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          Capitolo 1/A nord 
           
           
           
          Raffaele Oriani 
           
           
           
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          Capitolo 1/A nord 
           
           
          Quello che segue è un capitolo tratto da "A nord", il
          saggio di Raffele Oriani pubblicato da Editori Riuniti nella collana
          Le rane. 
           
          10. SVEZIA: L’ALTRA FACCIA DELLA NEW ECONOMY 
           
          C’è aria di festa allo Sturehof di Stoccolma, e non è solo la
          primavera che finalmente ha rotto il grigio incantesimo dell’inverno
          baltico. Caviale iraniano, aringhe svedesi, Brunello di Montalcino: al
          caffè più esclusivo della capitale svedese i prezzi sono extra large,
          ma i tavolini sono affollati e una discreta targhetta invita a
          mettersi in fila in attesa di un posto a sedere. Chi non ama le code
          si rifugia allora nella hall-ristorante del Lydmar hotel, che negli
          anni ottanta ospitava la compassata comunity dei businessmen
          sessantenni e ora nutre i giovani maghi del software con i suoi
          risotti al limone e le ostriche alla francese. Si mangia, si beve, si
          compra, nella capitale svedese: le carte di credito aziendali mettono
          in circolo i frutti della nuova economia e dopo anni di bonaccia
          commerciale il cuore di Stoccolma torna a popolarsi di negozi di
          design, atelier di moda, forme e colori catturati a Londra, Milano o
          New York e reinventati in chiave scandinava secondo i precetti di un
          lusso senza chiasso, di un benessere senza ingordigia, di una leggera,
          ammiccante, disinvolta eleganza. 
           
          “Beauty on the water”, recita il nuovo logo ufficiale della
          città, e Stoccolma è bella e ricca sulle sue acque colme di lucci,
          merluzzi, salmoni; di gabbiani che se li contendono a grida e colpi di
          becco, e di barche che lasciano gli ormeggi per un giro tra le
          migliaia di isolotti fuori città. Nella capitale svedese si
          acquietano le tensioni del Baltico: la storia rientra nei musei, il
          presente smette di essere una palestra per visioni e ricordi, al
          futuro non ci pensa nessuno, tanto più o meno sarà il classico,
          tranquillo futuro di un paese modello. 
           
          Un paese tranquillo, la Svezia, che al volgere del millennio è
          tornato a riempire la sua tranquillità di un mare di cose da fare,
          gustare, comprare; un paese che non ha bisogno di simboli tanto si
          riconosce in se stesso, nelle strade della sua capitale, nei cottage
          rossi affacciati sull’acqua o sui boschi, nel proprio passato
          contadino e nel proprio presente ipertecnologico. Un paese senza
          personalità? Certo, è un fatto che il ruolo dei reali sia discreto
          fino all’inconsistenza, che il loro palazzo sia sicuramente il più
          imponente, ma probabilmente il più brutto e il più trascurato di
          Stoccolma, che davanti alla scalinata che dalla reggia scende a mare
          non sia ancorato un panfilo di rappresentanza ma un veliero da gita
          turistica: “Konferens, Representation & Rekreation”, recita l’insegna
          meschina. Caso forse unico al mondo, a sorvegliare il palazzo è un’unica
          sentinella, che al momento del cambio della guardia esegue i passi
          comandati in assoluta solitudine, col rischio di svelare il ridicolo
          autismo di ogni manifestazione di potere. Eppure tanta semplicità non
          è sintomo di trascuratezza. Tutt’altro. Dice semplicemente che il
          cuore della città non è nei suoi simboli. Che a Stoccolma il
          groviglio baltico si è dipanato da tempo e che qui le roccaforti dell’identità
          hanno finito per diluirsi senza resistenze in quella serena corrente
          di gesti, cose, volti e parole che chiamiamo qualità della vita. 
          D’altronde nel Baltico i tedeschi portarono la spada, la fede, i
          soldi, e l’alta cultura; i polacchi la magia del barocco, i russi il
          mistero del potere. Gli svedesi portarono scuole, università, sapere:
          né Goethe, né Schiller, ma le semplici lettere dell’alfabeto. Che
          è come dire la chiave della qualità della vita. 
           
