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Libri/La fine del mondo secondo un poeta catalano

Miquel de Palol intervistato da Antonella Fiori

 

Qualche anno fa sentivi parlare della leggenda di un giovane poeta catalano che aveva provato a scrivere, come opera prima, un romanzo di quasi mille pagine. Un articolo uscito su "El Pais" nel '91, iniziava così. "Esta novela tiene casi 900 paginas y vale la pena leerla". Traduzione: questo è un romanzo di quasi 900 pagine e vale la pena di leggerle. L'articolo definiva "Il giardino dei sette crepuscoli" di Miquel de Palol, trentottenne, nipote di poeta, figlio di poeta (suo padre era stato uno dei fondatori del gruppo degli scrittori modernisti di Gerona) un romanzo di rottura nel panorama spagnolo post-franchista e post-movida.

La storia di un gruppo di persone che, nel 2024, all'inizio di una nuova guerra atomica, si nascondono in una località vicino a Barcellona e, in sette giornate, cadenzate da sette crepuscoli, si raccontano storie, storie che si incastrano l'una nell'altra a vari livelli, con la mescolanza di tutti generi, dalla novella storica a quella mitologica, sino al romanzo filosofico, di avventura, simbolista, politico, di fantascienza, a metà tra il Decamerone, le Mille e una notte e i Racconti di Canterbury, poteva sembrare troppo, in una Spagna ancora impegnata a superare la pesantezza di quarant'anni di dittatura. Oggi, superato un certo conformismo editoriale per cui o massimo romanzi di duecento pagine o niente, "Il giardino dei sette crepuscoli" esce anche da noi, pubblicato da Einaudi nella traduzione di Glauco Felici (p.1076, lire 38.000).

Miquel De Palol, parla con modestia, come un artigiano più che un artista.
Se gli chiedi di spiegarti la sua premessa, il fondamento di un romanzo che parte con la fine del mondo e si conclude con la fine della guerra, ti risponde che "voleva scrivere una storia in cui un personaggio racconta storie dove un altro personaggio racconta storie dove un altro personaggio racconta storie...fino a far perdere l'orientamento al lettore, fino a far dimenticare il senso della storia..." L' orientamento, però, noi, non lo perdiamo mai. La tecnica del ritardo, infatti, ci porta sempre a un punto in cui riaffiora un senso.

Ma che cosa dobbiamo ritrovare, qual è il fine, verso cui convergono tutte le storie? In apparenza tutto si riconduce alla ricerca di un gioiello che sembra dia una grande potenza a chi lo possiede. I personaggi del rifugio in qualche maniera conoscono questa storia. Il narratore no. Tuttavia è da lì che vengono fatte una serie di scoperte, e nascono intrighi che porteranno alla creazione di più di trecento personaggi. Ma quali sono i rapporti tra i personaggi? Chi è Omega? Perché nel giardino nasce quel tipo particolare di albero?

"In questo romanzo ho voluto mettere in questione l'essenza dell'Io, il fatto che non c'è un solo Io, che il narratore non sta solo dicendo "Io". Ed è per non dire solo "Io", e non finire nella trappola dello stilismo frivolo che Miquel de Palol ha dovuto inventare tante storie. "Per leggere mille pagine il lettore non può fare uno sforzo di concentrazione, ma non mi andava neanche di scrivere una storia che potesse essere letta come la trama di un film, una sceneggiatura".

Architetto, nato nel '53, Palol sin da giovanissimo ha sempre scritto di notte, poesie e frammenti di storie. La svolta, verso i trent'anni, quando ha cominciato a sentire che la vita notturna non gli bastava più per dar forma a tutto quello che aveva in testa. "Ho cominciato a fare uno schema per sistemare le varie storie. La mia stanza era tappezzata di fogli, scritti a mano. Correvo da una storia all'altra e ricostruivo i vari percorsi, cercando di tenere tutto sotto controllo. Ho usato tutti gli stili proprio perché, oggi, in un mondo dominato dall'eclettismo, non c'è un'ideologia di fondo a cui far riferimento così come non esistono più le letterature nazionali. Che differenza oggi tra uno scrittore francese, un tedesco un italiano?".

Un enigmista alla Perec? La biblioteca di Borges? In un romanzo dove l'erudizione e i riferimenti sono tantissimi (i menu delle cene sono presi persino dal Satyricon di Petronio), Palol, si è salvato proprio non restando imprigionato nelle mille risposte che, da architetto-artefice, lo scrittore onniscente è tentato di dare.

"Tutta la nostra realtà è già la risposta. Il problema è trovare la domanda, quella giusta", dice a un certo punto un personaggio.

Svelandoci forse l'arcano, la domanda fondamentale del romanzo il narratore riflette sul fatto che ogni volta che misuriamo qualche cosa, lo strumento che adoperiamo determina una variazione nell'oggetto: il risultato, come ci spiega anche la teoria quantistica, è che la misurazione non è mai affidabile del tutto.

L'idea di fondo, che il lettore si identificasse all'inizio con il narratore e che continuasse così, mentre lui continua a perdersi in mille intrighi, è forse il segreto de "Il giardino dei sette crepuscoli". Crepuscolo che in catalano ha due significati: tramonto ma anche alba. "In entrambi i casi si tratta dell'aspettativa di un futuro: il crepuscolo vespertino è quella di un futuro lontano, l'alba è un futuro immediato".

Così quando il narratore dice basta e manifesta il suo disinteresse nell' alterare le cose, il romanzo finisce e si alza un crepuscolo che stavolta è un' alba. "Il romanzo è un esercizio letterario sull'Io esistenziale. La guerra è nella mente dei personaggi. Le cose succedono tutte nella mente del narratore". E non può essere che così: quando finisce la nostra intenzione, quando finisce la storia, anche la guerra è finita.

 

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