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Libri/Il bel tenebroso

Francesco Roat

 

Giuseppe Scaraffia
Il bel tenebroso Sellerio, pp.146,
L.28.000

 

Cifra emblematica dell’ethos romantico, la figura del bel tenebroso abita i libri e i salotti un po’ di tutta Europa lungo una parabola temporale che va dallo "Sturm und Drang" alla metà ottocento. Esso è dunque insieme tropo letterario e metafora incarnata in quegli innumerevoli uomini fatali, imitatori di Byron e del suo mito, che testimoniarono quella Sehnsucht, quella peculiarissima sensibilità all’insegna del romanticismo, costituita da aneliti inappagabili (ovvero dal desiderare il desiderio, per dirla con Lacan), brama d’assoluto, tedio, irrequietezza ed inquietudini.

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E giusto su George Gordon Byron (1788-1824) s’incentra il bel saggio di Giuseppe Scaraffia, dedicato all’uomo fatale per antonomasia: modello esistenziale ma insieme letterario degli innumerevoli epigoni che attraversano i primi decenni del secolo XIX – da Lèrmontov a Sue; dal conte di Montecristo al Corsaro Nero – ricalcando nella vita, nell’arte e nei romanzi le orme dell’eccentrico lord inglese. Pallidi eroi (di carne o di carta, poco importa) illuminati da un’aura di demoniaca fascinosità, i bei tenebrosi alla Byron "irresistibili con le donne, suscitatori di ostilità o amicizie immediate negli uomini" costantemente melanconici e funerei "rischiano senza sosta la vita e la felicità, alla ricerca di sensazioni travolgenti". La morte infatti – sostiene Scaraffia –, obiettivo implicito d’ogni tendere romantico, pare essere la condizione ineludibile per esorcizzare lo squallore d’un quotidiano vissuto come privo di significato. Non a caso i volti degli uomini fatali sono marcati da un corruccio che anche fisicamente li segna. Rughe profonde intristiscono la fronte di Jean Marc, personaggio chiave delle Memorie di un suicida di Du Camp, e una ferita percorre la fronte del corsaro di Poe. Ma forse, ben oltre i tratti melanconici, a caratterizzare questi eccentrici eroi è un atteggiamento reattivo-regressivo che si può cogliere nella coazione a ripiegarsi su loro stessi, nel disagio di fronte all’oggi e nell’incapacita a volgere lo sguardo al futuro. Ad onta quindi dell’anticonformismo di facciata che potrebbe farceli scambiare per propugnatori (sognatori) di un qualche rinnovamento nell’ambito estetico/artistico o sociale, i bei tenebrosi non riescono a celare evidenti tratti reazionari che li collocano fra gli ultimi aristocratici dell’Ancien Régime.

A mio parere è questa l’intuizione più interessante del libro. Esteti votati all’opera d’arte "in quanto eco risentita di un mondo semicancellato dalla modernità" i seguaci di Byron, coi ricci scompigliati da una tempesta che è forse soltanto la rivoluzione del 1789 e illividiti dal sole nero della malinconia, si rivelano fantasmi esangui di un passato che non può tornare. Nessuno, sottolinea Scaraffia, avverte più dell’uomo fatale l’intollerabile pressione delle nuove classi in ascesa. Nulla risulta maggiormente ambiguo del suo appoggio alla classe popolare. Byron decide sì di combattere per la libertà della Grecia, egli tuttavia non è certo un rivoluzionario o un democratico, ma piuttosto "un crociato, chiuso nella sua armatura di sdegno, un giustiziere medioevale alla ricerca di una causa annientata dalla storia".

Si dice uomo fatale di colui che ha il malocchio, scrive Flaubert nel "Dizionario dei luoghi comuni". Ha inizio l’inarrestabile declino del Byronismo. Dopo la metà ottocento (come emerge da "Jettatura" di Gautier) i bei tenebrosi si riducono ormai a iettatori o a patetici nevrastenici. E il pallore dell’uomo fatale trasmuterà in una figura ancora più notturna e inquietante: il vampiro che, guarda caso, deve la sua prima apparizione proprio alla penna del segretario di Byron, Polidori. Solo così il mito non muore: se accetta la metamorfosi. Ma ormai il seduttore ha gettato la maschera: il poeta ribelle, l’eterno insoddisfatto svela qual è la sua vera natura di morto vivente, indossando i lugubri panni del signore delle tenebre.


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