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Storia di un eroe senza pretese

Ernesto Franco con Paolo Marcesini

 

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Se non conosci Giò Magnasco va bene, ma se ti capita di leggere la sua storia non puoi fare a meno di pensare a lui come a uno dei grandi (proprio perché in fondo piccolo) eroi del nostro secolo. Giò Magnasco è il protagonista (non assoluto) di Vite senza fine (Einaudi) di Ernesto Franco, romanzo vincitore del premio Viareggio. Una storia con tante storie dentro dove lo scrittore esibisce una grande capacità di sintesi, capace com’è di dire molte cose in poche righe, in poche pagine.

Franco non aggiunge nulla di superfluo perchè, da editor consumato (è direttore editoriale della Einaudi e grande conoscitore della letteratura sudamericana, Borges in testa), sa bene che l’esuberanza letteraria è inutile, talvolta dannosa. Ci dice: "Credo di aver scritto un libro non veloce ma rapido, di passioni e di scacchi, di talenti e di zoppie".

E veniamo alla storia. A Giò, quando è ancora un ragazzino, il padre gli da uno schiaffo. Lui esce di casa e inizia a camminare, per fermarsi solo quando da Torino arriva a Genova, dove inizia a lavorare nei cantieri navali di Federico Maria Perrone (inevitabile pernsare a Ferdinando Maria Perrone) e lavorando scopre la sua passione per le cose, gli oggetti del lavoro. Costruirà navi, giardini, ferrovie, e alla fine aprirà uno stravagante negozio di ferramenta e bottoni. A tutti dirà che l’importante è fare bene le cose. Cesare Garboli, presidente del premio, lo ha definito un libro di testa, gelido e crudele: "E la testa è uno strumento letterario non meno funzionale del cuore e delle viscere".

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Ernesto Franco descrive così il suo personaggio: "Usando una parola cara a Eugenio Montale, direi che Giò Magnasco è uno 'stundaio', un uomo di poche parole ma dal talento straordinario, con una grande capacità, quella di ascoltare. Viene colpito dal fascino degli oggetti e trova il modo di farli parlare, di usarli, sa che il loro scopo e il loro senso è quello di tenere insieme il mondo e che cardini, viti, chiodi, giunture, sono destinati a sparire quando le cose sono finite e consegnate al loro uso. La sua storia mi ha insegnato la fragilità dell’anima umana e quella delle opere che l'uomo costruisce. Perché l’uomo diventa grande quando non solo riesce a costruire le cose, a sapere come funzionano e a cosa servono, ma soprattutto quando ne immagina la fine. L’unica cosa che l’uomo non può e non deve fare invece è immaginare la propria fine.

"Il libro infatti non si chiude con la morte di Giò, ma con la Principessa Mafalda, un grande transatlantico che proprio Giò aveva costruito, che affonda. E con lei non affonda un sogno, perché l’uomo sa bene che non potrà mai costruire l’eternità". Insomma, Magnasco ha scoperto che i chiodi, la colla e le viti, materia inerte, hanno invece una finalità, servono alla continua creazione del mondo, danno forma e passione ai sogni che si agitano dentro i nostri destini.

Giò Magnasco, naturalmente, non è mai esistito, ma molte cose del libro trovano tracce nella realtà storica: "E’ vero, avevo un bisnonno che, proprio come Magnasco, commerciava in ferramenta e che un giorno partì con un nave piena di attrezzi per partecipare a una fiera che si teneva in Africa. Sembra una favola ma è la realtà. Poi, il Perrone del libro assomiglia molto al Perrone della realtà, così come la la Principessa Mafalda è una nave realmente esistita e affondata così come lo racconto. E poi c’è l’Argentina, dove a Buenos Aires si trovano ovunque angoli di Genova".

Genova, la città di Franco, è la città dove Bagnasco deciderà sempre di tornare: "La cosa che mi ha sempre colpito di più della mia città è il suo essere curva, un profilo che non è solo geografico ma anche caratteriale, un modo di sentire il mondo. La guardi e pensi a una città postmoderna dove c’è la prima metropolitana della storia, anche se i genovesi continuano a chiamarla ferrovia, dove tutto è fermo ma tutto è cambiato, una città che sembra esportata direttamente dalla fantasia, la vera, grande patria del ritorno. Perchè ci sono due tipi di liguri, uno che sta nello scagno a fare quattrini e quello che invece ritorna, che sa, dopo essere partito, che la cosa più importante di tutte è quella, un giorno, di tornare".


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