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Libri/Socrate e Seneca per classi dirigenti

Giancarlo Bosetti

 
Un problema si aggira per il mondo: qual è il miglior modello di formazione dei cittadini di questo pianeta? E dentro questo problema generale ce n'è un altro ancora più arduo e complicato: qual è il curriculum ideale per quei cittadini che sono destinati a diventare classe dirigente? Molti, a queste domande, rispondono che ogni tradizione nazionale ha la sua cultura, i suoi criteri di selezione, le sue radici, i suoi licei e le sue universita', nonchè la sua lingua, e che è una pretesa eccessiva quella di definire metodi universalmente validi.
Il mondo continuerà ad essere vario - replicano questi molti - non solo perchè ciascun popolo canta le sue canzoni e mangia i suoi piatti tipici, ma anche perchè diversa è la cultura delle sue classi dirigenti, dei suoi ingegneri, dentisti, filosofi e critici letterari. Obiezione rilevante ma non conclusiva. Infatti, la famosa globalizzazione non risparmia nessun aspetto della società umana. Fin troppo facile ricordare che in questo mondo gli scozzesi in gran numero continuano, sì, a portare il kilt e a mangiare cibi improponibili fuori delle Highlands, come lo "haggis", ma che oggi, piaccia o non piaccia, si mangiano i tacos anche a Edimburgo e si ascolta Eros Ramazzotti negli ascensori di Manhattan. La fisica quantistica, poi, è la stessa con qualunque clima e Windows 98 gira anche sui computer di Pechino. Il tema dell'educazione ha dunque del tutto legittimamente una dimensione globale ed è uno sforzo pertinente quello di chi, come Martha Nussbaum affronta il problema dell'etica che ne sta alla base.


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Questa studiosa americana del mondo antico tira fuori la sua proposta, che si basa sulla conoscenza di alcune avanzate esperienze delle università degli Stati Uniti, e la presenta in un libro ambizioso nel titolo e nell'assunto, "Coltivare l'umanità", pubblicato in Italia da Carocci editore (pp. 340, L. 34.000), che porta nella versione originale il sottotitolo "una difesa classica della riforma nell'educazione liberale". Non di un'unica ricetta si tratta, naturalmente, ma di un'analisi dello stato dell'arte (educativa) in un paese all'avanguardia nella miscela multiculturale. E di una riflessione sul metodo, nella quale protagonista è il mondo classico, con i prodotti piu' alti che il pensiero greco e romano ci ha consegnato.
In sintesi possiamo dire che quello della Nussbaum è il tentativo più solido ed esplicito, affacciatosi nei nostri tempi, di utilizzare gli autori della classicità per mettere la loro lezione critica al servizio dell'insegnamento superiore. In Europa, e in Italia in particolare, non è certamente una novità il richiamo ai grandi autori della filosofia, delle lettere e del diritto greci e latini come a un momento fondativo del pensiero occidentale. Pensiamo alla mai conclusa discussione nostrana sull'utilità del latino e del greco nel curriculum standard degli europei (una discussione riproposta di recente dalle iniziative dei ministri della pubblica istruzione, Berlinguer-Allègre, italiano e francese). Ma nuovi sono il vigore e la freschezza riformatrice con cui Martha Nussbaum fa scaturire dalla viva e attuale esperienza americana il bisogno di interrogare i classici e di analizzare alcune loro preziose risposte. Socrate, Aristotele e Seneca non sono convocati da quest'autrice per fare da sfondo generale a una formazione umanistica, ma perchè titolari di un'idea dell'educazione capace di guidarci nella comprensione di alcuni grandi problemi contemporanei, soprattutto nel conflitto tra universalismo e particolarità, tra eguaglianze e differenze, tra innovazione e tradizione.

