Caffe' Europa
Attualita'



Capitolo1/Generazione Trentenni

Tommaso Pellizzari

 

Di seguito pubblichiamo, per gentile concessione dell'autore e dell'editore, l'introduzione del libro "Trenta senza lode" (Mondadori 1999, pp. 183, 28 mila lire) di Tommaso Pellizzari, trentadueenne giornalista di "Sette", supplemento del "Corriere della Sera".

 

Introduzione

Venite avanti, cretini

Dopo (nei bar, sui tram, per strada, negli uffici), tutti dicevano la stessa cosa: che non l’avevano mai visto esultare così, togliendosi la maglia, facendola roteare e gridando in quel modo. Ma lui, Roberto Baggio, di quella notte del 25 novembre 1998 e del suo primo gol interista al Real Madrid ha soprattutto ricordato di essere apparso in mondovisione con doppia canottiera di lana. "Mi sono rivisto, che figura. Ma in quel momento l’ultima cosa che ho pensato è di essere conciato in quel modo". Come se, a vedersi così, si fosse sentito invecchiato tutto a un tratto senza nemmeno avere compiuto trentadue anni. Addio al puttino, al ragazzino coi riccioli e con quel codino che nemmeno un matrimonio e due figli avevano convinto a tagliare. Impresa riuscita, invece, alla svolta dei trent’anni (e mezzo): nell’agosto del 1997, quella bizzarra appendice sulla nuca scomparve, e i fili grigi sulle tempie si videro un po’ di più. Fu da lì che Roberto Baggio iniziò definitivamente a smettere di essere un ragazzo.

Ecco, allora. Per tutti quelli che amano il calcio (anche) perché credono che sia una metafora della vita, ecco la storia di Roberto Baggio, muscoli di seta e ginocchia di cristallo, cresciuto senza essere troppo amato né capito da allenatori quaranta-cinquantenni (Lippi, Sacchi, Capello, Ulivieri) mentre il mondo del calcio intorno a lui si rivoluzionava, costringendolo spesso in un angolo (o su una panchina) da dove riemergeva solo e soltanto grazie a se stesso. È la storia che si racconta in questo libro: la storia di una generazione – quella di Roberto Baggio –, quella che oggi si aggira intorno ai trent’anni, bistrattata e disprezzata dai quaranta-cinquantenni e diventata grande in un mondo che stava cambiando, e non poco.

Per chi, invece, preferisce la più austera sociologia, questa stessa storia si può raccontare partendo dalla fine degli anni Sessanta, quando due politologi, Seymour Lipset e Stein Rokkan, pubblicarono uno studio sulle differenze tra i vari sistemi democratici europei. Tutta questione di fratture, sostennero Lipset e Rokkan. Ogni stato moderno, infatti, è attraversato da quattro conflitti fondamentali, figli delle singole rivoluzioni nazionali e della rivoluzione industriale di fine Ottocento: il conflitto tra il potere centrale dello stato e le minoranze etniche, linguistiche e religiose; il conflitto tra lo stato-nazione e la chiesa; il conflitto tra agricoltura e industria; il conflitto tra imprenditori e operai. Le diverse combinazioni tra questi conflitti, scrissero Lipset e Rokkan, hanno dato origine ogni volta a un sistema politico differente. Ebbene, a più di trent’anni dall’uscita di quel libro, le società occidentali registrano la nascita di una nuova frattura, che Lipset e Rokkan non potevano prevedere: quella generazionale, che divide tutti coloro che sono nati più o meno dopo il 1965 da tutti gli altri, più anziani di loro. I trentenni (e i loro fratelli minori) contro tutti, insomma.

Potrebbe sembrare una questione di soldi, e in parte lo è. Il lettore Carlo Camelli, di Bari, ha spedito all’"Espresso", nel novembre 1998, una bellissima lettera: "Voi lodate il lardo di Colonnata e consigliate di "gustarlo con il pane di Vinca, fatto di farina integrale" […]. Spero di poterlo fare anch’io un giorno, perché a trentun anni e con una laurea nel cassetto non ho ancora mai avuto un lavoro né denaro sufficiente per sposarmi". Solo due anni prima, nel 1996, un libro di Giuliano da Empoli aveva denunciato lo svantaggio economico di essere giovani in una società con sempre meno posti di lavoro e sempre più pensionati. E la Francia ha recentemente scoperto che, per la prima volta dalla rivoluzione industriale, una nuova generazione è più povera di quelle che l’hanno preceduta. Per cui i soldi c’entrano, eccome. Ma, si sa, i soldi non sono tutto. Neanche in questo caso. Perché le rivendicazioni economiche vengono sollevate dai più giovani all’indirizzo dei più vecchi. Mentre ciò che separa i più vecchi dai più giovani non è solo una rivendicazione economica (essendo i più vecchi gli avvantaggiati), ma anche e soprattutto una frattura "culturale". Quella di cui questo libro si occupa.

