Il Surrealismo, una filosofia della
vita
Arturo Schwarz
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surrealisti
Il Surrealismo, una
filosofia della vita
1. Notula preliminare
Sono uno degli ultimi Mohicani nel senso che credo di essere tra i
pochi sopravvissuti tra quelli che hanno lavorato con André Breton,
conosciuto la maggior parte dei pittori che presento in questa
mostra, partecipato all’esaltante avventura surrealista e vissuto
una stagione profondamente coinvolgente ed emozionante. Questo mio
testo non sarà quindi un lavoro scientifico o accademico; ad
esempio, le schede biografiche per ogni artista non saranno la
compilazione dei dati che, comunque, si trovano già in qualsiasi
dizionario dell’arte contemporanea. Saranno invece basate sui miei
ricordi personali, sulle impressioni avute dalla frequentazione dei
maggiori artisti e poeti del nostro tempo che, non a caso, furono
anche i più impegnati. Un dato che non si trova mai nei dizionari
biografici, ma che invece in questo caso è di grande importanza, è
da me sempre segnalato, e cioè la partecipazione dell’artista
alle grandi mostre collettive organizzate dal movimento surrealista.
Mi si permetta una nota personale: sono nato nel 1924, 78 anni fa,
ad Alessandria d’Egitto nel mese di febbraio, e cioè lo stesso
mese di nascita di André Breton, mentre fu proprio nel 1924 che
venne pubblicato il primo Manifesto del Surrealismo. Ho
iniziato a corrispondere con Breton, che allora risiedeva a New
York, nel 1944. Gli inviai le mie poesie e gli espressi la mia
ammirazione per il poeta e l’uomo che, negli anni in cui
imperversava lo stalinismo più acceso, si era schierato, sin dal
1936, in difesa di Léon Trotsky (l’ortografia è quella dei suoi
biglietti da visita, uno dei quali, con il suo autografo che doveva
servirmi da lasciapassare, conservo tutt’ora). Breton ci ha
lasciato nel 1966, in seguito a una crisi d’asma, ma non per
questo il Surrealismo è morto con lui.
Avrei dovuto intitolare questa mostra “Max Ernst e alcuni
dei suoi amici surrealisti”. Infatti i rapporti tra i componenti
del gruppo surrealista erano così stretti e cordiali che tutti
frequentavano tutti. Ma ragioni di spazio mi hanno imposto di far
figurare qui soltanto gli amici della prima ora (con l’eccezione
dell’allora giovane Konrad Klapheck). Così sono assenti, per
citare soltanto gli italiani, l’indimenticabile Giordano Falzoni
che oltre a essere un finissimo pittore ha tradotto esemplarmente
per Einaudi le poesie di André Breton; Fabio De Sanctis e Ugo
Sterpin ai quali Breton dedicò uno dei suoi ultimi saggi raccolto
nel suo Il Surrealismo e la pittura; infine Enrico Baj, il
quale, però, non si riconosce più nella filosofia del Surrealismo.

Max Ernst
Petite Horde, 1927
Olio su tela, 19,5 x 24,5 cm
Se gli artisti presenti in questa mostra sono tra i maggiori
creatori del secolo trascorso è proprio perché sono stati
impegnati, hanno vissuto la nostra tragedia, e ognuno di loro ha
saputo esprimerla in modo proprio. Questa circostanza sfata il mito
dell’esistenza di uno “stile” surrealista - il più delle
volte identificato con quello di Dalí, e cioè proprio con colui
che è stato surrealista solo per un brevissimo periodo per poi
rinnegarsi e ripetere sempre gli stessi cliché. Infatti non vi è
nulla che possa accomunare - a livello dell’immaginario e della
scrittura pittorica - l’opera di Miró e Max Ernst, di Brauner e
Tanguy, di Arp e Giacometti, di Matta e Lam, di Duchamp e Breton, di
Delvaux e Magritte, di Meret Oppenheim, Jacqueline Lamba e Dorothea
Tanning, di Remedios, Toyen ed Elsa von Freytag-Loringhoven, di Man
Ray e Masson, o di Klapheck e Picabia. Nulla di comune per una
ragione semplicissima: ognuno di questi artisti ha obbedito al
consiglio che dà Polonius a suo figlio ne l’Amleto: “Con
te stesso sii sincero, e come al giorno segue la notte, non potrai
essere falso con nessuno”. Così ognuno di loro ha espresso il
proprio mondo interiore, un mondo che è sempre squisitamente
individuale e quindi irripetibile.
Il Surrealismo non è stato una nuova scuola letteraria, una nuova
corrente artistica, o un nuovo movimento politico. Il Surrealismo è
un’altra filosofia della vita che ha fatto sua l’ingiunzione
scolpita sul corridoio del tempio di Apollo a Delfi: gnothi
seauton, e cioè conosci te stesso. Infatti il surrealista ha l’ambizione
smisurata di cambiare il mondo e la vita, ma capisce che per
riuscirci è prima necessario capire se stesso. Non si può
pretendere di trasformare il mondo e la vita se non si è cambiato
se stessi. Questo implica conoscersi, esplorare il proprio
inconscio, che, come la parte sommersa dell’iceberg, rappresenta i
nove decimi della nostra personalità.
