dal 24 marzo cominciano ad affluire le prime ondate di rifugiati albanesi kosovari.

Staziono ore e ore alla dogana fra Kosovo e Macedonia, General Jankovic, dove si assiepano telecamere da ogni parte del mondo, e tormento tutti i reporter, tutti gli operatori con una domanda assillante: "Come verificate, come testate la verità dei racconti dei rifugiati?" Nelle scarsissime notizie sulla fuga degli albanesi, la stampa serba sosteneva infatti che chi scappava dal Kosovo fuggiva da bombardamenti della Nato oppure si inventava di sana pianta ogni sorta di falsità sulle violenze delle Milizie serbe. Questa tesi è stata sostenuta anche da alcune fonti di informazione italiane, decisamente critiche nei confronti della Nato .

"You must trust the uman being, devi credere alla natura umana" mi dice un reporter di Fox, la rete televisiva di proprietà di Murdoch. Keith Graves, uno dei più autorevoli giornalisti di Sky News, afferma: "Come puoi pensare che gente proveniente da villaggi diversi, di diversa estrazione sociale, si metta d'accordo e racconti tutta la stessa storia: sono arrivati uomini mascherati, ci hanno minacciati e obbligati a uscire di casa entro dieci minuti, poi hanno incendiato la nostra abitazione?"

I racconti dei profughi sono la prima testimonianza della pulizia etnica, una prova più immediata e più concreta di tutte le foto satellitari divulgate dagli uffici stampa della Nato. Un crescendo di voci che si accumula e diventa massa. Chi esce dall'inferno ne trova un altro a Blace, il campo ai confini fra Macedonia e Kosovo dove in due giorni arrivano sessantamila persone che non possono né uscire dalla Yugoslavia né entrare in Macedonia, perché questa nazione ritiene di non avere capacità di accoglienza sufficienti.

Nel mio libro ho definito Blace il "lager televisivo", perché in questo spazio, che rientra perfettamente nell'ottica del grandangolo delle telecamere, si concentra sotto gli occhi del mondo, in diretta, la tragedia di un popolo. E' la pulizia etnica in diretta: il treno, un'apparizione carica di memorie sinistre, arriva puntualmente giorno e notte trasportando masse umane da Pristina dentro vagoni chiusi con il fil di ferro.

I telegiornali aprono per giorni con le immagini dei rifugiati, prime in scaletta. Seguono i servizi sugli obiettivi colpiti dalle forze Nato, e infine la cronaca delle vittime di parte serba, mentre i sondaggi fanno schizzare verso l'alto il consenso per la missione in tutti i paesi europei. Questa gerarchia delle notizie viene modificata, come dimostra una ricerca del CNRS francese, a partire dal bombardamento all'ambasciata cinese, quando i "collateral damages" delle bombe intelligenti cominciano a incrinare nell'opinione pubblica occidentale il consenso per la strategia di prosecuzione dei bombardamenti.

La propaganda serba comincia a utilizzare la strategia del "massacro", così come avevano fatto gli albanesi spedendo a tutto il mondo attraverso l'e-mail le foto dei cadaveri martoriati per mano della milizia serba a Racak o a Rogovo. Così come queste immagini avevano mosso le coscienze a favore dell'intervento "Allied Forces", le "vittime dell'errore" di parte serba cominciano a modificare l'equilibrio fra pacifisti e guerrafondai nei sondaggi paesi dell'Europa democratica, così come la composizione dei palinsesti televisivi.

 

La Nato non dorme mai. Il sonno della ragione genera briefings

Se gli Alleati hanno vinto la guerra (anche se i giornali di regime a Belgrado continuano a raccontare alla gente che è stato Milosevic il vero vincitore, occultando agli occhi del pubblico quello che il pubblico ora può vedere) la Nato ha perso la battaglia dei briefings, che hanno reso memorabili i raid lessicali di James Shea, il portavoce dell'Alleanza che sembra uscito da un film di Kubric.