Senza continuità
Scriveva all’inizio del secolo il sociologo Karl Mannheim che una delle caratteristiche fondamentali del succedersi tra una generazione e l’altra è la continua trasmissione dei beni culturali accumulati. Ebbene, questo meccanismo, nelle società occidentali, e in particolare in quella italiana, si è inceppato. Tra i quaranta-cinquantenni e i trentenni di oggi non c’è una frattura: c’è un abisso. A documentarlo prima, e a misurarlo poi, ha provveduto la Yankelovich Partners, una società americana di ricerche di mercato che dal 1971 studia con accuratezza la mentalità dei consumatori di ogni età, per permettere alle aziende di impostare campagne pubblicitarie più efficaci. Da quasi trent’anni, in sostanza, la Yankelovich indaga sull’idea che ogni generazione possiede del proprio stile di vita: per far ciò, cerca di scoprire quali sono le esperienze e i valori, le aspirazioni e le aspettative di ogni gruppo generazionale, intervistando migliaia di consumatori americani e pubblicando ogni anno i risultati dell’indagine. Quella relativa al 1997 presenta un confronto fra tre generazioni: i Maturi (nati tra il 1909 e il ’45), i Boomer (tra il 1946 e il ’65) e i giovani della Generazione X (nati dal 1965 in poi), come da abusatissima etichetta resa celebre dallo scrittore Douglas Coupland.

La comparazione tra Boomer e Generazione X non lascia spazio a dubbi: si tratta di due generazioni che non hanno niente in comune. Anzi, sono l’una l’opposto dell’altra. A partire dal contesto in cui sono cresciute: "Il benessere economico degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta costituisce l’indicatore generazionale più critico per i Boomer. Mentre diventavano adulti, da qualunque parte guardassero, vedevano profilarsi un orizzonte senza limiti […]. L’ottimismo economico li esentava da qualsiasi preoccupazione circa i fattori base per la sopravvivenza. Potevano vivere per l’oggi giacché non avevano preoccupazioni per il domani, spendere quello che avevano giacché possedevano più del necessario". I ragazzi della Generazione X, invece, "si trovano ad affrontare ostacoli economici e sociali che non sono esistiti per i Boomer".

E così il presente e la quotidianità di queste due generazioni non potevano che essere differenti. Pensando che il loro futuro fosse assicurato, i Boomer hanno avuto poche preoccupazioni economiche e grazie a ciò sono stati liberi di concentrarsi su loro stessi, sulla sperimentazione di nuovi stili di vita e sulla realizzazione personale. Ai trentenni di oggi è andata diversamente: vivono concentrati soprattutto sul loro presente, com’è normale che sia. Però pensano meno al futuro come progetto, perché sanno che sul futuro non possono contare. D’altronde, l’idea che ciascuno ha del proprio futuro si forma anche in conseguenza del proprio passato e del proprio presente: sotto questo aspetto, la differenza tra Boomer e Generazione X è radicale. I Boomer, spiega lo "Yankelovich Monitor", sono diventati adulti tra i primi anni Cinquanta e la fine dei Settanta e perciò sono profondamente convinti che progresso e prosperità non finiranno mai. È questo a produrre la sensazione generale comune ai Boomer di attesa e possibilità di emergere. I Boomer sono cresciuti ritenendo di essere eccezionali, destinati a occupare un posto di prim’ordine nella storia, perché tutto intorno a loro glielo ha fatto credere. I ragazzi della Generazione X, invece, non hanno mai potuto presumere di avere successo, a meno che non provenissero già dalle fasce sociali più privilegiate. Per i Boomer il futuro è sempre stato una promessa, per i trentenni di oggi è una minaccia: "Gli X vivono per l’oggi perché non possono contare sul domani. Ma c’è di più: vivono per l’oggi proteggendosi dal domani".

