Capitolo1/Generazione Trentenni
Tommaso Pellizzari
Di seguito pubblichiamo, per gentile concessione dell'autore e
dell'editore, l'introduzione del libro "Trenta senza lode" (Mondadori 1999, pp.
183, 28 mila lire) di Tommaso Pellizzari, trentadueenne giornalista di "Sette",
supplemento del "Corriere della Sera".
Introduzione
Venite avanti, cretini
Dopo (nei bar, sui tram, per strada, negli uffici), tutti dicevano la
stessa cosa: che non lavevano mai visto esultare così, togliendosi la maglia,
facendola roteare e gridando in quel modo. Ma lui, Roberto Baggio, di quella notte del 25
novembre 1998 e del suo primo gol interista al Real Madrid ha soprattutto ricordato di
essere apparso in mondovisione con doppia canottiera di lana. "Mi sono rivisto, che
figura. Ma in quel momento lultima cosa che ho pensato è di essere conciato in quel
modo". Come se, a vedersi così, si fosse sentito invecchiato tutto a un tratto senza
nemmeno avere compiuto trentadue anni. Addio al puttino, al ragazzino coi riccioli e con
quel codino che nemmeno un matrimonio e due figli avevano convinto a tagliare. Impresa
riuscita, invece, alla svolta dei trentanni (e mezzo): nellagosto del 1997,
quella bizzarra appendice sulla nuca scomparve, e i fili grigi sulle tempie si videro un
po di più. Fu da lì che Roberto Baggio iniziò definitivamente a smettere di
essere un ragazzo.
Ecco, allora. Per tutti quelli che amano il calcio (anche) perché
credono che sia una metafora della vita, ecco la storia di Roberto Baggio, muscoli di seta
e ginocchia di cristallo, cresciuto senza essere troppo amato né capito da allenatori
quaranta-cinquantenni (Lippi, Sacchi, Capello, Ulivieri) mentre il mondo del calcio
intorno a lui si rivoluzionava, costringendolo spesso in un angolo (o su una panchina) da
dove riemergeva solo e soltanto grazie a se stesso. È la storia che si racconta in questo
libro: la storia di una generazione quella di Roberto Baggio , quella che
oggi si aggira intorno ai trentanni, bistrattata e disprezzata dai
quaranta-cinquantenni e diventata grande in un mondo che stava cambiando, e non poco.
Per chi, invece, preferisce la più austera sociologia, questa stessa
storia si può raccontare partendo dalla fine degli anni Sessanta, quando due politologi,
Seymour Lipset e Stein Rokkan, pubblicarono uno studio sulle differenze tra i vari sistemi
democratici europei. Tutta questione di fratture, sostennero Lipset e Rokkan. Ogni stato
moderno, infatti, è attraversato da quattro conflitti fondamentali, figli delle singole
rivoluzioni nazionali e della rivoluzione industriale di fine Ottocento: il conflitto tra
il potere centrale dello stato e le minoranze etniche, linguistiche e religiose; il
conflitto tra lo stato-nazione e la chiesa; il conflitto tra agricoltura e industria; il
conflitto tra imprenditori e operai. Le diverse combinazioni tra questi conflitti,
scrissero Lipset e Rokkan, hanno dato origine ogni volta a un sistema politico differente.
Ebbene, a più di trentanni dalluscita di quel libro, le società occidentali
registrano la nascita di una nuova frattura, che Lipset e Rokkan non potevano prevedere:
quella generazionale, che divide tutti coloro che sono nati più o meno dopo il 1965 da
tutti gli altri, più anziani di loro. I trentenni (e i loro fratelli minori) contro
tutti, insomma.
Potrebbe sembrare una questione di soldi, e in parte lo è. Il lettore
Carlo Camelli, di Bari, ha spedito all"Espresso", nel novembre 1998, una
bellissima lettera: "Voi lodate il lardo di Colonnata e consigliate di "gustarlo
con il pane di Vinca, fatto di farina integrale" [
]. Spero di poterlo fare
anchio un giorno, perché a trentun anni e con una laurea nel cassetto non ho ancora
mai avuto un lavoro né denaro sufficiente per sposarmi". Solo due anni prima, nel
1996, un libro di Giuliano da Empoli aveva denunciato lo svantaggio economico di essere
giovani in una società con sempre meno posti di lavoro e sempre più pensionati. E la
Francia ha recentemente scoperto che, per la prima volta dalla rivoluzione industriale,
una nuova generazione è più povera di quelle che lhanno preceduta. Per cui i soldi
centrano, eccome. Ma, si sa, i soldi non sono tutto. Neanche in questo caso. Perché
le rivendicazioni economiche vengono sollevate dai più giovani allindirizzo dei
più vecchi. Mentre ciò che separa i più vecchi dai più giovani non è solo una
rivendicazione economica (essendo i più vecchi gli avvantaggiati), ma anche e soprattutto
una frattura "culturale". Quella di cui questo libro si occupa.
