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Cavour/Quel conte così moderno e trasgressivo

Gabriella Mecucci

 

 

Senza l’alone di avventura e di eroismo di Garibaldi, senza la mitologia del sacrificio di Mazzini, Camillo Benso conte di Cavour arriva nell’immaginario del giovane studente italiano con quell’aria goffa e bruttarella dei suoi ritratti, accompagnato dalla fama di politico accorto e cinico, moderato e senza passioni. Insomma, fra i tre, è lui quello destinato a rimanere il meno simpatico. Eppure non è così. Luciano Cafagna, nel suo ultimo libro, dal titolo Cavour, ci propone un ministro del Re colto, appassionato, un vero intellettuale e politico europeo. Un uomo pieno di fascino, un tombeur de femmes e quel che più conta un autentico modernizzatore.

 

Professor Cafagna, davvero Cavour era così poco italiano? E perché ci volle uno spirito europeo per fare l’Italia?

"Cavour parlava e pensava in francese. Leggeva i libri più importanti che all’epoca venivano prodotti in Europa, penso prima di tutto a Tocqueville. Aveva un atteggiamento persino sprezzante nei confronti della piemontesità. Era un politico di grande abilità naturalmente, ma era anche una personalità complessa, molto forte e sfaccettata. Un moderato, ma anche un trasgressivo: si giocò la carriera nell’esercito perché accusato di essere antimonarchico. Entrò in politica nel 1848, un anno segnato dalle idee di libertà. Il suo guardare all’Europa sarà indispensabile per fare l’Italia. Per concepire e portare avanti un tale disegno ci voleva infatti un modernizzatore. L’Italia non visse all’epoca una rivoluzione popolare, cosa che il Risorgimento non fu mai, ma una importante e autentica modernizzazione".

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Ma il fatto che il Risorgimento sia stata una "rivoluzione mancata" ha provocato poi più di un problema…

"Certo, la mancata partecipazione popolare al Risorgimento lascerà le masse distanti dallo stato, dalle istituzioni. E questo è un tratto che si ritrova in larga parte della nostra storia. Il Risorgimento non fu nemmeno una rivoluzione borghese, nel senso che non rispondeva agli interessi diffusi e radicati di una nuova classe. Fu un processo elitario, pensato e portato avanti da pochi: non solo il popolo ne venne poco toccato, ma spesso vi si contrappose. Basti pensare al ribellismo meridionale".

 

Cavour dunque fu un modernizzatore. E che cosa modernizzò?

"Il cambiamento fu molto importante almeno in due campi. Nell’ambito politico istituzionale Cavour mise al centro della sua strategia il Parlamento. Fu quello il suo punto di forza anche nei momenti di contrasto con la monarchia. Fu lì che costruì le sue alleanze. La seconda grande modernizzazione cavouriana investì l’economia. Era un liberale, ma amava agire dal lato dell’offerta. Riteneva, ad esempio, molto importante la formazione, la qualità del lavoro. Perseguiva il pareggio del bilancio pubblico, ma non lesinava denaro per investimenti nel campo della scuola, dell’istruzione tecnica. E poi, come dimenticare che cosa hanno significato non solo dal punto di vista economico scelte come la costruzione della ferrovia? Per questa via si perseguiva lo sviluppo ma anche l’unificazione del paese".

 

Cavour costruiva le sue alleanze in Parlamento. Riuscì a mettere insieme parti del centro, della destra e pezzi della sinistra, nelle sue componenti ovviamente non radicali. Il termine "connubio", da lei usato per definire questa politica, pare in qualche modo evocarne un altro: "consociativismo". È così?

"Sono profondamente convinto che per riuscire a cambiare il nostro paese c’è stato sempre bisogno di un punto alto di mediazione, di compromesso politico fra diverse forze. Quando ciò è accaduto abbiamo avuto momenti di riforma e di modernizzazione, quando, al contrario, si è rotta ogni forma di possibile collaborazione, c’è stata la tragedia del fascismo".

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Mi vuole citare tutti i momenti in cui il consociativismo ha avuto una spinta propulsiva?

"Preferirei chiamarlo compromesso politico. Credo che abbia giocato un ruolo importante non solo nel periodo cavouriano, ma anche durante il giolittismo quando si stabilì una collaborazione fra pezzi di forze di destra e di sinistra. Forse andrebbe citato anche il compromesso De Gasperi-Togliatti. Certo in questo caso quello che accadde è fortemente voluto dall’esterno, ma, accanto ai condizionamenti delle grandi potenze straniere, ci sono anche componenti autonome di questa scelta che vale la pena di valorizzare. Per fare un tuffo nell’oggi: probabilmente non riusciremo a fare le riforme istituzionali di cui abbiamo bisogno se le forze politiche non raggiungono questo tipo di compromesso".

 

Perché c’è bisogno di continue mediazioni politiche per cambiare? Perché nella storia d’Italia non succede quello che accade nei paesi anglosassoni?

"Perché l’Italia è un paese arretrato. Non c’è una società che preme per modernizzare, per cambiare. I processi riformatori, in genere, maturano in élite ristrette. Spesso si cerca nel trasformismo la causa di tutti i mali italiani, ma il trasformismo non è la causa bensì l’effetto di questi".

 

Ma l’arretratezza del paese non ha le sue origini proprio nel modo in cui è stato fatto il Risorgimento?

"Non c’è dubbio che l’Italia uscì da quel periodo con una serie di limiti. Vediamo di elencarli: il dualismo fra Nord e Sud, problema questo non solo economico ma anche politico, tutt’ora irrisolto; un centralismo senza centro, o meglio con un centro che non funziona; un paese scomunicato…".

 

Aspetti professore, parliamo di quest’ultima questione, che investe direttamente le responsabilità della Chiesa cattolica…

"Sullo stato unitario italiano pesò la scomunica pontificia. Questo ha significato che la religione non solo non è stato un momento di consenso e di collante nei confronti delle istituzioni, ma ha portato centinaia di migliaia di cattolici fuori dalle istituzioni per un periodo molto lungo. Questo è un elemento di non secondaria importanza nel determinare la distanza fra stato e cittadini che tutt’ora viviamo. Ha un peso anche nell’aver impedito la nascita di un liberalismo forte".

 

Abbiamo parlato a lungo del Risorgimento. Vogliamo descrivere che rapporti c’erano fra Cavour e gli altri protagonisti: Vittorio Emanuele, Mazzini, Garibaldi…

"Cavour e il Re non si sopportavano. Vittorio Emanuele era un uomo intelligente, ma rozzo. Aveva capito bene, del resto glielo aveva spiegato Massimo D’Azeglio, che non poteva fare a meno del suo ministro. Sapeva di dover scegliere la strada liberale e di modernizzazione da lui indicata, ma nonostante ciò ne detestava il suo artefice, quell’uomo colto, raffinato, sprezzante e, persino, arrogante. Quanto al rapporto con Garibaldi, Cavour lo giudicò sempre come un avversario, ma un avversario stimato, vissuto come una possibile alternativa. Del tutto opposto invece l’atteggiamento verso Mazzini che il ministro del Re ha quantomeno sottovalutato. Una volta disse con fastidio: "Bisognerebbe farlo impiccare"".

 

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