Come spesso accade alla sociologia qualitativa, la suddivisione della realtà in categorie rigide tende a mortificare le particolarità individuali e i percorsi di ciascuno che sfuggono sempre a una catalogazione predeterminata. Nella realtà, naturalmente, ogni Maturo, Boomer o X è diverso da come la ricerca Yankelovich lo descrive. Ma una classificazione di questo tipo (ovviamente assai più significativa per gli Stati Uniti che non per l’Italia) serve soprattutto a dare l’idea di come possano essere molto differenti fra loro persone di età non troppo lontane. D’altronde gli stessi Walker Smith e Clurman, curatori della ricerca, riconoscono che già tra i Boomer bisogna distinguere quelli nati tra il 1945 e il ’60 da quelli venuti al mondo tra il ’60 e il ’64, che fungono da anello di congiunzione tra i Boomer e gli X. Tant’è vero che a loro, a se stesso e alla propria specificità ("Nati troppo tardi e troppo presto, siamo in parte ciò che ci ha preceduto e in parte ciò che è arrivato dopo di noi") ha voluto dedicare un bellissimo saggio David Leavitt.

30_senza_lode.jpg (21239 byte)

Ora, non è difficile individuare l’origine della grande differenza che separa i Maturi (nati tra il 1909 e il ’45) dai Boomer (nati tra il 1946 e il ’65): il fatto, per questi ultimi, di essere cresciuti durante il boom e di non avere vissuto nessuna guerra. Il benessere economico ha permesso ai Boomer di concentrarsi su se stessi e di dare vita alla grande rivolta degli anni Sessanta e dei primi Settanta. I Boomer misero in discussione i valori convenzionali, sfidarono l’autorità, eliminarono le differenze tra i sessi, scelsero il non convenzionale. Giovani, liberi e padroni di sé, li definisce lo "Yankelovich Monitor". Maturi e Boomer, in sostanza, si sono sviluppati in modo così diverso da costringere i giovani degli anni Sessanta e Settanta a fare una rivoluzione perché il mondo potesse finalmente iniziare ad assomigliare loro.

Senza giustificazioni
Quello che invece non ci si chiede mai è perché i trentenni di oggi siano così diversi dai Boomer. Giovani, liberi e padroni di sé, i ragazzi degli anni Sessanta e Settanta. Giovani, carini e disoccupati i ragazzi cresciuti a cavallo degli anni Ottanta e Novanta. Appunto, perché?

Mancano le domande, ma non mancano i giudizi che la gran parte dei quaranta-cinquantenni esprime con frequenza e sicurezza. Giudizio a): "I giovani d’oggi non fanno mai niente. Sono talmente apatici. Una volta noi uscivamo a protestare. Loro invece non fanno altro che spendere e lamentarsi". Giudizio b): "La Generazione X, o Gen X, è formata da persone dai venti ai trent’anni, che sono in disaccordo su tutto, tranne che su mtv. È una generazione di fannulloni, piagnucolosi e yuffies (young urban failures) con nessuna prospettiva oltre ai "McJobs", posti di lavoro in un McDonald’s o in un altro fast-food".

Il decennio 1968-77, quello della contestazione, ha innalzato una barriera invalicabile tra chi è nato prima del 1945 e chi è venuto al mondo dopo e l’ha contestato. Ma altrettanto ha fatto verso chi è nato dal 1965 in poi e oggi si aggira intorno alla trentina. Tutta colpa degli anni Ottanta. In quel periodo, infatti, quelli della Generazione X vivevano l’età decisiva dell’adolescenza: perciò, essendo stati più o meno diciottenni alla metà degli anni Ottanta, anni idioti, non possono che essere una generazione di idioti. Da giovani, i quaranta-cinquantenni di oggi facevano il ’68 e il ’77, loro, mentre il massimo che hanno fatto questi ragazzini è stato ballare gli Wham!, vestire Armani e comprarsi il Golf Gti.

