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Libri/Giovanni Giudici si racconta



A colloquio con Oreste Pivetta

 

 

Una versione piu' breve di questa intervista e' apparsa sull'"Unita" di sabato 27 gennaio.

 

«Sièva stào solo chi/ Restào per sempre/ Magari tüto 'o giorno tapào 'n cà/ A lèze o a ne fà niente/ Vançàndome ogni tanto a véde o mà», primi versi di una poesia, «Ria», in dialetto delle Grazie, La Spezia, che in italiano farebbe «Sarei stato soltanto qui/ Rimasto per sempre/ Magari tutto il giorno tappato in casa/ A leggere o a non far niente/ Affacciandomi ogni tanto a vedere il mare...». Ria probabilmente è dal latino ripa. La poesia si legge nella nuova raccolta di Giovanni Giudici, «Eresia della sera», pubblicata da Garzanti e di cui su questo giornale ha scritto Massimo Onofri. Insieme con tante altre poesie e molte bellissime.

Giudici è nato appunto in quel paese, Le Grazie, di cui Ria era il nucleo originario. Poi è vissuto a Roma, a Ivrea, a Milano. Adesso sta per lo più alla Serra, alta sopra Bocca di Magra, «dove il dialetto prende un'impronta ormai lunigianesca». A Milano è di rado, in una casa di via Tadino, parallela a corso Buenos Aires, vicino a Raboni, sopra il caffè arabo, vicino alla macelleria islamica e al minimarket indiano ma anche pakistano o afgano (vendono i cappelli di feltro dei talebani), Milano dai bei tratti ordinati e geometrici, adesso un po' dolce un po' sinistra, secondo la luce.«Ma Ria è un travestimento. Sta per Roma. Ho scoperto da qualche parte che il mio vero paese è Monte Sacro». Giovanni Giudici mi legge «Ria» dal divano di questa sua casa con una voce sommessa e il tono ironico. Ed è proprio il tono, con lo sguardo sospeso, che non si può restituire e rende difficile qualsiasi intervista...

 

Tu sei nato alle Grazie e hai tenuto casa lì...

«A nove anni, dopo la morte di mia madre, ero già a Roma, dove s'era trasferito mio padre per lavoro. Se tu guardi sul tavolo, c'è un foglietto. È una pagella della scuola elementare pontificia, nel Collegio Opera Pio XI, in via Etruschi 36...».

 

Classe quarta, 933, anno undicesimo dell'era fascista. Religione lodevole, canto buono, lettura e composizione lodevole, educazione fisica sufficiente, rispetto della pulizia notevole... Assenze niente...

«Per forza. Ero chiuso lì. Mia madre era morta nel '27, l'otto novembre, c'è anche una poesia. All'asilo mi mandarono dalle monache a Cadimare. L'asilo, se uno era bravo, valeva come la prima. E così alle elementari passai in seconda, ancora a Cadimare. Per la terza capitai a La Spezia, in via Venti Settembre, alla scuola Severino Ferrari. La maestra si chiamava Jone. Jone Coppo Spadacino, una brava donna vagamente stronza. Ero guardato con pietà dalle insegnanti perchè ero figlio di una loro collega prematuramente scomparsa. Una parte della quarta la frequentai invece alle Grazie ed ero contento perché non avevo mai visto le Grazie d'Inverno. Poi mio padre trovò un posto a Roma, al ministero della guerra, e casa nella parte più periferica di Monte Sacro, una casa popolare, una casa di miserabili. Più o meno dove sorgono gli stabilimenti della Dear. Nel 1935 lasciai il collegio. Mi ricordo quando venne dichiarata la guerra all'Etiopia e i ragazzini erano in festa, come erano contenti, questa idea della guerra li entusiasmava. Al liceo pensai di andare al Giulio Cesare. Invece aprirono una sezione distaccata. Venne il tempo dell'università. Mio padre scelse per me medicina, ma io pensai che non fosse in grado di mantenermi e che sarebbe stato doloroso per me il continuo contatto con la malattia, con il dolore, con la sofferenza. Così alle cinque della mattino mi presentai a mio padre e gi comunicai la mia decisione di rinunciare a medicina. Mio padre mi rispose di non dire fesserie. Io presi e andai a iscrivermi a lettere. Era marzo e in giugno avevo già dato cinque esami: storia del cristianesimo, filosofia morale, filologia romanza, storia romana e un altro che non ricordo. Ho continuato. Il terzo anno coincise con l'occupazione».

 

Con l'occupazione arrivò anche la politica...

