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Libri/Pennac e la lettura, una passione bulimica


Paolo Marcesini

 

In Italia lo ha portato Stefano Benni, uno dei suoi amici più cari. E di lui Benni ha detto: "E’ uno scrittore straordinario perché riesce a comunicare calore e verità e la gente lo sente". Stiamo parlando di Daniel Pennac, scrittore tra i più amati, autore – best seller della fortunata saga dei Malaussène. Lo incontri e subito ti racconta il mondo che vorrebbe, un luogo magico dominato dagli affetti, lontano dalle gerarchie del privilegio, dell’egoismo del dominio. "Mettiamola così: credo nell’uomo e nelle sue azioni, amo alla follia i principi evangelici e quelli dell’utopia comunista. E qui mi fermo, con le categorie e le appartenenze ho chiuso". A chi si vanta di non aver mai letto un libro, risponde sereno: "Sei fortunato, hai ancora davanti a te migliaia di libri da leggere".

Luogo ideale per il romanzo è la famiglia: "Un universo di desideri, dove i piccoli vogliono diventare grandi e i grandi, ogni tanto vorrebbero fare i piccoli. E’ il teatro naturale dell’amore. E l’amore è sempre un atto di resistenza al sociale e alle sue ingiustizie". La sua iniziazione alla passione per i libri, la descrive così: "Devo tutto alla tradizione orale, ai racconti di mia nonna capaci di incidere immagini indelebili nella mia memoria. Ancora oggi ricordo la storia del lupo che mangiava la gallina, e ricordo lo stupore, la paura, il divertimento. Cosa dire poi di Pollicino, un racconto dove convivono tutti i temi dell’esistenza, la morte, il tradimento, la menzogna. Ho imparato a leggere ascoltando, come nelle commedie di Shakespeare, dove lettura e oralità convivono. Mi nutrivo di storie, erano il mio cibo quotidiano".

Da lì ai libri, il passo è stato breve: "Iniziai a leggere a sei anni, ero in collegio e mi sentivo prigioniero; ogni sera, prima di addormentarmi, con una lucina accesa sotto le lenzuola, leggevo i libri che avevo "rubato" durante il giorno in libreria. Mi piacevano i libri di avventura, le storie di cappa e spada come quelle di Alexandre Dumas. Il primo scrittore che mi è piaciuto tantissimo è stato Dino Buzzati. Ho amato subito anche tutti i grandi scrittori russi, da Puskin a Dostoevskij. Poi mentre crescevo, sulla mia strada ho incontrato Svevo, Gadda, Proust, Joyce, Celine. Dopo ho cercato i letterati puri, gli scrittori inglesi di epoca vittoriana, Dickens, Stevenson, Thomas Hardy, Kypling". Racconta se stesso e i libri che ha amato con gioia, Pennac, ma si arrabbia (addirittura si indigna) quando sente dire che i giovani hanno abbandonato la lettura: "Questa è un'idea che non accetto. In relazione a chi e a quando i giovani di oggi non leggono? In relazione ai giovani del secolo scorso? Assolutamente no. In relazione ai giovani della mia generazione, quelli dell’immediato dopoguerra? No perché la scolarizzazione ha elevato il numero di lettori. In relazione a chi, allora? Dov'é il problema? In genere quando si pone questa domanda ai giovani stessi loro danno sempre la stessa risposta: non leggo perché guardo la televisione. E fanno bene a rispondere così, non hanno altro, non gli è stato dato altro. Ma se un padre di famiglia dice che suo figlio non legge a causa della televisione, non fa altro che dire: non è colpa mia. Se un insegnante dice che i suoi alunni non leggono a causa della televisione, cosa vuol dire in realtà, che non è colpa sua. E’ troppo facile giustificarsi cosí. Se io genitore, se io insegnante riesco a comunicare ai miei figli e ai miei allievi il piacere della lettura, il mio modo di leggere, forse anche loro si avvicineranno alla lettura".

Quello che minaccia veramente il consumo di libri e tutta la cultura, per Pennac non è la televisione, l’urbanizzazione delle città. "E’ come nei gironi danteschi, con il paradiso della cultura esposto in centro, escluso a tutte le persone che si trovano nel girone piú lontano, in periferia dove arriva solo la televisione". Lui, Pennac, le televisione non ce l’ha, condizione estrema per limitarne l’uso. Il suo esordio letterario lo racconta come una "dissolvenza cinematografica". "In collegio la lettura a piacere era proibita; ci si svegliava, si faceva colazione, c'erano le lezioni del mattino, il pranzo, le lezioni del pomeriggio, i compiti scritti e orali, la cena e poi si andava a letto. Per sopravvivere a questa astinenza forzata dalla lettura, ho iniziato a scrivere durante le ore di scuola mi raccontavo delle storie e le scrivevo al posto dei compiti, per non farmi scoprire". Adesso, quel ragazzino che scriveva di nascosto è diventato uno degli scrittori più famosi e letti del mondo. Esiste un segreto per definire il suo successo? "Chi lo sa, forse perché non faccio distinzione tra divertimento e sinceritá, tra ricerca della verità e bisogno di fiction. Con i libri di Malausséne ho raccontato storie terribili, che fanno paura. Però ho deciso di raccontarle facendo ridere, la mia non è stata una scelta calcolata. Perchè questo modo di affrontare i problemi, frapponendo una barriera di umorismo tra il dolore di una persona e tutti gli altri, mi appartiene, è la mia etica di vita. Se mi dovessi ammalare gravemente, la mia più grande ambizione sarebbe di riuscire a far ridere mia moglie, i miei figli e i miei amici più cari. Mi ritengo un uomo fortunato perché rispetto al mio mestiere ho capito una cosa fondamentale: l’uomo costruisce case perché è vivo ma scrive libri perché si sa mortale. Saperlo è confortante."