In un altro importante volume della stessa collana di Carocci, "Che cosa è la globalizzazione", Ulrich Beck aveva tracciato lo schema della contrapposizione tra "cultura 1" (le radici dell'educazione in un luogo determinato) e "cultura 2" (la formazione a principi e conoscenze valide su tutto il globo), mostrandosi preoccupato perchè una specie di "software umano" universale sta prendendo il posto di quel retroterra ben piantato di cui probabilmente nessun individuo può fare a meno per il suo equilibrio. La Nussbaum, invece, si preoccupa di più del dialogo tra i vari retroterra e della necessità di attrezzare questo "software" universale in modo da "coltivare" una formazione che produca adeguati "cittadini del mondo". Che ciascun individuo abbia radici, in altre parole, non è per niente un male ed è probabilmente utile alla sua salute psichica, ma alla persona colta del modello Nussbaum si chiede non solo di amare le proprie radici, ma di conoscere quelle degli altri, di aggirare le barriere che esse creano, di decodificare la natura dei problemi che esseri umani diversi da noi vivono dentro le loro tradizioni. Il che suppone la capacità di mettere in discussione le nostre.
Il punto di partenza di una formazione moderna e universale, ispiratrice di dialogo e tolleranza, sta dunque per la Nussbaum nell'"autoesame socratico". Un cittadino del mondo ha, almeno in ideale, una fedeltà al genere umano capace di prevalere, pur senza cancellarla, sulla fedeltà al gruppo di appartenenza, al luogo, alla nazione, alla religione. In una versione attenuata e realistica del "cosmopolitismo" (kosmou politès vuol dire appunto "cittadino del mondo") bisogna almeno che le due fedeltà riescano a convivere pacificamente. E perche' questa convivenza si realizzi, il valore pedagogico della "vita esaminata" di Socrate consiste proprio nel fatto che sottopone a critica le tradizioni ereditate. Nessuna credenza può essere accettata come vincolante se non viene sfidata dall'esame critico della ragione. La democrazia ha bisogno di cittadini capaci di pensare autonomamente e l'autoesame socratico e' come "il tafano su un pigro cavallo di razza": lo tiene sveglio. Risveglia la democrazia, incline alla disattenzione e all'apatia, per renderla più saggia e consapevole. Fuori del paragone socratico, la democrazia in un mondo sempre più internazionalizzato impone al cittadino vigile di allargare la sua prospettiva al di fuori del suo gruppo. Non ci sono piu' "barbari". E la formazione deve insegnare anche ai livelli superiori la capacità di decifrare la condizione degli altri gruppi attraverso l'immaginazione. Altri gruppi in tutti i sensi: altri popoli, altra pelle (l'essere neri), l'altro genere (l'essere donna), altre abitudini sessuali (l'essere gay). L'immaginazione narrativa e la critica della Vecchia educazione (quella che costò la vita a Socrate, accusato per questo di corrompere i giovani e di allontanarli dall'ubbidienza alle leggi dei padri) s'incarnano nel modo esemplare in cui la Nussbaum propone di insegnare nei campus americani che cosa esattamente significhi essere gay: una prova scritta che consiste nel simulare una lettera ai propri genitori in cui lo studente o la studentessa rivelano ai propri genitori di essere omosessuali.