Dopo le prime gaffes si è deciso di supportarlo con una quadra di venti persone, esperti di comunicazione e semiologi, la cui opinione ha prodotto risultati davvero miseri. Sia quando si è coniato il termine "la Nato non dorme mai" (come la Spectre, l'organizzazione nemica di James Bond) sia quando un dittatore come Milosevic scaltro, complesso e per certi versi enigmatico, è stato paragonato ad Al Capone. La similitudine "chi vive vicino al Al Capone non dorme sonni tranquilli" sembra destinata soprattutto al pubblico Usa. Quando i "collateral damages" diventano orrende stragi l'unica strategia comunicativa è l'iterazione imbarazzante di una sola frase: "La Nato non colpisce deliberatamente i civili", l'epitaffio, perlomeno lessicale, di una missione nata per proteggerli.

Questa disfatta comunicativa raggiunge il climax con il filmato "Another good day", che celebra il numero delle missioni compiute come tacche sulla canna di un pistolero proprio il giorno in cui le bombe intelligenti colpiscono ottanta profughi. Puntualmente, dopo ogni errore dei missili occidentali, emergono rivelazioni in merito a nuove crudeltà dell'esercito serbo, secondo una gradatio dell'orrore basata su un continuo zampillare di cifre inerenti a fosse comuni, lager, stupri. Qualche volta un massacro di cui i giornali hanno ampiamente parlato mesi prima viene ripescato e presentato come uno scoop, com'è accaduto il 27 aprile quando il Ministro della Difesa Sharping ha fatto circolare le foto delle vittime della violenza serba a Rogovo. Paolo Vittone, un giornalista di Radio Popolare che ha era sul luogo del massacro con il fotografo Livio Senigagliesi, denuncia il finto scoop: le foto erano già apparse sulla stampa italiana in gennaio. E' solo un episodio, ma se ne potrebbero raccontare decine di simili.

Con l'ingresso della K-For, la pulizia etnica viene provata e dimostrata, con la mobilitazione di intere squadre dell'FBI e di Scotland Yard. Emergono atrocità, quasi impossibili da immaginare, ogni giorno l'orrore sembra far impallidire le scoperte del giorno precedente. Ma non si apre fossa comune che la Nato non voglia. Sono in pochi a raccontare al mondo che al dramma del popolo albanese si sta sovrapponendo un altro dramma: quello della diaspora dei serbi dal Kosovo. Ogni giorno viene scoperto un cadavere massacrato e dilaniato. Non ne parlano i media occidentali ma neanche i media serbi, preoccupati di occultare, oltre al numero delle vittime dei bombardamenti, anche le conseguenze della fallimentare politica di Milosevic, i cui ritratti vengono calpestati nelle piazze dalla "società civile" che si risveglia.

A Pristina ho assistito alla "presa di possesso" da parte dell'UCK dell'Hotel Grand, l'albergo più importante della città: fra danze sfrenate con musica albanese e brindisi a base di superalcolici, genere improvvisamente ricomparso nella città dove pane e carne sono generi introvabili, nessuna delle telecamere accese per riprendere la festa si è preoccupata di documentare il terrore dipinto sul volto delle due ragazze alla reception, ultime serbe rimaste nell'albergo. "Non vogliamo andarcene, questo è il nostro paese. Che responsabilità abbiamo per quel che è accaduto?", mi dicono. E' quel che si chiedono i serbi, vittima di una criminalizzazione già vissuta ai tempi della Bosnia, ma anche di un senso di colpa collettivo che porta spesso alla rimozione della guerra, anche negli spiriti più illuminati.

"In una società tribale come questa, la parte rappresenta il tutto. Tu non rappresenti, sei la tua tribù", mi dice l'inviato di BBC. "I media occidentali sembrano cadere vittima dello stesso errore, rappresentando la guerra come 'Mezzogiorno di fuoco', uno scontro epico fra eroe e antieroe o, ancor peggio, come una competizione sportiva". Ma chi ci racconterà le cose che nessuno a visto, quelle che i media tacciono e occultano, come i bambini serbi e albanesi mutilati dalle bombe e dalle mine, fotografati da Livio Senigagliesi, reporter che da un anno segue costantemente la vicenda del Kosovo per raccontare la crudeltà di una guerra tutt'altro che chirurgica.

 

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