Io che non sono "un figlio di
Barilla"
Paolo Nori con Antonella Fiori
Se gli chiedi da chi ha preso
quel titolo, "Bassotuba non cè", non si nasconde. Il riferimento è a
Laura non cè, è andata via, Laura non è più cosa mia
Nek, ovviamente.
E forse il piccolo fenomeno di questanno, il romanzo di Paolo Nori, classe
63, di Parma, uscito per la casa editrice romana DeriveApprodi.
Sintonizzarsi sulle note di
"Bassotuba", entrare nella storia di Learco Ferrari, professione precario a
vita, che viene lasciato dalla fidanzata "Bassotuba" fuggita con un sociologo
amico di Vattimo "ah, il pensiero debole" - lasciando il trentacinquenne
autore di due romanzi in via di pubblicazione, traduttore dal russo di manuali tecnici,
magazziniere e musicista, significa entrare in una lingua che è lo stesso corpo dello
scrittore che ci fa assistere, man mano che si fa allopera che lui stesso sta
costruendo
Il romanzo, infatti, è scritto sul filo dellautobiografia di
Nori, laureato in lingue che dopo aver dato le dimissioni nel 1996 dalla joint-venture
francese dove lavorava come amministrativo, decide di mettersi a scrivere. "Non mi
andava più dice Nori - di guadagnare anche bene, avere una scrivania e pensare che
la vita da quel momento in avanti sarebbe stata quella. Con dieci milioni da parte e un
lavoro di magazziniere e traduttore, ho deciso che avrei provato a scrivere". Così,
laddove nei romanzieri quarantenni-quarantacinquenni il racconto dellesperienza
diretta era sparito, e al massimo poteva ritornare sotto forma di romanzo reportage,
lidentificazione Learco-Paolo è massima, non ci suona falsa, funziona nel
raccontarci la rivoluzione più o meno mancata di chi cerca se stesso "nel mezzo del
cammin di nostra vita" ed è pronto a riprendersi tra le mani questa vita nella quale
non è "figlio di Barilla", come gli ricorda sua madre, ricominciando da un
"sentire" completamente in contrasto con il mondo esterno che preme e chiede.
Già ma che cosa chiede? In questo diario tragicomico Learco ci parla,
parla al lettore, lo supplica. "Se il mio romanzo si rivelasse un fiasco colossale io
diventerei lombra di me". Paolo Nori, che ci racconta di credere alla
letteratura come forma di espressione anche orale, alla parola scritta, alla sua forza, al
suo poter essere letta a voce alta e declamata: "Mi sento, in questo senso un erede
di Zavattini e di Celati", è davanti, ci mette davanti a uno specchio. "Avere
un lavoro fisso, pensare di andare in pensione, impegnarsi per arricchire qualcun altro,
essere inseriti in un servizio pubblico per garantire uno stato disgraziato
Io ho
provato a fare carriera, i soldi arrivavano, la scrivania cera. Ho anche provato con
luniversità, lillusione della cultura, ma non cerano modelli da
seguire"
Langoscia dalla quale a un certo punto si resta contagiati, la
propria differenza anche rispetto ai fratelli più grandi, gli ex rivoluzionari
Sessantottini, è una differenza generazionale che viene benissimo rappresentata da
Learco: "Le certezze sono crollate ci dice Nori qualcuno si è
accontentato di soddisfare le proprie aspettative di potere. Oggi è più difficile
trovare una strada. Ogni tanto si trova qualcosa, una nuova passione, ma poi arriva la
disillusione". I vincenti nel romanzo, rappresentati da personaggi come
lallievo di Vattimo, sono quelli che sono talmente sicuri da poter dire tutto e su
tutto, quelli che sanno come si fa con una donna, con i soldi, con il lavoro, con la
vita". Io, invece - conclude Paolo Nori sono ancora qui che sto tentando, che
sto giocando: non ci ho capito ancora niente"
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