C’è qualcosa di vero, in questo ragionamento, ma anche molto di ingiusto e sbagliato. È perfettamente vero (e quasi inutile ricordarlo) che il decennio compreso fra ’68 e ’78 è stato, per l’Italia e per l’Occidente in generale, un decennio rivoluzionario. Istituzioni (come lo stato, la scuola e la famiglia), metodi eterni di risoluzione delle controversie (come la guerra), comportamenti consolidati (come quello sessuale), valori di riferimento (come la religione) sono stati discussi quando non attaccati frontalmente o direttamente ribaltati. Le parti in lotta si sono trovate così distanti fra loro che lo scontro è stato durissimo. Ma l’esito, pagato a caro prezzo, è stato una società più moderna e più giusta, in cui chi è venuto dopo ha vissuto meglio di chi c’era prima. E perciò ci si potrebbe limitare a dire che non è colpa dei trentenni di oggi se hanno avuto in eredità una società migliore (cosa di cui peraltro ringraziano) e spiegare con questo la loro scarsa esposizione politica e la loro ridotta propensione alla contestazione. Ma non basterebbe, perché comunque la società italiana (in compagnia di quelle occidentali) conserva con tenacia difetti e ingiustizie che meritano robuste correzioni. Ma agli ex adolescenti degli anni Ottanta, nell’opinione dei loro critici, tutto questo non interessa, impegnati come sono a consumare e a divertirsi. E per questo gli ex ragazzi degli anni Settanta li giudicano più stupidi e intrinsecamente peggiori di loro.

Senza cattiveria
È davvero così? Questo libro se lo chiede in un duplice senso. In primo luogo si chiede se è proprio vera quella convinzione (che ormai si è fatta luogo comune) che vuole i giovani degli anni Ottanta sciocchi, consumisti, superficiali e disimpegnati. In secondo luogo questo libro si chiede come sia possibile che una generazione possa essere così peggiore di quelle che l’hanno immediatamente preceduta. Basta pensarci un attimo: chi è nato tra il 1909 e il ’45 ha combattuto una guerra e ha contribuito in modo determinante alla ricostruzione e alla diffusione di uno straordinario benessere economico in mezza Europa. Chi è nato tra il 1946 e il ’65 ha avuto un ruolo decisivo nella modernizzazione culturale della società resa benestante dalla generazione precedente. Chi è nato dal ’65 in poi, invece, non ha combinato niente, ma proprio niente di buono.

Possibile? Più che altro, pare sia possibile crederlo. E, se questo succede, la spiegazione va di nuovo ricercata negli anni Ottanta. La tesi principale di questo libro è che non si può capire la generazione dei trentenni di oggi se non si capisce che cosa è successo in quegli anni. E non si può capire niente degli anni Ottanta se non si parte dal presupposto che sono anni di rivoluzione. Tra il 1968 e il ’77 la rivoluzione è stata fatta, materialmente, dai ragazzi e dalle ragazze. Negli anni Ottanta, invece, la rivoluzione non l’ha fatta nessuno in particolare. C’è stata e basta. Anzi, ce ne sono state due.

La prima è quella del computer, che ha cambiato un modo di lavorare (e quindi ruoli sociali, politici e culturali) che si manteneva sostanzialmente immutato da più di un secolo. La seconda rivoluzione è quella dei mezzi di comunicazione di massa, che ha modificato in modo radicale il funzionamento della testa di ogni individuo. A causa di queste rivoluzioni, negli anni Ottanta si chiude una fase della storia dell’Occidente e se ne inizia un’altra, in cui tutti i parametri di valutazione dei comportamenti individuali e collettivi devono essere modificati, perché il mondo in cui le persone vivono (e soprattutto le nuove generazioni crescono) non è più lo stesso. Questo è l’errore dei quaranta-cinquantenni di oggi: giudicare (male) i ragazzi nati a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta basandosi su indicatori che non hanno più lo stesso significato di un tempo e su una visione del mondo che non c’è più.

