Libri/Hannah Arendt, vedi alla voce
"totalitarismo"
Bruno Gravagnuolo
Oggi possiamo ben dirlo. A cinquant'anni dalla sua prima stesura,
"Le origini del totalitarismo" di Hannah Arendt ci appare come una delle grandi
opere politiche che hanno segnato questo secolo. Grazie ad essa infatti è stata
consegnata alla tradizione teorica una nozione "distintiva" del novecento.
Quella del "totalitarismo". Affiorata come aggettivo qualche decennio prima.
Dalla polemica antifascista di Giovanni Amendola, alla voce Fascismo della Treccani, a
certe riflessioni di Kautzsky e Trotzky, sino alla "mobilitazione totale" di
Jünger. Ma codificata appunto dalla Arendt, nel volume che è ormai un classico, e che
oggi Comunità ripropone con l'introduzione di Alberto Martinelli del 1989 e una nuova
prefazione di Simona Forti (tr. di Amerigo Guadagnin, pp.710, L. 40.000).
Nozione "distintiva" (non esclusiva) del secolo, s'è detto.
Perché mai e poi mai il novecento potrebbe concepirsi senza lo spettro e la realtà del
totalitarismo. Né avrebbe base alcuna, senza quel concetto, tutta la discussione attuale
su "secolo breve", tragedie etniche, guerre di massa, "simmetria" di
comunismo e fascismi. Ma allora, cos'è inannzitutto "Le Origini del
totalitarismo", ultimato nel 1949 e uscito negli Usa nel 1951? E che vicenda
filosofica c'è dietro? Intanto quel volume, non è quel che la manualistica politica ci
ha raccontato. Cioè una mera tipologia descrittiva dei regimi totalitari. È molto di
più. Accanto all'"idealtipo" infatti, fonte di ripulse e discussioni, c'è una
teoria storiografica. Una geneologia del precipizio in cui l'Europa fu inghiottita. Al
crocevia di guerre imperialistiche e dissoluzione di tre imperi (i due "imperi
centrali" e quello zarista). Ed è in quel crocevia che le culture del nazionalismo e
dell'antisemitismo generarono per la Arendt la miscela della modernità totalitaria. Nella
quale peraltro confluisce la mentalità della "filosofia della storia", attivata
da una "volontà senza limiti".
Ecco, solo se si tiene presente questo sfondo, dove le idee e gli
eventi fanno corto-circuito, si potrà percepire il senso di una tipologia concettuale
nella quale Arendt traduce il vissuto di una modalità possibile della modernità: il
totalitarismo. Che nella sua forma pura - nazismo e stalinismo - si mostra come segue.
Trionfo della mobilitazione permanente sulle ceneri di partiti e amministrazione.
Cancellazione di "mondi vitali" e "società civile", e incorporazione
di ogni elemento passionale (sangue e terra, o fraternità e giustizia) nel transfert di
massa sul "capo". Distruzione e trasfigurazione del "non-identico",
tramite il terrore, nell'Oltreuomo collettivo. Trasformazione dell'umano in "materia
prima", sino all'Olocausto come dialisi industriale della "razza" (o della
classe).
E qui iniziano i problemi "tipologici", fonte di diatrìbe
tra studiosi. A cominciare dalle critiche marxiste contro l'equiparazione tra i due
totalitarismi. Critiche non plausibili, perché la Arendt distingueva tra nazismo, come
acme programmata dell'annichilazione dell'umano, e Gulag staliniano, non ermeticamente
programmato e non "inevitabile", essendo nato dalla sconfitta politica della Nep
e di Bucharin. Poi ci sono le critiche sulla sottovalutazione della burocrazia a vantaggio
della politica come pura "polizia", oppure a detrimento del "pluralismo
corporativo di interessi" nel totalitarismo. Ci sono altresì i classici rilievi
sulla definizione del fascismo come "autoritario", a scapito delle valenze
"totalitarie" e del suo "movimentismo", oltre l'istituzione. Ma quel
che è importante cogliere è altro, in fin dei conti. È il tentativo della Arendt di
fissare l'inaudito nella storia, "l'impossibile". Cioè l'annullamento integrale
dell'umano. La sua riduzione a materia bruta e a combustibile industriale, oltre ogni
forma immaginabile di oppressione passata. Funziona qui una duplice diagnosi:
post-marxista e heideggeriana. La prima suggerisce alla Arendt che l'epoca della tecnica
distrugge ogni spazio sociale degli individui. Estraneandoli dalla convivenza mediata di
economia, partiti e istituzioni. La seconda, quella heideggeriana, lascia intravedere la
"ni-entificazione" del soggetto, ridotto a "impersonalità", e
spogliato di responsabilità verso l'altro e la morte.
