Faction: realtà e finzione nel giornalismo
degli anni novanta.
Giancarlo Bosetti
Milly Buonanno
Faction
Soggetti mobili e generi ibridi nel giornalismo italiano degli anni novanta
Liguori editore
pp. 124, L. 12.000
Da settembre in libreria
Si sa che uno dei campi sotto osservazione nella società delle
comunicazioni di massa è quello dei confini tra realtà e finzione. È una questione
fisiologica: nelle società opulente e in regime di abbondanza si soffre di valori di
colesterolo troppo alti. Nei regimi di abbondanza mass-mediatica i valori da osservare,
oltre al colesterolo e alla glicemia, stanno principalmente in quella cosa che la Buonanno
chiama la "faction", neologismo anglicizzante che nasce dalla
congiunzione di fatti e finzione, di "fact" e "fiction",
di realtà e narrativa, di verità e sogno.
Codesta faction è una parente stretta dellinfotainment,
quellaltro ibrido, sempre angloamericano (come si conviene per una scienza che ha
lassú il suo luogo di origine), che sta a indicare la mescolanza di informazione e
intrattenimento (information e entertainment). In sè e per sè queste
congiunzioni carnali, questi innesti bastardi non sono una malattia, come non lo sono il
colesterolo o gli zuccheri nel sangue. Tuttaltro, sono flusso vitale. Si tratta di
analizzare di tanto in tanto i "valori", per farsi unidea dello stato di
salute generale del soggetto.
Con ragione Milly Buonanno, che della fiction televisiva è una
delle maggiori studiose, vede che in Italia il rapporto tra informazione e intrattenimento
(se il modello angloamericano viene assunto, diciamo cosi, come termine di paragone
della normalità) subisce una distorsione in partenza dal momento che allopinione
pubblica di casa nostra manca quel formidabile bacino di coltura delle stories, che
è la stampa popolare quotidiana: i tabloid, quei fogli che allinizio
dellottocento hanno insegnato a un pubblico di massa il cocktail di informazione e
distrazione, analisi dei fatti e divertimento, un frappè che è e rimane il prodotto
fondamentale di quelle aziende che si chiamano "giornali" e di quella
professione che si chiama "giornalismo".
Un po di faction, dunque, ci vuole per fare un giornale.
La capacità di "raccontarla" al lettore è indispensabile se si vuole il
successo nella comunicazione: le vendite, laffezione e la continuità
dellacquisto. Il modulo narrativo, la "storia", la trama, i dettagli
personali, il pettegolezzo sui (e tra i) personaggi sono ingredienti indispensabili per un
buon giornale cosi come lo sono per un buon soggetto da film o telefilm.
Nei giornali si sa bene, anche quando non si conoscono le parole della
teoria, che ogni fatto ha un valore-notizia ma ha anche un valore-narrativa: vale per la
separazione della principessa come per i profughi del Kosovo. La televisione ha
evidentemente accentuato la corsa verso la mistura, ma questa non ha trovato nei giornali
popolari il suo libero sfogo. La faction da noi ha dovuto riversarsi
sullunico genere di giornali di cui disponiamo, gli omnibus, quelle testate
essenzialmente di qualità e di élite, che cercano di farsi largo verso un pubblico piú
esteso. E si capisce che ci si trovi un po stretta.
Noi possiamo anche fare spazio sulle austere pagine del "Corriere
della Sera" o della "Repubblica" alle deliziose e futili notizie sulla vita
privata dei potenti, ma non potremo mai dilagare come solo i tabloid sanno fare.
Pensate al tormento continuo cui è sottoposta la famiglia reale britannica dal Sun
o dal Daily Mirror. Nessun giornale italiano potrebbe arrivare a tanto con
personaggi equivalenti. Forse soltanto qualche settimanale rosa.
Il primo dei saggi della Buonanno ha il merito di valorizzare, una
volta tanto, questo giornalismo popolare, avvertendo opportunamente che chi sottovaluta i
suoi standard di qualità si sbaglia di molto. I metodi del giornalismo popolare non sono
poi tanto diversi nè meno faticosi di quelli del giornalismo "serio". E anche
la sua influenza non è minore, anzi è probabilmente superiore, almeno in termini
elettorali, se dobbiamo giudicare dal rapporto tra tabloid e politica in Gran
Bretagna.
Il tema della faction viene invece ripreso in termini critici
piú duri a proposito delle tendenze della televisione generalista che sembra giocare le
sue carte peggiori "ai confini della realtà" non nel senso fantascientifico
(ricordate la bellissima vecchia serie di telefilm?), ma nel senso della massima
confusione tra finzione e realtà. I reality show sfruttano questi giochi di
confine attraverso varie formule. Un esempio estremo sono le storie "quasi
vere", eventi ricostruiti "come se" fossero veri ma con uno stile
documentaristico che contraddice il contenuto di fantasia. Ha tentato questa via Canale 5,
ma lha abbandonata.
Poi ci sono gli eventi realmente accaduti ma ricostruiti come in un
film nello studio televisivo. È il modello di "Ultimo minuto" e degli inserti
di fiction messi dentro "Telefono giallo" e "Chi lha visto?".
Infine ci sono i programmi in presa diretta sulla realtà, tipo "Un giorno in
pretura" e, allaltro estremo, storie di vere disgrazie che vengono esibite
nello show, malattie ripugnanti o penose, sventure terribili che vanno a costituire quel
patrimonio mediatico che ha ormai anche il suo nome canonico: "televisione del
dolore". Questi materiali di confine per una parte dellaudience, quella piú
disarmata, sono fruiti come informazioni sulla società.
Il cosiddetto "diritto allinformazione" esce piuttosto
malconcio da queste ricognizioni della Buonanno condotte con il fair play di una
sociologa della comunicazione di cui si conosce lamore per la fiction allo
stato puro. Il nostro famoso villaggio globale ha troppi vetri deformanti. La miscela di
fantasia e fatti veri non è sempre innocente. La trasparenza piena avrebbe bisogno di
operatori professionali convinti di presupposti che lautrice, illuministicamente e
fiduciosamente, definisce cosi: che chi opera nei media consideri come un ideale
coessenziale alla sua professione il diritto allinformazione dei suoi concittadini;
che in cima alla gerarchia dei destinatari della informazione si mettano sempre quei
medesimi concittadini; che non si perda mai la fiducia che alla verità ci si può
avvicinare. Lautrice è molto critica sullo stato della professione in Italia, ma,
come tutti noi, non dispera.
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