Il caso italiano, poi, è ancora più complesso. Perché ai già di per sé notevoli effetti della doppia rivoluzione si sommano quelli del compimento di processi sociali di lungo periodo che riguardano per esempio la famiglia, la religione e la diffusione del sapere sul territorio nazionale. È bene tener conto di tutto questo, adesso che si è ricominciato a discutere degli anni Ottanta. Altrimenti si rischia di limitarsi a fare solo un po’ di revival senza che nulla intervenga a impedire che due generazioni continuino a guardarsi in cagnesco. La maggior parte dei quaranta-cinquantenni disprezza i trentenni senza capirli, perché li giudica con parametri ormai privi di senso. Per parte loro, i trentenni non provano grande simpatia nei confronti dei quaranta-cinquantenni, per due ragioni fondamentali. La prima, ora che anche la loro giovinezza è finita (o sta per finire) è di natura economica: i trentenni vivono nella (fondata) convinzione che il mondo in cui si accingono a entrare da adulti sia un mondo in cui mantenersi e garantirsi una vita dignitosa è molto più difficile rispetto a quanto è accaduto a chi è un po’ più anziano. La seconda ragione è che ciò non dipenda da loro né da nessun altro e quindi sarebbe bene che i quaranta-cinquantenni le loro prediche se le tenessero per sé. "Credi davvero", dice uno dei protagonisti di Generazione X allo hippy diventato yuppie che gli fa da principale in un’agenzia di pubblicità, "che godiamo come pazzi ad ascoltarti parlare della tua bella casa nuova da un milione di dollari quando noi a trent’anni possiamo permetterci a stento un panino al formaggio chiusi in quella specie di scatole da scarpe che sono le nostre case? Tanto più che quella casa l’hai senz’altro vinta alla lotteria genetica, per il solo merito di essere nato all’istante giusto. Martin, se avessi la mia età tu con i tempi che corrono non dureresti più di dieci minuti. E oltretutto io devo stare a subire teste quadre come te che mi stanno addosso per tutta la vita, che si buttano sempre per primi sulle fette migliori della torta e poi mettono un recinto di filo spinato intorno al resto." Per poi, subito dopo, da dentro il recinto, fare scattare quella che Coupland definisce "solidarietà generazionale", ovvero "il desiderio di una determinata generazione di etichettare come imbelle quella successiva, allo scopo di esaltare il proprio orgoglio collettivo".

Un orgoglio collettivo che ai quaranta-cinquantenni di oggi non fa difetto: "Credo […] che la generazione apparsa negli anni Settanta abbia respirato un’aria di montagna, quell’ossigeno puro e rarefatto che dà il senso della vertigine assoluta e tiene lontani dalla valle" ha scritto Marco Lodoli. E Paolo Mieli ha definito la sua come "la generazione che avrebbe lasciato di sé una traccia definitiva". Un orgoglio legittimo, purché non si dimentichi che la generazione che con il ’68 e il ’77 ha reso l’Italia migliore e più libera è la stessa generazione che ha anche gridato cose infami e ha creduto in ideali sbagliati e in sistemi totalitari, spesso accecata da pericolosi dogmi ideologici. Per poi dimenticarsene in breve tempo, far finta di nulla e passare a cose più redditizie, lasciando a chi era anch’egli di sinistra (ma più giovane), e cresceva in un mondo più complicato, un’ulteriore battaglia da combattere: quella contro un album di famiglia che qua e là poteva rivelarsi imbarazzante. Nel film Palombella rossa, la giornalista che intervista il protagonista Michele Apicella-Nanni Moretti (colpito da amnesia) gli fa ricordare i tempi della contestazione studentesca e dello scontro frontale tra comunisti e neofascisti. In particolare, Apicella rievoca la punizione simbolica imposta a uno studente di destra, costretto a girare per i corridoi del liceo portando appeso un cartello con scritto "Sono un verme fascista. Sputatemi addosso". "Che scena orribile, ma davvero è successo tutto questo?", si chiede disperato Michele. Per poi sentirsi rispondere, qualche scena dopo, dallo stesso studente-vittima ormai quarantenne: "Se tornassi indietro, rifarei tutto".

Ciò che quella generazione ha modificato, invece, è il suo rapporto con il potere. Combattuto in gioventù, desiderato, vezzeggiato e poi conquistato nella maturità, spesso a ogni costo. C’è una pagina bellissima, nel finale del libro di Tom Wolfe Il falò delle vanità, ovvero "il romanzo degli anni Ottanta". Sherman McCoy, il protagonista yuppie e mago dei giochi in Borsa, sente vicino il suo secondo arresto. Nel suo lussuosissimo appartamento di Manhattan cerca comprensione in Judy, la moglie tradita, chiedendole se si ricorda di quando, anni prima, usciva per andare a lavorare a Wall Street alzando il pugno sinistro prima di uscire di casa, con il saluto di Potere Nero. "Ti ricordi perché?" le domanda. "Voleva dire che sì, io andavo a lavorare a Wall Street, ma il mio cuore e il mio spirito non ci sarebbero mai stati. Io me ne sarei servito, ma poi mi sarei ribellato e avrei rotto con loro."

