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Francesco Roat



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Tre storie sull’assenza d’amore o empatia come tratto deleterio per antonomasia nel rapporto fra gli esseri umani. Tre racconti sul deserto affettivo che fa inaridire ogni relazione interpersonale, ogni dialogo, ogni possibilità di com-prendere l’altro. Tre interrogativi intorno al male, alla morte, alla negatività; ambiti che sottintendono inquietanti domande ulteriori: quale il senso della nostra esistenza, se essa è destinata a sfociare nel nulla? E’ mai possibile che un Dio presieda a questo nostro mondo così caotico e violento? Ed in tal caso, perché allora l’ingiustizia, la crudeltà, il disamore?


Questi gli aspetti narrativi, i nodi tematici o, chiamiamoli altrimenti, gli spunti riflessivi che emergono dalla lettura dell’ultimo libro di Susanna Tamaro, Rispondimi (Rizzoli), lontano anni luce dal recente (e supponente) Anima mundi e, per quanto concerne lo sguardo indagatore da anatomista dell’anima, vicino piuttosto ai racconti Per voce sola, maggiormente asciutti, meno buonisti o comunque meno retorici del mieloso Va’ dove ti porta il cuore. Anzi, teneri proprio per nulla quelli di Rispondimi, visto che il registro stilistico prescelto è invece quasi interamente dominato da una tonalità narrativa all’insegna della cupezza, della sottolineatura insistita di una sofferenza estrema (nell’animo e spesso pure nel corpo) che contraddistingue i personaggi di queste vicende emblematiche, segnati tutti da abbandoni, violenze, lutti, umiliazioni laceranti ed intollerabili.

Ma analizziamo, una per una, la trama delle tre storie.

Protagonista della prima, che dà il titolo al libro, è una ragazza orfana (la madre faceva la prostituta), in fuga da collegio e zii bigotti, la quale si fa impelagare in una squallida relazione col suo datore di lavoro: un padre di famiglia dai modi paterni solo all’apparenza. Risultato: dopo essere rimasta incinta e aver deciso contro la volontà dell’uomo di non abortire, si troverà d’improvviso in mezzo alla strada, bruscamente cacciata dalla famigliola borghese.

Figura centrale della seconda (L’inferno non esiste) è ancora una donna che ripercorre con la memoria la propria vita - fatta solo di gelo e mortificazioni accanto ad un marito algido e prevaricatore - sino alla svolta tragica della morte del figlio, investito sia pur non intenzionalmente sulla porta di casa dall’auto del padre/padrone fuor di sé dopo una lite col ragazzo.

Io narrante della terza (Il bosco in fiamme) è infine un botanico, sedicente innamorato della consorte e benevolo verso la figlia ma in realtà geloso fino all’ossessione e al delirio. Sino al punto di trasformarsi da padre e marito iperprotettivo in paranoico e di aggredire la moglie in un impeto d’ira, uccidendola, per poi pagare col carcere il suo atto insano.

Lampante come in questi racconti le vittime siano le donne (nel ruolo coatto di mogli e figlie) e come gli uomini non ci facciano certo una bella figura. Altrettanto scontato il fil rouge di sofferenza per deprivazione affettiva che attraversa le esistenze desolate dei tre personaggi femminili (anche ne Il bosco in fiamme alla fin fine è l’uccisa ad avere un ruolo chiave). Meno palese ed esplicito (tranne nell’ultimo scritto: il più didascalico o cattolico e per ciò forse narrativamente il meno riuscito) il messaggio di speranza nei confronti di una dimensione ultraterrena, d’una bontà o amore davvero paterno che potremmo chiamare semplicemente Dio.


Un Dio/Padre al quale i protagonisti e le vittime non si appellano direttamente, ma cui si rivolgono o guardano per interposta persona attraverso e grazie all’intermediazione d’una sorta di messaggero ultraterreno che compare in veste di cane (lo si consideri animale totemico, magico aiutante fiabesco o angelo teriomorfo) al momento della morte o della crisi cruciale. E’ infatti un botolo randagio la presenza amica a cui la ragazza scacciata dall’architetto chiede se nella vita e oltre “Ci guida Qualcuno o siamo soli?”. E’ “un vecchio cane bianco” che, specie di psicopompo (o guida dell’anima nel viaggio oltremondano), appare vicino al ragazzo moribondo investito dal padre. Ancora, un “grande cane bianco” si mostra sulla porta di casa dell’uxoricida, poco prima dell’assassinio.

Solo accenni queste presenze tra l’onirico e il simbolico. Mute, perché con la discorsività o il ragionamento non si può dire la dimensione trascendente. Dimensione cui anelano, pur fra dubbi e incertezze, le drammatiche figure dell’ultima Tamaro, fiduciose di incontrare almeno al termine della loro sofferta parabola esistenziale “l’amore che ci precede e l’amore che ci accoglierà”.

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