Un giornalista e la sua città
Ettore Colombo
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Antonio Franchini, L’abusivo, Edizioni Marsilio, 249 pp, lire
28 mila
Antonio Franchini fa lo scrittore, Giancarlo Siani faceva il
giornalista, o meglio “l’abusivo”, al Mattino di
Napoli. Antonio e Giancarlo erano amici: avevano iniziato insieme.
Poi Franchini se n’è andato ed è andato a vivere a Milano. Siani
a Napoli è rimasto, ma presto è anche morto. E già, perché
questo è il punto: Franchini è vivo e oggi ha quarant’anni.
Siani invece è morto, ucciso dalla Camorra il 23 settembre 1985
quando di anni ne aveva 26. Franchini ha scritto un libro
bellissimo, L’abusivo (Marsilio), che - si direbbe - parla
del “caso Siani”.
Di come è stato ammazzato, di chi l’ha ucciso, delle indagini
mille volte iniziate e mille volte interrotte, dell’ambiente del
Mattino e, più in generale del giornalismo “alla napoletana”
(una sottospecie tutta particolare di una professione già
squinternata, quella del giornalismo “all’italiana”) fatto di
abusivi (e di abusi, dei direttori come dei caposervizi, dei
colleghi come della concorrenza), di raccomandazioni (dei politici,
naturalmente, ma a volte anche dello zio prete e simili) e d’ignavia,
certo, nei confronti del potere vero che spadroneggia, nel regno di
Napoli, quello della criminalità.
Ma fatto anche di tanti giornalisti sconosciuti e coraggiosi, che
indagano e stanno alle costole dei corrotti come dei piccoli e
grandi boss locali, di amicizie e solidarietà anche tra chi era
già praticante o professionista (e quindi poteva esibire il famoso
“tesserino”) e chi invece non lo era e faceva, appunto, uno
pseudo mestiere, “l’abusivo”, termine che - scrive Franchini -
a Napoli acquista tutto un altro suono.
Eppure, questo libro non parla - o meglio, non parla “solo” -
del caso Siani e di come è potuto maturare “il contesto” che ha
portato alla sua morte: le inchieste di Siani a Castellammare di
Stabia e il fastidio che dava al clan Gionta, le indagini che
stentano, il Mattino che si vergogna, almeno all’inizio, di
difendere la memoria del suo cronista (in quanto, appunto, “abusivo”...),
e poi la santificazione e i premi dati in suo nome, che passa da
quello di un giovane e brillante cronista di provincia a quello di
simbolo.

No, il libro di Franchini parla, per fortuna dei
suoi lettori e di chi voglia capire tante cose, dalla città di
Napoli, con tutto il contorno vociante e improbabile di personaggi e
culture, alle follie sociali e mentali di cui può rendersi
protagonista solo quella piccola borghesia meridionale dalla quale
lo stesso autore proviene, fino alla generazione di quei
trenta/quarantenni che hanno fatto in tempo a vivere gli scampoli
degli anni Settanta (sì, persino a Napoli) ma che sono stati troppo
presto sommersi dal disincanto e dalla cupidigia degli anni Ottanta
e oggi, affermati socialmente o meno che siano, si sentono
dolorosamente in debito con la Storia prima ancora che con le loro
stesse vite.
Infine, Franchini opera - all’interno del testo, tutto costruito
su lunghe e fedelissime sbobinature dei colloqui che ha avuto nel
corso degli anni, mentre accatastava i materiali e svolgeva le
ricerche per il libro, con i vari amici, colleghi e protagonisti
della vicenda Siani - delle interpolazioni narrative dall’esito
felice e imprevedibile. Per pagine e pagine, infatti, la storia di
Giancarlo e della sua morte viene intervallata da quella della
famiglia di Franchini e in particolare da tre figure, due femminili
e una maschile: la nonna, soprannominata “Il Locusto”,
vecchissima eppure loquace e perfidamente saggia, la madre dell’autore,
esasperata e invelenita dalla presenza di sua madre e dall’assenza
del marito, che si esprime con una volgarità feroce e cinica, ma
contemporaneamente in un dialetto e con ragionamenti di un’ilarità
contagiosa, e infine lo zio Rino, ex (forse) generale dei
Carabinieri, silenzioso e magrissimo, che in tempo di guerra dovette
giudicare un suo attentatore e gli evitò la condanna a morte.
Franchini si può permettere di tratteggiare un ritratto vero e
impietoso, ai limiti della cattiveria, del suo più ristretto clan
familiare solo perché si mette in gioco in prima persona e consente
a chi lo legge di riflettere su concetti dolorosi e insieme
cruciali. Innanzitutto, che - come gli disse un triste Walter Chiari
in una delle sue prime prove da giornalista - “Ad un certo punto
della vita ci si abitua a tutto. A perdere gli amici, agli addii
delle donne...”. Ecco perché solo ora Franchini ha potuto
scrivere di Siani. Poi che “andarsene congela gli affetti e forse
li preserva”, come Franchini ha fatto con questa storia, seguita e
insieme messa da parte per tanti anni, ma anche con Napoli e
probabilmente anche con la sua famiglia. Infine, che “catalogare -
posti, esperienze, amori, è già un gesto che dovrebbe togliere il
diritto di vivere”.
Perché, sostiene, se siamo saturi, anche solo di andare ogni giorno
al mare nella stessa bellissima spiaggia, dovremmo pensare ai nostri
coetanei morti, a chi questa possibilità non viene più data. E,
dunque, conclude Franchini, per chi, come Siani e altri della sua
generazione, ha lottato tanto per diventare giornalista, per
raccontare quello che vedeva, per conquistare una dignità
(professionale, sociale, umana) è un insulto vedere o pensare a chi
snobba con sufficienza conquiste e responsabilità che, ad altri, in
posti più crudeli, sono costati la gioia e la vita. Come a Siani. O
la fuga e il dolore. Come a Franchini.
Link:
La
scheda del libro "L'abusivo"
Da
"clarence.com", intervista a Antonio Franchini
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