Sherman McCoy è un personaggio di fantasia. Prova ne è che ammette: "So che poi non è andata così". Nella realtà, invece, gli ex contestatori ed ex yuppie si limitano a fare prediche (o a dare i famosi buoni consigli se non possono più dare il cattivo esempio, come cantava il loro amatissimo Fabrizio De André). Prediche o consigli che siano, hanno un po’ stufato. Questo libro intende dimostrare che i trentenni di oggi hanno spalle più larghe e solide di quanto non si pensi. E tuttavia, benché non sia tenero con i quaranta-cinquantenni e con il loro atteggiamento di disprezzo verso chi è più giovane di loro, questo non è un saggio contro gli ex ragazzi degli anni Settanta. Al contrario, è un libro che intende spiegare loro chi siano i trentenni di oggi nella convinzione che il ritratto che qui si abbozza possa servire a superare incomprensioni che non servono a nessuno. Come è successo, per esempio, nel movimento antimafia negli anni Ottanta, che nella lotta alla criminalità organizzata mise da parte non solo le diversità ideologiche: lo stesso successe a quelle d’età, così che generazioni diversissime fra loro si trovarono a collaborare senza difficoltà per combattere una battaglia non facile.

Non è destino, quindi, che le due generazioni in questione possano soltanto odiarsi. La diffidenza è spesso figlia dell’ignoranza. E se dei quaranta-cinquantenni di oggi si sa quasi tutto, dei trentenni si conosce poco o nulla. Questo libro vorrebbe soltanto spiegare chi sono, nella speranza che questo serva ad avvicinare due generazioni lontane e a tranquillizzare chi teme per il futuro. Per le statistiche, si smette di essere giovani a ventinove anni: in Italia le persone d’età compresa tra i trenta e i trentaquattro sono 4 milioni e 614 mila. Quelli che stanno per smettere di esserlo (e che hanno tra i venticinque e i ventinove anni) sono 4 milioni e 645 mila. Non temete, non sono tutti cretini. Sono solo diversi, geneticamente diversi, da chi è venuto prima di loro. E diversi non vuol dire "peggiori". Quella dei trentenni è, semplicemente, una "generazione senza": senza padri né fratelli maggiori, che vengono da un altro mondo; senza ideologie, crollate davanti ai loro occhi di adolescenti; senza fede, poiché sono cresciuti in un mondo che si stava secolarizzando e in cui i grandi sistemi di pensiero non servono a spiegare più nulla; senza fiducia, perché manca il lavoro, lo stato sociale non funziona più e anche perché due incubi come la guerra nucleare e l’aids hanno segnato la loro gioventù. E questa è anche una generazione che non ha coscienza di esserlo, vista la frammentazione della società e le diversità che caratterizzano ciascuno dei suoi membri, soprattutto quelli più giovani. Ma, a dispetto di tutto questo, è una generazione anche senza paura.

Capire tutto questo servirà in primo luogo a rispettare i trentenni di oggi. Poi ad aiutarli nel momento, sempre più vicino, in cui prenderanno in mano la società in cui vivono. Infine, cosa che non fa mai male, servirà a comprendere un po’ di più anche quelli che vengono dopo, i ventenni e gli adolescenti di oggi. Anche loro sono figli delle rivoluzioni degli anni Ottanta. Anche loro vengono da un altro mondo. Un mondo che, ha detto il regista Paolo Virzì per spiegare perché nel suo ultimo film, Baci e abbracci, il ragazzino ventenne è un analfabeta, "è totalmente estraneo a quello degli adulti anche quando si vive insieme". Così estraneo (e per questo poco capito) che due cantanti molto amate soprattutto dai teenager, Paola e Chiara, hanno sentito il bisogno di difendere. Difendendosi: non è vero che non abbiamo voce, non è vero che la troppa libertà ci ha viziati, non è vero che siamo ignoranti, maleducati, superficiali, fragili, vuoti. E nemmeno che ci vestiamo male.

Proviamo a esplorare, dunque, questo loro mondo.

 

Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti da fare? Scriveteci il vostro punto di vista cliccando qui


Archivio libri

 


homearchivio sezionearchivio
Copyright © Caffe' Europa 1999

Home | Rassegna italiana | Rassegna estera | Editoriale | Attualita' | Dossier | Reset Online | Libri | Cinema | Costume | Posta del cuore | Immagini | Nuovi media | Archivi | A domicilio | Scriveteci | Chi siamo