Senza continuità
Scriveva allinizio del secolo il sociologo Karl Mannheim che una delle
caratteristiche fondamentali del succedersi tra una generazione e laltra è la
continua trasmissione dei beni culturali accumulati. Ebbene, questo meccanismo, nelle
società occidentali, e in particolare in quella italiana, si è inceppato. Tra i
quaranta-cinquantenni e i trentenni di oggi non cè una frattura: cè un
abisso. A documentarlo prima, e a misurarlo poi, ha provveduto la Yankelovich Partners,
una società americana di ricerche di mercato che dal 1971 studia con accuratezza la
mentalità dei consumatori di ogni età, per permettere alle aziende di impostare campagne
pubblicitarie più efficaci. Da quasi trentanni, in sostanza, la Yankelovich indaga
sullidea che ogni generazione possiede del proprio stile di vita: per far ciò,
cerca di scoprire quali sono le esperienze e i valori, le aspirazioni e le aspettative di
ogni gruppo generazionale, intervistando migliaia di consumatori americani e pubblicando
ogni anno i risultati dellindagine. Quella relativa al 1997 presenta un confronto
fra tre generazioni: i Maturi (nati tra il 1909 e il 45), i Boomer (tra il 1946 e il
65) e i giovani della Generazione X (nati dal 1965 in poi), come da abusatissima
etichetta resa celebre dallo scrittore Douglas Coupland.
La comparazione tra Boomer e Generazione X non lascia spazio a dubbi:
si tratta di due generazioni che non hanno niente in comune. Anzi, sono luna
lopposto dellaltra. A partire dal contesto in cui sono cresciute: "Il
benessere economico degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta costituisce
lindicatore generazionale più critico per i Boomer. Mentre diventavano adulti, da
qualunque parte guardassero, vedevano profilarsi un orizzonte senza limiti [
].
Lottimismo economico li esentava da qualsiasi preoccupazione circa i fattori base
per la sopravvivenza. Potevano vivere per loggi giacché non avevano preoccupazioni
per il domani, spendere quello che avevano giacché possedevano più del necessario".
I ragazzi della Generazione X, invece, "si trovano ad affrontare ostacoli economici e
sociali che non sono esistiti per i Boomer".
E così il presente e la quotidianità di queste due generazioni non
potevano che essere differenti. Pensando che il loro futuro fosse assicurato, i Boomer
hanno avuto poche preoccupazioni economiche e grazie a ciò sono stati liberi di
concentrarsi su loro stessi, sulla sperimentazione di nuovi stili di vita e sulla
realizzazione personale. Ai trentenni di oggi è andata diversamente: vivono concentrati
soprattutto sul loro presente, comè normale che sia. Però pensano meno al futuro
come progetto, perché sanno che sul futuro non possono contare. Daltronde,
lidea che ciascuno ha del proprio futuro si forma anche in conseguenza del proprio
passato e del proprio presente: sotto questo aspetto, la differenza tra Boomer e
Generazione X è radicale. I Boomer, spiega lo "Yankelovich Monitor", sono
diventati adulti tra i primi anni Cinquanta e la fine dei Settanta e perciò sono
profondamente convinti che progresso e prosperità non finiranno mai. È questo a produrre
la sensazione generale comune ai Boomer di attesa e possibilità di emergere. I Boomer
sono cresciuti ritenendo di essere eccezionali, destinati a occupare un posto di
primordine nella storia, perché tutto intorno a loro glielo ha fatto credere. I
ragazzi della Generazione X, invece, non hanno mai potuto presumere di avere successo, a
meno che non provenissero già dalle fasce sociali più privilegiate. Per i Boomer il
futuro è sempre stato una promessa, per i trentenni di oggi è una minaccia: "Gli X
vivono per loggi perché non possono contare sul domani. Ma cè di più:
vivono per loggi proteggendosi dal domani".