          Ci staremo pure avviando verso ‘il più moderno dei mondi possibili’,
          ma le regole di base restano sempre le stesse e non finiscono di
          premiare chi coltivi con passione la pianta robusta dell’alfabeto.
          Dopo essere stata il faro della via socialdemocratica al progresso
          oggi infatti la Svezia è l’Eldorado delle nuove tecnologie: “Champion
          d’Europe du high tech” riconosce il settimanale francese “L’Express”,
          “Laboratorio della New Economy” titola “Spiegel”, “Europe’s
          Internet Capital” annuncia in copertina l’americano “Newsweek”.
          E le cifre confermano l’improvviso entusiasmo mediatico: la Svezia
          è infatti il secondo paese al mondo per numero di computer pro
          capite, il terzo per diffusione di telefoni cellulari, il primo quanto
          a incidenza degli investimenti in Ricerca e Sviluppo sul totale del
          prodotto interno lordo; in Svezia ci sono 85 postazioni informatiche
          ogni 100 colletti bianchi (105 negli Stati Uniti, 46 in Italia),
          mentre il cosiddetto ‘tasso di investimento in conoscenza’ che
          calcola spese per l’istruzione e per progetti di Ricerca e Sviluppo
          è di gran lunga il più alto del mondo. Risultato: dopo anni di crisi
          che avevano fatto ruzzolare il paese dal terzo al diciottesimo posto
          nella scala del benessere mondiale, la Svezia viaggia oggi ad un tasso
          di crescita del 4,5% annuo ed è forse il paese al mondo più pronto a
          trasformare le nuove tecnologie in nuova, lucrosa economia (come
          attestano anche indici scrupolosi e fantasiosi come quello che misura
          la ‘preparazione al futuro delle nazioni’, o quello delle prime
          dieci ‘IT countries in the world’). 
           
          Sono dati interessanti, ma non ancora i più interessanti: la Svezia
          infatti ha usato i lunghi anni di crisi per cambiare il pelo
          produttivo ma non il proprio, inguaribile vizio socialdemocratico;
          agli occhi del senso comune il case study macroeconomico più
          affascinante di questi ultimi anni non può quindi che apparire un
          controsenso, uno scherzo di natura, una stecca che contraddice l’onnipresente
          tema liberista in tutte le sue variazioni di destra e di sinistra.
          Perché in Svezia socialdemocrazia si legge ancora esattamente come si
          scrive, ovvero: le tasse più alte del mondo, una pressione fiscale
          che supera abbondantemente il 50% del prodotto interno lordo, un
          governo che non ha alcuna intenzione di cambiare la rotta dal momento
          che “in futuro - provoca il primo ministro - i paesi a basso carico
          fiscale saranno costretti ad aumentare le tasse per poter reggere la
          concorrenza dei paesi che investono molti soldi in istruzione e
          ricerca”. 
           
          Sugli svedesi e le tasse andrebbe scritto un romanzo. Al tempo dell’ultimo
          boom, sul finire degli anni ottanta, a certe condizioni l’aliquota
          fiscale poteva infatti raggiungere e superare il 100%: non restava
          quindi che scegliere se impiegare i risparmi per andare in vacanza o
          per restare in ufficio. Follia certo, cui giustamente si è posto
          rimedio e che giustamente ha lasciato il campo al buon senso di un’aliquota
          unica per il reddito d’impresa (28%) che può però raddoppiare e
          quasi triplicare quando dalle casse dell’azienda i soldi finiscono
          nelle tasche di dipendenti, dirigenti, imprenditori. E il romanzo
          continua: il 60% degli svedesi possiede azioni o quote di fondi di
          investimento. Ovviamente non c’è Borsa al mondo che sia tassata e
          tartassata come quella svedese: fatta 100 la pressione fiscale sulla
          Borsa finlandese (seconda in graduatoria) la Svezia arriva a 140, l’Italia
          a 60, la Germania segue in coda a 20. Eppure il primo ministro svedese
          rileva che è ora di aggiustare il tiro a favore dei più indigenti,
          perché “il 20% più benestante della società, anche grazie al
          corso estremamente positivo del mercato azionario, negli ultimi dieci
          anni si è arricchito moltissimo”. Tasse per tutti, quindi, tasse
          come il pane, tasse di un paese che non disdegna la concorrenza, ma
          non ha mai demonizzato le virtù dell’uguaglianza. Tasse scandalose?
          Tasse da rapina? Gli svedesi sembrano di tutt’altro avviso, forse
          anche perché hanno uno stato efficiente come una multinazionale e
          quando chiedo quanto costi frequentare il Royal Institute of
          Technology, prestigioso tempio delle tecnologie dell’informazione,
          la risposta è quasi scandalizzata: “Ovviamente nemmeno una corona”. 
           