Si tratta nell'insieme, di una "tribalizzazione del moderno",
dove l'obbedienza automatica alla tecnica si innesta su archetipi tribali. Gli stessi
sperimentati dall'Europa in epoche ancestrali, e riattivati con l'esplodere novecentesco
delle nazionalità pan-germaniche e slave. Proprio così, slave. E non manca di colpire la
singolare preveggenza della Arendt, che proprio nella mitteleuropa, e nell'Europa
sud-orientale aveva intravisto, i germi costanti del totalitarismo. Così come colpisce
l'anticipo arendtiano rispetto a diagnosi, come quelle di Zeev Sternhell, che hanno
scoperto nell'affare Dreyfus la prova generale francese dell'antisemitismo moderno in
Europa.
Non basta. Perché ciò che altresì stupisce è la "concretezza
esistenziale" dell'analisi. Tragica. Ma inseparabile dal suo corrispettivo nella
banalità del quotidiano: dalla "banalità del male". Che nella Arendt è
biograficità ordinaria del "male radicale", come nel "caso Eichmann",
descritto da corrispondente del "New York Times" a Gerusalemme. Ed è insieme
sindrome latente in ogni lealtà standardizzata, che trascende gli individui e li converte
in virtuosi aguzzini. In volenterosi carnefici dalla buona coscienza, per dirla con
Goldhagen.
Inoltre, per l'allieva ebreo-tedesca di Heidegger scomparsa nel 1975,
è come se nei soggetti - in situazione totalitaria - agissero forze inconsapevoli e
potenti. Forze gregarie, dove la pulsione volontarista di morte, infranto ogni limite di
tradizione, si innesta sulla persuasione di un divenire necessitato della storia. Talché
Storia a disegno e Storia arbitraria senza senso, formano l'intreccio paradossale dei
totalitarismi: come sinergia di fede e attivismo mobilitati dall'alto.
Ma qui, nella disamina arendtiana, c'è un altro punto delicato: il
nesso tra caso e ideologia filosofica. Se nel 1953 la pensatrice polemizza negli Usa con
Voegelin - che sosteneva la filiazione del Terrore dall'immanentismo moderno - in seguito
la Arendt cambia idea. Almeno in parte. È vero - dice - son le circostanze storiche a far
precipitare la "filosofia della storia" in ideologia totalitaria. E però -
aggiunge - la "logica identitaria" dell'Occidente già racchiude quel rischio ab
origine. Dunque, ecco la pars construens arendtiana, lumeggiata dalla Forti nella sua
nuova introduzione: pluralità contro identità logica, "soggettività" contro
"soggetto", paticità etico-sentimentale contro l'astratto dovere kantiano,
Ragione estetica contro Ragione pratica. Tuttavia, proprio qui, c'è il limite della
Arendt. Che è avversa alla compressione "totalitaria" della
"molteplice" umanità nel mito dell'Uomo e dello Stato. Ma che ricorre poi
all'idea kantiano-occidentale di "dignità umana", per delineare in negativo la
"disumanizzazione". Nonché all'idea aristotelica di "praxis", per
indicare la Politica come "vita activa" razionale ed etica, non
tecnico-strumentale. Per di più, costante è il rimando a Socrate. E al logico
"dialéghestai", che ridiscute le "ipotesi" per arginare eticamente la
totalità irriflessa e tirannica. Perciò, rimane il "soggetto", come sapeva
l'ultimo Foucault, l'eredità positiva dell'Europa. E anche per la Arendt
"differenzialista". E sta lì la roccia enigmatica da cui sempre ripartire. Per
fissare dall'alto le rovine di un mondo - quello totalitario del novecento - di cui Hannah
Arendt rimane, nondimeno, l'insuperabile diagnosta.
Vi
e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti da fare? Scriveteci il vostro punto di
vista cliccando qui
Archivio libri
|