Gli chiediamo qual è la sua definizione di paura. "Quello che mi spaventa è anche quello che mi meraviglia. Ho paura dell’irrazionale, di quello che non posso controllare, di essere alla mercé di una cellula che può impazzire e uccidermi. Ho paura dei miei allievi, di non avere più nulla da dargli, di sentire i loro occhi che mi giudicano. Poi ho paura che un semplice pip di Monica Lewinsky (anche se la cosa mi fa ridere cone una commedia di Shakespeare. E ride sul serio, di gusto. n.d.r.) metta in crisi l’uomo più potente del mondo. Che umiliazione per Clinton! La povera Monica non sarà pericolosa come la bomba atomica, eppure gli effetti sono stati disastrosi allo stesso modo".

Daniel Pennac, forse suo malgrado, è una star. "Ogni persona che mi dice di apprezzare i miei libri o di odiarli, in realtá mi parla di sé. Leggere e scrivere sono azioni che appartengono all’intimitá di ognuno di noi. Una rockstar confeziona emozioni collettive da supermarket, uno scrittore svela qualcosa di sé agli altri e gli altri lo ricambiano con la stessa moneta". Lo fermano e gli chiedono del destino di Malausséne, il capro espiatorio: "Malausséne è un tipo un pó infantile che gioca a fare l’ingenuo perché sa molto bene che, se non cercasse di farlo, sarebbe un disperato".

Una cosa che Pennac non potrà mai abbandonare è il quartiere parigino di Belleville, dove lo scrittore vive e dove sono ambientate tutte le sue storie: "Sono arrivato qui nel 1969 e non mi sono più mosso. Sono un tipo sedentario che ama il mondo, e lo vuole avere tutto a portata di mano. Nel mio quartiere attraverso una strada e sono in Cina, giro sull’altro marciapiede e trovo la Turchia, dietro l’angolo c’è la Tunisia. Per chi fa il romanziere poi è indispensabile non essere costretti a muoversi troppo per cambiare aria. Quando Belleville sarà diventato un quartiere della rive gauche, un luogo snob come tanti altri, allora statene certi, emigrerò subito, magari in Alsazia".

Inevitabile arriva la domanda sul suo laboratorio di scrittura. Lui, contariamente a molti altri suoi colleghi, non si sottrae, non si fa pregare. Anzi: "All’inizio mi dico sempre non ce la farò. Questo atteggiamento mentale l’ho chiamato il complesso di Mosé. Dio gli offre un bastone che lui dovrà battere sulla roccia ogni volta che il suo popolo avrà fame e sete. Dopo due o tre volte Mosé inizia a dubitare di questa "magia" e come punizione per il suo dubbio Dio gli rompe il bastone. Succede lo stesso anche a me, non so se scrivere una storia vrà un senso, sono convinto che un atto di fede lo si deve fare quando si crede fermamente di poterlo fare. Trovata la forza necessaria chiamo i miei amici e mia moglie e gli dico: statemi a sentire perché ora vi racconto una storia. Ascolto i loro consigli, butto giù un piano di azione, poche paginette scarabocchiate a mano e con quella paginetta ci vivo un po’ di settimane; quindi mi metto a scrivere. Servono almeno due anni durante i quali non dimentico mai di mettere nella mia storia qualche riferimento alla realtà che mi circonda". Quindi ci parla del suo stile, fattofrasi destrutturate e di un linguaggio sorprendente, alternativo, funambolico, pieno di neologismi e giochi di parole: "La scrittura è puro godimento linguistico. E’ una sensazione fisica, erotica. Non amo gli sbalzi di tono, scrivo lentamente, rifiuto le grandi descrizioni e le analisi psicologiche. Sento il bisogno continuo di usare la metafora al posto della descrizione e dell’analisi psicologica dei personaggi, grazie alla quale mi è più facile allontanarmi dagli artifici complessi e inutili della prosa. All’interno di questa struttura molto rigorosa esalto quello che definisco la microfantasia fatta di battute estemporanee, immediate, autentici intuiti poetici".

L’ultima domanda, quasi d’obbligo, riguarda il mondo dei bambini, il terreno preferito dall’ispirazione di Pennac: "L’infanzia è un periodo magico della vita in cui non si sa ancora che cosa si diventerá, dove i bambini non hanno l 'esperienza del vissuto, non ipotizzano il futuro e per questo sanno inventare e vivere il momento, ogni momento, con molta intensitá. Piangono e ridono contemporaneamente, non hanno il senso dell’angoscia e questo li rende veramente bambini, veramente vivi. Fino a dieci anni il presente coincide con l’eternitá. Quando iniziamo ad avere la cognizione del tempo che passa, vuol dire che siamo diventati adulti e che abbiamo iniziato a morire".

 

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