Come spesso accade alla sociologia qualitativa, la suddivisione della
realtà in categorie rigide tende a mortificare le particolarità individuali e i percorsi
di ciascuno che sfuggono sempre a una catalogazione predeterminata. Nella realtà,
naturalmente, ogni Maturo, Boomer o X è diverso da come la ricerca Yankelovich lo
descrive. Ma una classificazione di questo tipo (ovviamente assai più significativa per
gli Stati Uniti che non per lItalia) serve soprattutto a dare lidea di come
possano essere molto differenti fra loro persone di età non troppo lontane.
Daltronde gli stessi Walker Smith e Clurman, curatori della ricerca, riconoscono che
già tra i Boomer bisogna distinguere quelli nati tra il 1945 e il 60 da quelli
venuti al mondo tra il 60 e il 64, che fungono da anello di congiunzione tra i
Boomer e gli X. Tantè vero che a loro, a se stesso e alla propria specificità
("Nati troppo tardi e troppo presto, siamo in parte ciò che ci ha preceduto e in
parte ciò che è arrivato dopo di noi") ha voluto dedicare un bellissimo saggio
David Leavitt.

Ora, non è difficile individuare lorigine della grande
differenza che separa i Maturi (nati tra il 1909 e il 45) dai Boomer (nati tra il
1946 e il 65): il fatto, per questi ultimi, di essere cresciuti durante il boom e di
non avere vissuto nessuna guerra. Il benessere economico ha permesso ai Boomer di
concentrarsi su se stessi e di dare vita alla grande rivolta degli anni Sessanta e dei
primi Settanta. I Boomer misero in discussione i valori convenzionali, sfidarono
lautorità, eliminarono le differenze tra i sessi, scelsero il non convenzionale.
Giovani, liberi e padroni di sé, li definisce lo "Yankelovich Monitor". Maturi
e Boomer, in sostanza, si sono sviluppati in modo così diverso da costringere i giovani
degli anni Sessanta e Settanta a fare una rivoluzione perché il mondo potesse finalmente
iniziare ad assomigliare loro.
Senza giustificazioni
Quello che invece non ci si chiede mai è perché i trentenni di oggi siano così diversi
dai Boomer. Giovani, liberi e padroni di sé, i ragazzi degli anni Sessanta e Settanta.
Giovani, carini e disoccupati i ragazzi cresciuti a cavallo degli anni Ottanta e Novanta.
Appunto, perché?
Mancano le domande, ma non mancano i giudizi che la gran parte dei
quaranta-cinquantenni esprime con frequenza e sicurezza. Giudizio a): "I giovani
doggi non fanno mai niente. Sono talmente apatici. Una volta noi uscivamo a
protestare. Loro invece non fanno altro che spendere e lamentarsi". Giudizio b):
"La Generazione X, o Gen X, è formata da persone dai venti ai trentanni, che
sono in disaccordo su tutto, tranne che su mtv. È una generazione di fannulloni,
piagnucolosi e yuffies (young urban failures) con nessuna prospettiva oltre ai
"McJobs", posti di lavoro in un McDonalds o in un altro fast-food".
Il decennio 1968-77, quello della contestazione, ha innalzato una
barriera invalicabile tra chi è nato prima del 1945 e chi è venuto al mondo dopo e
lha contestato. Ma altrettanto ha fatto verso chi è nato dal 1965 in poi e oggi si
aggira intorno alla trentina. Tutta colpa degli anni Ottanta. In quel periodo, infatti,
quelli della Generazione X vivevano letà decisiva delladolescenza: perciò,
essendo stati più o meno diciottenni alla metà degli anni Ottanta, anni idioti, non
possono che essere una generazione di idioti. Da giovani, i quaranta-cinquantenni di oggi
facevano il 68 e il 77, loro, mentre il massimo che hanno fatto questi
ragazzini è stato ballare gli Wham!, vestire Armani e comprarsi il Golf Gti.
