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“Ma non dite che il mio Strega è un premio alla carriera”

Dacia Maraini con Paolo Marcesini

 

I premi letterari, si sa, sono gioia e dolore, proprio come le donne e i motori. Storie vecchie le polemiche, i bisticci, le pastette, qualche volta gli intrighi e gli inciuci. Gli amici della domenica frequentatori di casa Bellonci che qualche volta, incuranti del privilegio assoluto di poter scegliere un libro (possibilmente il migliore) tra la rosa dei partecipanti, diventano più amici degli altri. Ma se corruzione c’è stata, sia chiaro, si è sempre trattato di corruzione a fin di bene. In fondo premiavano un romanzo, mica davano un appalto!

Gli editori i premi li vogliono vincere perché, dicono, poi venderanno più libri. E’ un diritto sacrosanto. Siamo o no nell’era del libero mercato, di più, del mercato globale dove competition is competition, anche sui romanzi? In molti casi, aggiungiamo noi, poi di libri non se ne sono venduti molti. Ma tant’è, a provarci c’è sempre gusto. E poi, come resistere al fascino della fascetta?

C’è stato un tempo, ahimé lontano, in cui i premi, a volerli vincere, erano soprattutto gli scrittori. Perché dietro la consacrazione, il numero più alto di votanti scritto sulla lavagna, vedevano la possibilità di un ingresso privilegiato nell’Olimpo della letteratura: se vincevi eri un bravo scrittore, se perdevi, qualcuno era stato più bravo di te. Oppure più simpatico, dipende. E poi talvolta i premi servivano alla sopravvivenza, anche economica, di chi li vinceva. Altri tempi. Con l’Euro, anche i dieci milioni dello Strega sono diventati dieci milioni scarsi, meglio non farci affidamento più di tanto. Passati di proprietà agli editori, i premi letterari hanno perso un po’ di appeal e di romanticismo. Adesso poi che vincere spesso non conviene, forse torneranno di proprietà degli scrittori. E allora sarà un bel giorno.

Intanto la cronaca. A Dacia Maraini è andato il Premio Strega con il romanzo "Buio" edito da Rizzoli. Il tam tam delle anticipazioni lo aveva pronosticato: vincerà una scrittrice che lo merita, una sorta di riconoscimento alla carriera.

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Dica la verità, le ha fatto piacere sapere che le davano un premio alla carriera?

"Ma se sono invecchiata di vent’anni. A tutti quelli che lo pensano vorrei dire che la mia vita non è ancora finita, sono lontana dal fare un bilancio. Ho vinto un premio importante ma non voglio essere giudicata per il complesso della mia avventura editoriale. Ho ancora molte cose da dire e da fare. E poi, tanti scrittori prima di me hanno vinto lo Strega senza per questo essere costretti a pensare di aver raggiunto la fine della carriera. Penso a Pavese, Levi, Bassani, Cassola. Scrivere è una grande passione, è la mia vita. Scrivo, riscrivo, leggo e rileggo. Ci lavoro tanto. Poi, dopo che sono stati pubblicati, i miei libri non li guardo più. Infatti ne sto già scrivendo un altro".

 

Eppure lo Strega conserva ancora un sapore speciale...

"Perché è un premio antico, ricorda l’Italia appena liberata, fa parte della tradizione e dell’arte del nostro paese. Vincerlo è un onore perché aumenta il mio senso di appartenza, amplifica l’identità nazionale".

 

Dacia Maraini, le piacciono i premi?

"Sì, a patto che si contenga il piacere entro certi limiti. Essere premiati fa bene, è una gratificazione giusta, un riconoscimento che, quando arriva, pensiamo di meritare. Ma non se ne deve fare una malattia. Una volta, proprio allo Strega, arrivai seconda, il mio libro era Bagheria. Vinse Domenico Rea e, giuro, la presi con tranquillità. Poi, tra gli altri, ho vinto il Premio Campiello e una volta, in Inghilterra, il Guardian ha deciso di dare un premio molto importante a Marianna Ucria. Naturalmente i premi non li rifiuto ma non faccio nulla per averli, e una volta avuti non li tratto mai come un feticcio. Sono episodi".

 

Guardando alla storia dei premi letterari, si possono tracciare alcune linee demarcatrici: l’era degli scrittori, quella degli editori, gli ultimi anni caratterizzati dall’incertezza e dalla confusione dei ruoli. Concorda con questa divisione temporale?

"In linea di massima sì. Anche se tutte le fasi hanno avuto alti e bassi e forse delle divisioni non così nette e precise. I primi premi letterari degli anni ’50, figli dell’Italia liberata e del dopoguerra, avevano una maggiore risonanza. Venivano premiati gli scrittori ma era come se venisse reso omaggio alla libertà riconquistata. Finalmente alla parola libro non era più associata la paura della censura, del fascismo, dei romanzi bruciati in piazza. Adesso per uno scrittore ricevere un premio significa ottenere il riconoscimento di una professionalità. E poi, in un paese come il nostro dove i libri sono invisibili, i premi hanno la grande funzione di renderli visibili. Purtroppo ce ne sono troppi e per questo hanno perso importanza".

 

E del ruolo degli editori, cosa ne pensa?

"Una grande marmellata da cui uno scrittore, se è sano di mente, deve restare fuori. Scrivere e pubblicare d’altronde sono mestieri diversi".

 

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