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Sfidare gli stereotipi culturali entrando nelle vesti delle loro vittime. E rompere le barriere dei numerosi cerchi concentrici dentro i quali ciascuno può raffigurare la propria vita: l'individuo, la famiglia, il vicinato, i concittadini, i compatrioti, l'etnos, la lingua, la religione, la professione, il genere, le classi. Non per denegarle, ma per decodificarle e comprendere gli altri. Nessuno può imparare tutte le lingue del mondo, ma tutti possono imparare abbastanza cose per valicare le barriere create dalle lingue e sentirsi pienamente e consapevolmente parte di una comunità-mondo. Brillanti sono le pagine della Nussbaum dedicate ai disturbi della comunicazione tra le culture realmente esistenti, quando racconta di un corso dedicato da alcuni college allo smontaggio di automatismi della distorsione, a spiegare per esempio che le altre culture non sono monolitiche, sono attraversate da conflitti, sono in evoluzione. Tutto il contrario del modo in cui Tacito raccontava la Germania (i classici offrono anche ricchi esempi di vizi e non solo di autoesame socratico) per poi giustificare il loro trattamento da barbari. Certo nel parlare di altri popoli siamo sempre tendenzialmente trascinati allo stereotipo, agli errori descrittivi che peccano di sciovinismo, romanticismo o arcadismo, anche ora, nell'epoca della comunicazione elettronica. A volte trattiamo come disordine (mettiamo: una corsa in taxi per le strade di New Delhi) un modo di vivere la città che contraddice le nostre aspettative di milanesi o newyorchesi, altre volte trattiamo come standard di inciviltà un singolo episodio. Se per esempio vediamo un automobilista che investe un pedone per le strade del Cairo e se ne va, saremo portati a considerarlo un segno di pessime abitudini locali. Se lo vediamo sotto casa nostra lo consideriamo un criminale e chiamiamo la polizia. Ma quello, in verità, è un criminale anche al Cairo, non c'è relativismo che tenga. I costumi evolvono ovunque.
Se qualcuno avesse fotografato la civiltà italiana quando il delitto passionale passava quasi impunito avrebbe sottovalutato la nostra capacità evolutiva verso la civiltà. Oggi viene perseguito come omicidio e basta. Analogamente uccidere l'amante della moglie non era un reato in Texas fino al 1967. Oggi non è più così. E anche lo stereotipo texano, come quello siciliano, va socraticamente messo in crisi. Potremmo continuare noi l'esercizio della Nussbaum. Che dire della vicenda dell'impeachment di Clinton? Nel nostro stereotipo degli americani puritani e ossessionati dall'adulterio presidenziale eravamo pronti a considerare del tutto "normale", sugli standard presunti di quel paese, che un presidente venisse dimesso per ragioni, ai nostri occhi, banali e irrilevanti. Alla fine non è accaduto, l'opinione pubblica americana si è fortemente divisa ed ha fatto prevalere una scelta razionale: il Congresso lo ha lasciato in carica. Ha considerato la cosa non abbastanza grave, come avrebbe fatto un qualunque Parlamento europeo. Lo stereotipo è contraddetto da un fattore evolutivo, anche se molto contorto e sgradevole. Il tafano socratico non smette mai di disturbare. E rimane il principio ispiratore di qualunque educazione superiore, bisognosa di continui disturbi per non arenarsi in pericolose abitudini. Il Seneca che la Nussbaum ci propone come ispiratore, scagionandolo anche dalla discutibile opera di precettore di Nerone, e' l'ideatore di un'educazione "liberalis" in due sensi diversi: "liberale" in quanto confacente a un uomo "libero", ma soprattutto "liberale" in quanto "liberatrice" dalle tradizioni acquisite senza l'indispensabile sfida della critica.

Una sfida costosa e faticosa, come ben sapeva un altro "eroe" dell'antichità che alla Nussbaum piace riproporre: Diogene il Cinico, quello che viveva nella botte e rifiutava convenzioni e agi, e che Platone ci ha raccontato come una specie di Socrate pazzo (era noto anche per l'abitudine di masturbarsi in pubblico). Esprimere liberamente il proprio pensiero era per lui "la cosa più bella che si potesse fare nella vita". E tra questi pensieri c'è l'invenzione dell'idea di "cittadino del mondo", quale egli si considerava, che sarebbe poi stata perfezionata giù giù fino a Kant e ai faticosi inizi di un ordinamento cosmopolitico, di cui viviamo tuttora il travaglio. Tra lui, uomo naturalmente lontano dal potere, e Platone, che aveva col potere e coi tiranni (compreso Dionigi di Siracusa) rapporti intensi anche se a volte contrastati, avvenne uno scambio di battute che fortunatamente ci e' stato tramandato. Eccolo qua: un giorno che Platone lo incontrò mentre era concentrato nell'umile impresa di lavare l'insalata, gli disse: "Se tu avessi onorato Dionigi, non laveresti ora quell'insalata". Diogene rispose: "Se tu avessi lavato dell'insalata, non avresti onorato Dionigi". Riportiamo ad uso della formazione superiore per future classi dirigenti di tutti i tempi.

 

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