Ritratto notturno
Francesco Roat
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La poesia - così come l’espressività artistica in genere - può
rappresentare una realtà a parte, costituire appena la torre d’avorio
in cui si confina un autore per fuggire la “volgarità” del vivere
ordinario? Può la parola poetica limitarsi alla mera forma, seppure
sublime, all’artificio, all’assolutamente altro rispetto al mondo
e a tutto ciò che non è letterario, riducendosi a esorcismo
consolatorio e regressivo?
Io credo di no, al contrario di quanto invece mi sembra emerga da “Ritratto
notturno”, seconda prova narrativa di Nicola Lecca, edita da
Marsilio e incentrata sul soliloquio di un’anziana poetessa
misantropa nonché velleitaristicamente reazionaria nel suo
pessimistico antimodernismo (“penso che bisognerebbe tornare al
Medioevo”) e incline a sentenziare al plurale (“noi tutti viviamo
l’apocalisse senza saperlo; il nulla invade i nostri spazi di giorno
in giorno”) quando sarebbe più credibile limitandosi alle geremiadi
in prima persona.

Ancora: madame Anne-Rose D. preferisce la notte al giorno rifugiandosi
nell’oblio di un onirismo allucinato che rappresenta una realtà
fittizia, quantunque per lei più reale della vita diurna. Ultimo
tratto caratterologico: la poetessa, dopo un amore sfortunato con un
giovane (il quale, proprio come lei, “odiava profondamente il mondo”
e per questo è finito suicida), ritenendo che “non è più utile
vedersi, sfiorarsi”, si ripiega ancor di più in se stessa per
dedicarsi alla poesia, risolta peraltro attraverso una scrittura
algida, dai toni assai retorici.
Questo è quanto. Il resto è silenzio, aggiungerei rubando la battuta
ad Amleto, giacché la trama del romanzo si riduce alla sottolineatura
di questi pochi dati biografici e ad un estetismo alquanto deteriore.
Il resto è una serie di melodrammatiche variazioni sul tema, e non a
caso; la musica - come l’arte tutta - è argomento prediletto da
Lecca fin dal suo primo libro di racconti “Concerti senza orchestra”.
Una musica qui soprattutto tardoromantica (Anne-Rose D. ama ascoltare
Wagner, Mahler e Richard Strauss) che assume una connotazione
misticheggiante, esercitando altresì un ruolo compensativo nell’arginare
il vuoto di una “tisi interiore” che intristisce e consuma la
nostra affranta signora.
Però, rispetto a “Ritratto notturno”, - prosa dalle ambizioni
metaromanzesche, infarcita com’è da riflessioni intorno alla
scrittura - il problema è altro e oltre l’esiguità dell’intreccio.
Ossia: qual è il messaggio estetico che Lecca vuole trasmetterci? Se
esso è quello proposto dalla protagonista, non saprei quanto ci sia
da salvare in una poetica all’insegna di un'espressività tra l’aristocratico
e il decadente, che predilige la poesia e l’arte come antidoto alla
prosaicità del quotidiano e come ripiegamento narcisistico in grado
di donarci “momenti di estasi”. Poesia e parola come artificio,
appunto, come bella scrittura. Ma tutto ciò non basta alla riuscita
di un romanzo; come non basta Lecca sappia scrivere bene, possegga
notevoli capacità descrittive e sia in grado di creare un climax
narrativo coinvolgente intorno ai rovelli di un personaggio che forse
sarebbe più plausibile se calato fra l’otto e il novecento e che
comunque non risulta certo esemplare della crisi della modernità
sulla soglia del nuovo millennio, come enfatizza il risvolto di
copertina.
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