«Aderii al partito d'azione, poi anch'io come tanti altri feci un po' di renitenza alla leva. Chi voleva partir soldato? Invece entrai nella guardia di finanza...».

 

La storia che racconti nelle quattro o cinque pagine di prosa del tuo libro di poesie, quando ti consegnarono un prigioniero tedesco e non sapevi che farne.. Un Aft, allievo finanziere terra.

«Prima però stavo in una casermetta, era un semplice ufficio amministrativo, con alcuni tedeschi. Quello più sano era almeno orbo di un occhio. All'arrivo degli americani loro se ne andarono pacificamente , con una stretta di mano. C'eravamo messi d'accordo. Ma ricordo il giorno in cui diedi l'altolà a sergente della X Mas. Quello la sera tornò con altri per darci una punizione. Erano armati e mettevano paura. Quando sopraggiunsero nel buio della notte, ebbi un'intuizione, chiamai un tedesco e gli urlai: Mathias, spara spara. E quello sparò alcune raffiche senza sapere contro chi. La X Mas se ne andò di corsa».

 

Per questo ti diedero l'attestato di partigiano e l'aumento di pensione.

«La nostra caserma era un albergo. Di fronte abitava l'attrice Olga Villi, che un giorno ci chiese una sigaretta e io gliela gettai dfalla finestra. Poi ci siamo di nuovo incontrati. E le ricordai la sigaretta...».

 

Hai conosciuto la Roma del dopoguerra...

«Una città dura."Roma tutta di polvere e rancore...". Da Monte Sacro dove abitavo Roma mi sembrava irragiungibile. Bisognava risalire al Tufello, che era poi il quartiere fatto costruire da Mussolini nel '38, quando si preparava alla guerra. Per lavorare al Tufello, Mussolini fece rimpatriare molti immigrati dalla Francia, parecchi dei quali politici, nel senso almeno che se ne erano andati perchè non tolleravano il fascismo. Nei cantieri del Tufello si sentiva parlare ostentamente francese».

 

Ma di te stesso in quell'«evento storico» che immagine conservi?

«Di uno che doveva camminare molto. Avevo continuato a frequentare diligentemente l'università, trovando un amico, Ottiero Ottieri, un ragazzo molto buono e intelligente, che mi raccomandò a Ernesto Bonaiuti. Dovrei dire: mi raccomandò a un perseguitato come Bonaiuti».

 

Niente male...

«Dovevamo in realtà tutti pensare a sopravvivere. Così feci il garzone alle cucine di un caserma inglese, che era poi un altro appartamento requisito. Però ebbi anch'io il mio colpo di fortuna, perchè quando ero nella Finanza, c'era con me un ragazzo il cui padre era uno dei funzionari di polizia che arrestarono Mussolini. Liberato Mussolini, dovette starsene nascosto, ma finita la guerra tornò al suo posto e mi aiutò: impiegato d'ordine con altri sette al ministero dell'interno».

 

E la politica?

«Stavo nel Partito socialista e per poco non mi avrebbero fatto segretario della federazione giovanile. Ma ero funestato da un amore... Invece grazie ad altre raccomandazioni mi collocarono all'ufficio stampa. Non facevo assolutamente nulla. Leggevo e scrivevo la mia tesi di laurea, con i libri presi a prestito nella Biblioteca nazionale, con la garanzia di Buonaiuti, che non era stato reintegrato nell'insegnamento ma nel grado di professore universitario. Mi laureai con una tesi su Anatole France. Il professore mi propose per un lettorato in Francia. Ma i soldi erano pochi e rinunciai. Invece, grazie a un compagno sottosegretario, presi un distacco per la politica e viaggiai un poco tra Milano, Roma e Torino. Alla scissione socialista trovai lavoro come praticante all'Umanità, dove capocronista era Mario La Stella, il padre di Oliviero, che sta adesso al Messaggero. Papa La Stella mi insegnò il mestiere e in primo luogo la precisione. Un bravo professionista...».

 

Dove stava la vostra sede?

«I giornali che vanno male girano da una parte all'altra. Abbiamo cominciato a Palazzo Sciarra, poi siamo andati in via del Tritone. Infine arrivammo al cimitero degli elefanti di via Milano. E lì siamo morti. Alla fine proprio La Stella che aveva trovato lavoro come caporedattore in un quotidiano che si chiamava L'Espresso. Mi fece promuovere capocronista. Immediatamente, il più giovane, con l'antipatia di tutti. Chiusa l'Umanità vennero gli anni dell'Usis, l'organismo americano, United States Information Service. Ero l'unico giornalista e facevo il direttore di una rivista, Mondo occidentale, con il caro Mario Picchi redattore. Anche lì ero mal visto, perchè si sapeva che ero di sinistra. Così accadde che mi venne negato uno stage negli Stati Uniti, che di anno in anno veniva riservato a tutti i membri dell'ufficio. Allora, nel '56 decisi di chiudere. Poi venne l'Olivetti. A presentarmi fu Riccardo Musatti, caporedattore dell'Italia socialista, un giornale più povero dell'Umanità. Da Ivrea un giorno arrivò un telegramma, un appuntamento con Adriano Olivetti. Voleva fare un giornale di fabbrica. Ivrea non fu facile, perchè era un ambiente completamente diverso dal mio. Allora poi praticavo».