Da qui l’interesse del surrealista per ogni fenomeno che aiuti a
scoprire il nostro Io più profondo. Si spiega così l’importanza
data al sogno, agli stati psicopatologici, alla scrittura e pittura
automatica, e cioè eseguita senza alcun controllo o censura di
carattere etico o estetico. L’indagine rivelerà il ruolo
iniziatico della donna e dell’amore. Infatti la conoscenza del Sé
implica la presa di coscienza del fatto che siamo tutti, a livello
psichico, androgini, maschio e femmina allo stesso tempo. Essere
governati esclusivamente dal principio femminile o maschile
significa essere unilaterali e quindi esistere nell’errore. Non a
caso tutte le divinità sono androgine: l’essere solo maschio o
solo femmina implica la metà della perfezione. La perfezione è
raggiunta soltanto quando il maschile e il femminile convivono in un
solo essere. Per dirla con Mao, la donna rappresenta l’altra metà
del cielo. Oppure, per citare un testo della kabbalah, la donna è
il futuro dell’uomo, così come l’uomo è il futuro della donna.
Si raggiunge questa consapevolezza soltanto se si ha la fortuna di
amare follemente ed essere ricambiati con uguale passione. Infatti
solo così l’amante, identificandosi con il proprio partner,
potrà scoprire l’altra metà della propria personalità.
Dato il rilievo che assumono nel logos e nella praxis surrealista la
donna e l’amore, conviene soffermarcisi per un attimo.
2. La visione surrealista della donna e dell’amore
“Questa parola amore, a cui gli spiriti di cattivo gusto si
sono
ingegnati a far subire tutte le generalizzazioni e tutte le
corruzioni
possibili (amore filiale, amore divino, amore della patria ecc.),
viene da noi qui ricondotta, è inutile dirlo, al suo senso stretto,
e minaccioso, di attaccamento totale a un essere umano, fondato
sull’imperioso riconoscimento della verità ‘in un’anima e in
un
corpo’ che sono l’anima e il corpo di quest’essere.”
(Breton 1929, p. 65)
La concezione surrealista dell’amore si inscrive nella stessa
visione olistica che caratterizza il pensiero kabbalistico e
alchemico. Gli amanti che si ritrovano e si uniscono nella stretta
carnale e spirituale realizzano il mito dell’androgino e sono le
due componenti di una “dualità non duale”; sono, per riprendere
le parole di Benjamin Péret, “un essere doppio, perfetto,
singolo, che forma un’unità di felicità umana” (Péret 1956,
p. 49).
Da ciò derivano due corollari di pari importanza: l’amore fisico
e l’amore spirituale sono due aspetti complementari di uno stesso
fenomeno; l’amore, folle o sublime, è collocato sotto il segno
delle affinità elettive e può investire solo un unico essere. La
donna è, di conseguenza, il centro magnetico della vita, dell’etica,
della poetica e dell’estetica del Surrealismo, nella misura in cui
questi termini ne costituiscono uno solo. Breton dirà: “Nel
Surrealismo, la donna sarà stata amata e celebrata come la grande
promessa, quella che rimane dopo essere stata mantenuta. Il segno di
elezione che è posto su di essa e che vale per una soltanto (a
ciascuno spetta di scoprirlo) basta a fare giustizia del preteso
dualismo tra l’anima e la carne. A questo livello è assolutamente
certo che l’amore carnale e l’amore spirituale sono una sola
cosa. L’attrazione reciproca deve essere abbastanza forte da
realizzare, attraverso una complementarità assoluta, l’unità
integrale, a un tempo organica e psichica [...]. È effettivamente
in gioco, qui più che altrove, in primo luogo, la necessità della
ricostruzione dell’Androgino primordiale, su cui tutte
le tradizioni ci intrattengono, e la sua incarnazione, sovranamente
desiderabile e tangibile, attraverso di noi” (Breton
1953, pp. 359-360, i corsivi sono di Breton).
Dobbiamo leggere le affermazioni di Fourier, Heine e Breton alla
luce del mito dell’androgino: “l’amore ci identifica con la
Divinità” (Fourier 1816, p. 15); “l’amore è un veemente
tentativo di deificarci” (Heine 1929, p. 70). Per Breton l’amore
sessuale è la “realizzazione ideale delle unità della
contraddizione [e restituirà] all’uomo tutta la potenza ch’egli
è stato capace di caricare sul nome di Dio” (Breton 1940, p. 97).
L’amore conferisce all’individuo l’onnipotenza usurpatagli
dalla divinità. “Tutta la potenza di rigenerazione del mondo
risiede nell’amore umano” (Breton 1947a, p. 78).
