Caso Marta Russo, specchio di una giustizia
malata
Antonio Carioti
L'aspetto più irritante del dibattito sulla giustizia è la logica
tribale che sembra dominarlo. Vi sono gruppi editoriali schierati compattamente al fianco
dei pubblici ministeri, esaltati come paladini immacolati della legge. Altri settori
dell'informazione, di orientamento avverso, sposano acriticamente le ragioni degli
imputati, presentandoli sempre come vittime di fantasiosi teoremi.
Non sono più solo le inchieste di forte impatto politico, riguardanti
la corruzione o le complicità tra mafia e potere, a scatenare questi opposti manicheismi,
paravento di corposi interessi. Ormai anche le indagini su delitti comuni, purché di
forte impatto emotivo, sono divenute terreno di battaglia. Basta pensare al caso di Marta
Russo, la studentessa romana uccisa senza un perché mentre passeggiava tranquillamente
nella città universitaria.
Il processo ai presunti assassini, Giovanni Scattone e Salvatore
Ferraro, si è svolto molto più sui mass media che nell'aula-bunker del Foro Italico. E
se alcune testate hanno quasi trasformato gli imputati in eroi, altre si sono accanite su
di loro con estrema virulenza.

Il peggio però è stata la contrapposizione frontale, messa e rimessa
in scena all'infinito, tra i genitori della vittima, convinti della colpevolezza dei due
assistenti universitari, e il padre di Scattone, strenuo sostenitore dell'innocenza del
figlio. Spesso la tv ci ha dato l'impressione di assistere, più che a un caso
giudiziario, a una faida tra due clan familiari, magari da risolvere attraverso una
qualche forma di "giudizio di Dio".
Lo sforzo ben riuscito di sottrarsi a questa spirale perversa è forse
il merito maggiore del libro di Giovanni Valentini "Il mistero della Sapienza",
edito da Baldini&Castoldi. In base al criterio brutale dell'appartenenza di squadra,
l'autore, ex direttore dell'"Espresso" e ed editorialista di
"Repubblica", dovrebbe militare nel partito colpevolista o comunque mostrarsi
indulgente verso i magistrati. Al contrario, dal volume emergono vistosamente lacune e
punti oscuri dell'ipotesi accusatoria, così come li ha evidenziati il dibattimento.
Il dato più sconcertante dell'intera vicenda è che le indagini si
sono indirizzate sulla famosa aula 6 dell'Istituto di Filosofia del Diritto in base a
valutazioni risultate poi inattendibili. A sei giorni dall'omicidio, sulla finestra di
quella stanza venne ritrovata una particella "binaria" di piombo e antimonio,
ritenuta prova indiscutibile del fatto che da lì si era sparato. Ma la successiva perizia
disposta dal tribunale ha smentito tale conclusione, rilevando fra l'altro che residui
simili erano presenti "in tutti gli altri edifici esaminati nella zona del
delitto".
Nel frattempo però l'impegno investigativo della procura si era
concentrato per intero sull'aula 6 e sulle persone ad essa collegate. Prima sulla
dottoranda Maria Chiara Lipari, che dal telefono della stanza aveva effettuato due
chiamate poco dopo lo sparo. Poi sull'inserviente Gabriella Alletto, l'unica che asserisce
di aver visto Scattone con la pistola in mano. Entrambe hanno reso le loro testimonianze
dopo aver subito forti pressioni, e non solo da parte degli inquirenti: per quanto
concerne l'Alletto ha contribuito anche il cognato Luigi Di Mauro, ispettore di polizia,
come documenta il noto video che tante polemiche ha suscitato.
Valentini riporta ampi stralci della registrazione di
"quell'interrogatorio allucinante" (così lo definisce), che certo non
forniscono indicazioni rassicuranti circa il comportamento dell'autorità giudiziaria nei
riguardi dei semplici cittadini. E anche le intercettazioni telefoniche della Lipari
("non mi possono mettere in mezzo all'occhio del ciclone... io già troppo li ho
aiutati, perché non mi ricordo...") sollevano perplessità circa i metodi adottati
dalla procura.

Alla fin fine la testimone più credibile dell'accusa appare Giuliana
Olzai, che ha riferito spontaneamente, sia pure con grande ritardo, di aver scorto i due
imputati all'Università poco dopo lo sparo, smentendo così i loro alibi, già non
proprio solidissimi.
Nel complesso comunque dalla ricostruzione attenta di Valentini, tutta
basata sulle carte processuali, emerge che Scattone e Ferraro sono stati condotti alla
sbarra, dopo lunghi mesi di carcere preventivo, sulla scorta di un impianto probatorio
carente. Non a caso sono stati condannati uno per omicidio colposo e l'altro per
favoreggiamento, mentre i pm intendevano inchiodare entrambi per omicidio volontario. Per
giunta tutti i coimputati sono stati assolti ed è caduta la tesi del preteso "clima
di omertà" vigente a Filosofia del Diritto, su cui molto aveva insistito la stampa.
Il dato più preoccupante tuttavia, al di là del caso specifico, è il
meccanismo posto in luce da Valentini, per cui l'ansia degli inquirenti di raggiungere ad
ogni costo risultati concreti può compromettere i diritti dei cittadini. Tanto più che
le tutele fissate dalla legge a garanzia degli imputati nella prima fase del procedimento,
imperniate sulla figura del giudice per le indagini preliminari (Gip), non appaiono certo
ferree: secondo l'autore, "in forza della contiguità e della colleganza con il
pubblico ministero, nei fatti la tanto conclamata 'terzietà' del Gip non esiste o
comunque si riduce a una ratifica quasi automatica e burocratica dell'accusa".
Comunque la si pensi sulla colpevolezza di Scattone e Ferraro, il processo Marta Russo
si presenta dunque come lo specchio di una giustizia malata, che il clima fazioso
dominante nel mondo dell'informazione non aiuta certo a guarire.
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