          E’ la via nordica al nuovo mondo, che come il carattere degli
          svedesi sembra non avere bisogno di simboli, di manifesti teorici,
          della serie infinita degli esercizi retorici in cui la tara è sempre
          così tristemente preponderante sul netto. E’ la via svedese o
          meglio la via degli svedesi, perché il contribuente a Stoccolma è
          cittadino anche quando paga le tasse e se chiedo a Jakob Ehrensvard,
          testa e cuore di Cypak, una delle aziende hi-tech più quotate del
          momento, se non sia tentato di trasferirsi in qualche lontano paradiso
          fiscale, mi risponde serio che no, che “dopo avere tanto
          approfittato da bambino e studente dello stato sociale, ora è il
          momento di fare la mia parte e di contribuire a dare le stesse
          opportunità a chi sta crescendo ora”. Voce isolata? Imprenditore
          col cuore in mano? Karin Bjurel è un'altra dei tanti protagonisti di
          questa primavera svedese e, dopo aver lavorato per anni per il gigante
          americano Cisco Systems, è ora in forze a Effnet Group, che con Cypak
          e C-Technologies nel ’99 ha fatto incetta dei premi europei per l’innovazione
          tecnologica: tre svedesi ai primi tre posti. Ebbene, Karin preferisce
          parlare della sua azienda che del suo paese, mi spiega che in Svezia
          non è troppo ‘in’ essere patriottici, che si preferisce non
          sottolineare l’appartenenza nazionale “per non escludere i tanti
          immigrati che lavorano nel paese”. Eppure le scappa, le scappa
          così, quasi senza volerlo, il più bel complimento che si possa fare
          se non ad un popolo, certo ad un sistema sociale: “You don’t have
          poor people in Sweden…”. Chissà se è vero che in Svezia non ci
          sono i poveri, vero è comunque che nel paese del sole di mezzanotte
          nessuno è escluso dai frutti di quella pianta robusta cui da sempre
          lo stato dedica le più amorevoli cure. In Svezia l’alfabeto è
          davvero un bene che va diviso tra tutti. 
           
          Da Microsoft a Intel, da Motorola, a IBM, a Oracle, a Hewlett-Packard,
          sono tanti i colossi statunitensi del chip ad aver traversato l’Oceano
          per attingere ai tesori di scienza e conoscenza della nuova Svezia:
          chi si è quindi installato a Lulea, polo universitario a una
          cinquantina di chilometri dal circolo polare artico, chi nei dintorni
          industriali di Goeteborg, chi nel Ronneby soft center sulla costa
          meridionale del paese; chi, e sono tutti, ha comunque messo un piede
          alla periferia di Stoccolma nel parco scientifico di Kista. Secondo la
          rivista statunitense ”Wired” nel ’98 questo era il quinto polo
          tecnologico del mondo; secondo Beril Nyberg, che guida la società di
          gestione del parco, a due anni di distanza Kista ha ormai risalito
          quasi tutte le posizioni in classifica. 
          Kista era una vecchia servitù militare, dismessa dall’esercito e
          colonizzata nei primi anni settanta dai laboratori del gigante svedese
          Ericsson e da quelli del pari stazza americano IBM. Oggi si estende su
          più di duecento ettari, in cui operano 400 aziende informatiche e
          quasi 28.000 cervelli, 12.000 dei quali solo per la Ericsson che ha
          qui i suoi più importanti centri di ricerca. Ericsson ueber alles, a
          Kista: Ericsson business consulting, Ericsson infotech, Ericsson radio
          system, Ericsson mobile comunications; a interrompere la monotonia del
          marchio di casa quasi solo la timida insegna del “Silicon bar” e i
          caratteri cubitali dell’Hotel “Mr. Chip”. 
           
          La Svezia è il secondo paese al mondo per numero di pubblicazioni
          scientifiche pro capite, il primo per numero di brevetti: a Kista
          riflessioni e invenzioni trovano il modo di diventare prodotti. Senza
          troppa fantasia il parco alla periferia di Stoccolma è stato allora
          ribattezzato la “Silicon Valley svedese”, o, con un minimo scatto
          creativo, la nuova “Wireless Valley”; quanto al segreto del suo
          successo, alla domanda “perché proprio Kista?”, imprenditori di
          mezzo mondo rispondono con monotonia esasperante: “perché in Svezia
          trovi la gente migliore”. 
           