Cè qualcosa di vero, in questo ragionamento, ma anche molto di
ingiusto e sbagliato. È perfettamente vero (e quasi inutile ricordarlo) che il decennio
compreso fra 68 e 78 è stato, per lItalia e per lOccidente in
generale, un decennio rivoluzionario. Istituzioni (come lo stato, la scuola e la
famiglia), metodi eterni di risoluzione delle controversie (come la guerra), comportamenti
consolidati (come quello sessuale), valori di riferimento (come la religione) sono stati
discussi quando non attaccati frontalmente o direttamente ribaltati. Le parti in lotta si
sono trovate così distanti fra loro che lo scontro è stato durissimo. Ma lesito,
pagato a caro prezzo, è stato una società più moderna e più giusta, in cui chi è
venuto dopo ha vissuto meglio di chi cera prima. E perciò ci si potrebbe limitare a
dire che non è colpa dei trentenni di oggi se hanno avuto in eredità una società
migliore (cosa di cui peraltro ringraziano) e spiegare con questo la loro scarsa
esposizione politica e la loro ridotta propensione alla contestazione. Ma non basterebbe,
perché comunque la società italiana (in compagnia di quelle occidentali) conserva con
tenacia difetti e ingiustizie che meritano robuste correzioni. Ma agli ex adolescenti
degli anni Ottanta, nellopinione dei loro critici, tutto questo non interessa,
impegnati come sono a consumare e a divertirsi. E per questo gli ex ragazzi degli anni
Settanta li giudicano più stupidi e intrinsecamente peggiori di loro.
Senza cattiveria
È davvero così? Questo libro se lo chiede in un duplice senso. In primo luogo si chiede
se è proprio vera quella convinzione (che ormai si è fatta luogo comune) che vuole i
giovani degli anni Ottanta sciocchi, consumisti, superficiali e disimpegnati. In secondo
luogo questo libro si chiede come sia possibile che una generazione possa essere così
peggiore di quelle che lhanno immediatamente preceduta. Basta pensarci un attimo:
chi è nato tra il 1909 e il 45 ha combattuto una guerra e ha contribuito in modo
determinante alla ricostruzione e alla diffusione di uno straordinario benessere economico
in mezza Europa. Chi è nato tra il 1946 e il 65 ha avuto un ruolo decisivo nella
modernizzazione culturale della società resa benestante dalla generazione precedente. Chi
è nato dal 65 in poi, invece, non ha combinato niente, ma proprio niente di buono.
Possibile? Più che altro, pare sia possibile crederlo. E, se questo
succede, la spiegazione va di nuovo ricercata negli anni Ottanta. La tesi principale di
questo libro è che non si può capire la generazione dei trentenni di oggi se non si
capisce che cosa è successo in quegli anni. E non si può capire niente degli anni
Ottanta se non si parte dal presupposto che sono anni di rivoluzione. Tra il 1968 e il
77 la rivoluzione è stata fatta, materialmente, dai ragazzi e dalle ragazze. Negli
anni Ottanta, invece, la rivoluzione non lha fatta nessuno in particolare. Cè
stata e basta. Anzi, ce ne sono state due.
La prima è quella del computer, che ha cambiato un modo di lavorare (e
quindi ruoli sociali, politici e culturali) che si manteneva sostanzialmente immutato da
più di un secolo. La seconda rivoluzione è quella dei mezzi di comunicazione di massa,
che ha modificato in modo radicale il funzionamento della testa di ogni individuo. A causa
di queste rivoluzioni, negli anni Ottanta si chiude una fase della storia
dellOccidente e se ne inizia unaltra, in cui tutti i parametri di valutazione
dei comportamenti individuali e collettivi devono essere modificati, perché il mondo in
cui le persone vivono (e soprattutto le nuove generazioni crescono) non è più lo stesso.
Questo è lerrore dei quaranta-cinquantenni di oggi: giudicare (male) i ragazzi nati
a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e linizio dei Settanta basandosi su
indicatori che non hanno più lo stesso significato di un tempo e su una visione del mondo
che non cè più.