 

Pratica... religiosa?

«Sì, praticavo, dopo che una grave malattia aveva colpito mio figlio. Era successo che uno dei parroocchiani di San Anselmo a Roma un giorno mi incontrasse e mi comunicasse d'aver saputo di mio figlio. Aggiunengendo: abbiamo pregato per lui. Io risposi: va bene, grazie. E cominciai a frequentare S.Anselmo dove si celebrava la messa gregoriana. A Ivrea, ambiente laicizzante, io ero visto come un nemico. Abitavo in strada per Torino 63/A. Al 63/B stava l'ingegnere Roberto Guiducci. Io avevo un posto fantasma nella biblioteca, di cui era direttore Luciano Codignola. Con noi era Geno Pampaloni. Incontrai una persona splendida come Ludovico Zorzi, lo storico del teatro. E Volponi con quella sua sovrastruttura di ruvidezza, di retorica».

 

Ma la tua idea era sempre di andare a Milano.

«Mi si propose di lavorare in un altro giornale, voluto da Olivetti, in vista delle elezioni del '58, e diretto da Pampaloni, La via del Piemonte. Molta improvvisazione e tanti raccomandati come me. Mi ricordo Nello Ajello e ricordo Pampaloni che arrivava in redazione alle dieci di sera, così si lavorava fino alle tre del mattino. Giulio Crosti, Murialdi, lo zio di Paolo, Petrovic il grafico. Tanta brava gente, non c'era l'aggressività di oggi. Eravamo però molto disturbati da un cronista dell'Unità che si chiamava Novelli».

 

Disturbati?

«Ci faceva i dispetti con le notizie del consiglio comunale. Poi finalmente Milano, sempre con l'Olivetti, la città di un'altra dimensione, di un'alta cultura. Avevo già contatti con Sereni e soprattutto conobbi poi Fortini. Un incontro importante: se ho studiato un po' lo devo a lui. Con questa idea del catechismo che ho in testa, se uno mi dice di fare una cosa io la faccio. Così se Fortini mi diceva di leggere i Manoscritti del '44 di Marx io li leggevo. E mi piacevano pure».

 

E che cosa hai imparato?

«Che ci serve una concezione unitaria del mondo non come disegno dogmatico ma come aspirazione a una totalità: questo ancora ci lascia la speranza. Una visione morale d'insieme dice che se tu fai questo ne consegue quest'altro. Obbliga alla coerenza e implica un progetto di trasformazione. E invece hanno voluta condannarla e abolirla come fosse metafisica. Vorrebbero distruggere la dimensione stessa della progettualità, per garantirsi uno statu quo perenne. Una deregulation generale, che valga per tutti gli aspetti della nostra esistenza. L'altro giorno alla tv assistevo a un documentario dei padri comboniani sul Sudan, un'intera popolazione allo stremo. Per che cosa? Per alcuni immensi giacimenti di petrolio di cui altri vogliono impossessarsi. Sono quei bambini affamati sono in ostaggio, come Ocalan, una contropartita umana alle rampe dei missili. Non esiste più una forza politica che rappresenti gli interessi popolari, sempre che si sappia che cosa siano gli interessi popolari. Siamo vittime della televisione, della spinta al consumo perchè si dice che consumare stimola la produzione. Questo è un paese trasfigurato. Persino durante il fascismo, nel conformismo di quegli anni, c'era un partito d'opposizione organizzato e fortemente radicato nel paese».

 

Coi fascisti hai avuto guai?

«Ti mandavano a chiamare, ogni tanto. Una volta capitò a me e altri due studenti, perchè avevamo mandato al diavolo uno che voleva fare un'adunata. Ci invitarono a presentarci a palazzo Braschi in corso Vittorio Emanuele. Ma non ci fecero nulla. Arrivammo accompagnati dallo zio di un ragazzo, che era un illustre cattedrattico di medicina. Sa, che vuole, sono ragazzi, tra di noi, capisco...». La solita eterna Italia... allora.


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