          Il viaggiatore italiano scende dalla metropolitana, si incammina lungo
          i viali del parco, apre gli occhi, spalanca le orecchie e comincia a
          sentirsi a disagio: tutto qui infatti smentisce le più incrostate
          idees recues del suo incrostato paese. Intendiamoci: oggi il paragone
          con la Svezia fa male a chiunque, non solo all’Italia; eppure all’Italia
          peggio che agli altri, perché il nostro paese - pensa il viaggiatore
          - si è ormai rassegnato ad attrezzarsi al meglio per la serie B del
          futuro: quella in cui non contano le finezze tecniche e le magie di
          palleggio, ma la sapienza nel sferrare i colpi bassi senza farsi
          troppo vedere. Nel paese da cui proviene il viaggiatore lo stato è un
          intoppo e il modello svedese può al massimo essere buono per virarlo
          al contrario: piccole imprese, poche tasse, bassi stipendi, pochi
          diritti, si salvi chi può. Strano: Kista è uno dei centri del nuovo
          mondo e trasuda gratitudine per Ericsson: colosso da 100.000
          dipendenti, 45.000 miliardi di fatturato, 120 miliardi di dollari di
          capitalizzazione in Borsa; e gratitudine per lo Stato: colosso che ha
          messo le mani sul 56% dell’economia del paese per garantire da Lulea
          a Malmoe pace sociale e conoscenza diffusa. Ma nel paese da cui
          proviene il viaggiatore se si parla di scuole è per parlare di preti,
          se si parla di pace sociale è per parlare di marocchini di troppo. 
           
          Oltre Silicon Valley a Kista c’è…Kista: agglomerato periferico di
          30.000 abitanti, disposto a ridosso delle rotaie della metropolitana e
          composto per il 40% di lavoratori immigrati con famiglia al seguito.
          Grazie alla metropolitana Kista è divisa in due da un taglio
          nettissimo: a destra i maghi del futuro, a sinistra quelli che
          stentano a far quadrare i conti del presente. Eppure non saremmo in
          Svezia se la Svezia finisse prima di svoltare a sinistra: a destra
          infatti Kista è un miscuglio di etnie in giacca e cravatta, a
          sinistra un miscuglio di etnie in jeans e pullover; a destra un lungo
          viale porta al palazzone del Royal Institute of Technology, a sinistra
          bastano pochi metri per arrivare alla biblioteca del quartiere, che
          offre libri per tutte le età, giornali in tutte le lingue e accesso
          gratuito ad Internet; a destra verso nord si dipanano viali curati,
          marciapiedi tirati a lucido, un dolce alternarsi di colline, cemento e
          nuovamente colline, a sinistra verso sud le stesse, identiche cose. 
           
          Tra le due Kista c’è un confine e si vede, perché lungo le rotaie
          della metropolitana corrono i due estremi della scala sociale. Ma pur
          essendo nettissimo il taglio è ben lungi dal dividere un’oasi di
          benessere dal girone dei disperati; forse perché siamo a Kista, o
          forse perché siamo in Svezia, paese nel quale lo stato raccoglie da
          sempre risorse, tante risorse, per lavorare al confine: non per
          abbatterlo, ma per abbatterne l’altezza e l’asprezza. 
           
          Si viene a Kista in pellegrinaggio, per osservare al lavoro il cuore
          pulsante della nuova Svezia; vi si viene ad ammirare il polo
          tecnologico in cui sta bollendo la zuppa del nostro futuro: qui ad
          esempio Ericsson ha messo a punto la tecnologia UMTS con cui i nostri
          cellulari comunicheranno da qui a due anni. Ma dopo un primo giro di
          ricognizione ci si accorge che il cuore della nuova Svezia è quello
          di sempre e batte ancora a sinistra: dall’altra parte del confine,
          dove in uno dei quartieri più popolari di Stoccolma un asilo nel
          verde offre a bambini gialli, neri e bianchissimi i colori con cui
          cominciare a disegnare il loro futuro. Il direttore del parco
          scientifico ne è convinto: “ora sono figli di immigrati, ma fra
          qualche anno in molti passeranno dall’altra parte a confondersi tra
          i nostri studenti”. 
           
          E’ un bel segreto, quello dell’altra Kista, il segreto di un paese
          che da sempre combatte la povertà con le armi dell’alfabeto.
          Qualche giorno prima di arrivare a Stoccolma, a Riga, all’ultimo
          piano della Biblioteca nazionale avevo visto il primo Abecedario
          lettone: risale al 1680 e la didascalia riferisce che “negli anni
          della dominazione svedese le autorità diffusero la cultura tra i
          contadini superando le resistenze della nobiltà tedesca”. 
           
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