Il caso italiano, poi, è ancora più complesso. Perché ai già di per
sé notevoli effetti della doppia rivoluzione si sommano quelli del compimento di processi
sociali di lungo periodo che riguardano per esempio la famiglia, la religione e la
diffusione del sapere sul territorio nazionale. È bene tener conto di tutto questo,
adesso che si è ricominciato a discutere degli anni Ottanta. Altrimenti si rischia di
limitarsi a fare solo un po di revival senza che nulla intervenga a impedire che due
generazioni continuino a guardarsi in cagnesco. La maggior parte dei quaranta-cinquantenni
disprezza i trentenni senza capirli, perché li giudica con parametri ormai privi di
senso. Per parte loro, i trentenni non provano grande simpatia nei confronti dei
quaranta-cinquantenni, per due ragioni fondamentali. La prima, ora che anche la loro
giovinezza è finita (o sta per finire) è di natura economica: i trentenni vivono nella
(fondata) convinzione che il mondo in cui si accingono a entrare da adulti sia un mondo in
cui mantenersi e garantirsi una vita dignitosa è molto più difficile rispetto a quanto
è accaduto a chi è un po più anziano. La seconda ragione è che ciò non dipenda
da loro né da nessun altro e quindi sarebbe bene che i quaranta-cinquantenni le loro
prediche se le tenessero per sé. "Credi davvero", dice uno dei protagonisti di
Generazione X allo hippy diventato yuppie che gli fa da principale in unagenzia di
pubblicità, "che godiamo come pazzi ad ascoltarti parlare della tua bella casa nuova
da un milione di dollari quando noi a trentanni possiamo permetterci a stento un
panino al formaggio chiusi in quella specie di scatole da scarpe che sono le nostre case?
Tanto più che quella casa lhai senzaltro vinta alla lotteria genetica, per il
solo merito di essere nato allistante giusto. Martin, se avessi la mia età tu con i
tempi che corrono non dureresti più di dieci minuti. E oltretutto io devo stare a subire
teste quadre come te che mi stanno addosso per tutta la vita, che si buttano sempre per
primi sulle fette migliori della torta e poi mettono un recinto di filo spinato intorno al
resto." Per poi, subito dopo, da dentro il recinto, fare scattare quella che Coupland
definisce "solidarietà generazionale", ovvero "il desiderio di una
determinata generazione di etichettare come imbelle quella successiva, allo scopo di
esaltare il proprio orgoglio collettivo".
Un orgoglio collettivo che ai quaranta-cinquantenni di oggi non fa
difetto: "Credo [
] che la generazione apparsa negli anni Settanta abbia
respirato unaria di montagna, quellossigeno puro e rarefatto che dà il senso
della vertigine assoluta e tiene lontani dalla valle" ha scritto Marco Lodoli. E
Paolo Mieli ha definito la sua come "la generazione che avrebbe lasciato di sé una
traccia definitiva". Un orgoglio legittimo, purché non si dimentichi che la
generazione che con il 68 e il 77 ha reso lItalia migliore e più libera
è la stessa generazione che ha anche gridato cose infami e ha creduto in ideali sbagliati
e in sistemi totalitari, spesso accecata da pericolosi dogmi ideologici. Per poi
dimenticarsene in breve tempo, far finta di nulla e passare a cose più redditizie,
lasciando a chi era anchegli di sinistra (ma più giovane), e cresceva in un mondo
più complicato, unulteriore battaglia da combattere: quella contro un album di
famiglia che qua e là poteva rivelarsi imbarazzante. Nel film Palombella rossa, la
giornalista che intervista il protagonista Michele Apicella-Nanni Moretti (colpito da
amnesia) gli fa ricordare i tempi della contestazione studentesca e dello scontro frontale
tra comunisti e neofascisti. In particolare, Apicella rievoca la punizione simbolica
imposta a uno studente di destra, costretto a girare per i corridoi del liceo portando
appeso un cartello con scritto "Sono un verme fascista. Sputatemi addosso".
"Che scena orribile, ma davvero è successo tutto questo?", si chiede disperato
Michele. Per poi sentirsi rispondere, qualche scena dopo, dallo stesso studente-vittima
ormai quarantenne: "Se tornassi indietro, rifarei tutto".
Ciò che quella generazione ha modificato, invece, è il suo rapporto
con il potere. Combattuto in gioventù, desiderato, vezzeggiato e poi conquistato nella
maturità, spesso a ogni costo. Cè una pagina bellissima, nel finale del libro di
Tom Wolfe Il falò delle vanità, ovvero "il romanzo degli anni Ottanta".
Sherman McCoy, il protagonista yuppie e mago dei giochi in Borsa, sente vicino il suo
secondo arresto. Nel suo lussuosissimo appartamento di Manhattan cerca comprensione in
Judy, la moglie tradita, chiedendole se si ricorda di quando, anni prima, usciva per
andare a lavorare a Wall Street alzando il pugno sinistro prima di uscire di casa, con il
saluto di Potere Nero. "Ti ricordi perché?" le domanda. "Voleva dire che
sì, io andavo a lavorare a Wall Street, ma il mio cuore e il mio spirito non ci sarebbero
mai stati. Io me ne sarei servito, ma poi mi sarei ribellato e avrei rotto con loro."
Sherman McCoy è un personaggio di fantasia. Prova ne è che ammette:
"So che poi non è andata così". Nella realtà, invece, gli ex contestatori ed
ex yuppie si limitano a fare prediche (o a dare i famosi buoni consigli se non possono
più dare il cattivo esempio, come cantava il loro amatissimo Fabrizio De André).
Prediche o consigli che siano, hanno un po stufato. Questo libro intende dimostrare
che i trentenni di oggi hanno spalle più larghe e solide di quanto non si pensi. E
tuttavia, benché non sia tenero con i quaranta-cinquantenni e con il loro atteggiamento
di disprezzo verso chi è più giovane di loro, questo non è un saggio contro gli ex
ragazzi degli anni Settanta. Al contrario, è un libro che intende spiegare loro chi siano
i trentenni di oggi nella convinzione che il ritratto che qui si abbozza possa servire a
superare incomprensioni che non servono a nessuno. Come è successo, per esempio, nel
movimento antimafia negli anni Ottanta, che nella lotta alla criminalità organizzata mise
da parte non solo le diversità ideologiche: lo stesso successe a quelle detà,
così che generazioni diversissime fra loro si trovarono a collaborare senza difficoltà
per combattere una battaglia non facile.
Non è destino, quindi, che le due generazioni in questione possano
soltanto odiarsi. La diffidenza è spesso figlia dellignoranza. E se dei
quaranta-cinquantenni di oggi si sa quasi tutto, dei trentenni si conosce poco o nulla.
Questo libro vorrebbe soltanto spiegare chi sono, nella speranza che questo serva ad
avvicinare due generazioni lontane e a tranquillizzare chi teme per il futuro. Per le
statistiche, si smette di essere giovani a ventinove anni: in Italia le persone
detà compresa tra i trenta e i trentaquattro sono 4 milioni e 614 mila. Quelli che
stanno per smettere di esserlo (e che hanno tra i venticinque e i ventinove anni) sono 4
milioni e 645 mila. Non temete, non sono tutti cretini. Sono solo diversi, geneticamente
diversi, da chi è venuto prima di loro. E diversi non vuol dire "peggiori".
Quella dei trentenni è, semplicemente, una "generazione senza": senza padri né
fratelli maggiori, che vengono da un altro mondo; senza ideologie, crollate davanti ai
loro occhi di adolescenti; senza fede, poiché sono cresciuti in un mondo che si stava
secolarizzando e in cui i grandi sistemi di pensiero non servono a spiegare più nulla;
senza fiducia, perché manca il lavoro, lo stato sociale non funziona più e anche perché
due incubi come la guerra nucleare e laids hanno segnato la loro gioventù. E questa
è anche una generazione che non ha coscienza di esserlo, vista la frammentazione della
società e le diversità che caratterizzano ciascuno dei suoi membri, soprattutto quelli
più giovani. Ma, a dispetto di tutto questo, è una generazione anche senza paura.
Capire tutto questo servirà in primo luogo a rispettare i trentenni di
oggi. Poi ad aiutarli nel momento, sempre più vicino, in cui prenderanno in mano la
società in cui vivono. Infine, cosa che non fa mai male, servirà a comprendere un
po di più anche quelli che vengono dopo, i ventenni e gli adolescenti di oggi.
Anche loro sono figli delle rivoluzioni degli anni Ottanta. Anche loro vengono da un altro
mondo. Un mondo che, ha detto il regista Paolo Virzì per spiegare perché nel suo ultimo
film, Baci e abbracci, il ragazzino ventenne è un analfabeta, "è totalmente
estraneo a quello degli adulti anche quando si vive insieme". Così estraneo (e per
questo poco capito) che due cantanti molto amate soprattutto dai teenager, Paola e Chiara,
hanno sentito il bisogno di difendere. Difendendosi: non è vero che non abbiamo voce, non
è vero che la troppa libertà ci ha viziati, non è vero che siamo ignoranti, maleducati,
superficiali, fragili, vuoti. E nemmeno che ci vestiamo male.
Proviamo a esplorare, dunque, questo loro mondo.
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