L’individuo deve lottare per la realizzazione della felicità per
se stesso, e su questa terra. Il “domani si farà credito” del
cristianesimo e dell’islam deve essere sostituito da “l’amore
oggi e qui”.. Per dirla con Fourier: “il culto dell’armonia
dovrà dare, fin da questa vita, ciò che le religioni civilizzate
promettono per l’altra. Soltanto a questa condizione egli [l’uomo]
potrà diventare ‘unitario’” (Fourier 1816, p. 16). Breton
ribadirà che l’educazione religiosa “veglia affinché l’essere
umano sia sempre pronto a differire il possesso della verità e
della felicità, a riportare ogni velleità di compimento integrale
dei propri desideri in un aldilà fallace” (Breton 1937, pp.
75-76).
L’allusione all’individuo “unitario” presente in Fourier
rinvia di nuovo all’androgino mitico a cui Péret e Breton, fra
gli altri, si riferiscono per puntualizzare la natura unica e
reciproca dell’emozione che unisce gli amanti: “A ogni uomo non
può che corrispondere una sola donna che diventa, secondo l’espressione
comune, la sua ‘metà’; ciò suppone che essi, riuniti, formino
un tutto [...]. Il colpo di fulmine, per quanto popolare sia
diventata questa espressione - oggi in declino - esprime con
precisione la natura accecante del fenomeno di riconoscimento dell’essere
desiderato, la cui complementarità è stata improvvisamente
intravista” (Péret 1956, pp. 23-25).
Breton erotizza il concetto platonico della sfera androgina,
sostenendo che ogni essere umano è “stato gettato nella vita alla
ricerca di un essere dell’altro sesso e di uno soltanto, che gli
sia pari sotto tutti gli aspetti al punto che uno dei due senza l’altro
sembri prodotto di una dissociazione, di una dislocazione di un
unico blocco di luce. Felici fra tutti coloro che riescono a
ricostituire questo blocco” (Breton 1947a, p. 39).
Breton non ha mai smesso di riaffermare, in termini che sembrano
direttamente ispirati dalla tradizione esoterica materialista, i
quattro punti cardinali dell’orientamento surrealista in materia
di amore: i ruoli della donna, dell’amore, del desiderio e dell’affinità
elettiva. Al primo posto troviamo l’esaltazione dell’eterno
femminino: la donna è la grande iniziatrice, l’innamorata. È lei
a portare la salvezza, cioè la luce della conoscenza ctonia e la
felicità della passione ricambiata.
Per Breton la donna amata è “la pietra angolare del mondo
materiale” (Breton 1932, p. 8); essa divide con la divinità la
virtù della “giovinezza eterna” (Breton 1947a, p. 135), perché
“il tempo non ha presa su di lei” (Breton 1947a, p. 94). E se
Breton ritiene che un giorno si affermerà trionfalmente “l’idea
della salvezza terrestre attraverso la
donna” (Breton 1947a, p. 70, il corsivo è di Breton), è
proprio perché “l’amore rischiara il mondo” (Breton 1924, p.
116), “l’amore e le donne sono la soluzione più chiara di tutti
gli enigmi” (Breton 1933, p. 25). Solo con le risorse dell’amore,
della poesia e dell’arte “il pensiero umano riuscirà a
riprendere il largo” (Breton 1947a, p. 47).
L’amore, l’arte e la poesia sono strumenti di conoscenza
privilegiati, devono essere perseguiti per se stessi, senza un
secondo fine utilitario. Breton dice che non ha cercato la felicità
nell’amore “ma l’amore” (Breton 1952, p. 220) ed esclama:
“ho anche conosciuto la pura luce: l’amore dell’amore” (Breton
1927, p. 13). Dieci anni dopo, scriverà ancora: “Il mondo intero
si rischiarerà di nuovo perché ci amiamo, perché una catena di
illuminazioni passa attraverso di noi” (Breton 1937, p. 132).
L’amore-illuminazione. Questo concetto, che corre come un filo
rosso lungo tutti gli scritti surrealisti (come nella letteratura
kabbalistica e alchemica), è sovversivo al massimo grado. Esso
spiega l’interdetto sull’amore che vige, non da oggi soltanto,
in tutte le società totalitarie; “ogni nostra teoria deve
occuparsi della restaurazione dell’amore, la sola passione bandita
dai civilizzati”.. Queste parole non sono state scritte da un
surrealista, ma, all’inizio del XIX secolo, da Charles Fourier (Fourier
1816, p. 326).
Se l’amore è associato alla conoscenza e all’intuizione
poetica, è naturale che la poetica e l’estetica del Surrealismo
siano collocate sotto il segno del femminile. Breton chiederà che
“l’arte ceda risolutamente il passo al preteso irrazionale
femminile, che considera come nemico irriducibile tutto ciò che,
con l’arroganza di presentarsi sicuro e solido, porta in realtà
il marchio dell’intransigenza maschile che, sul piano delle
relazioni umane su scala internazionale, oggi [1944] mostra a
sufficienza di che cosa sia capace” (Breton 1947a, pp. 89-90).
Una concezione tanto esigente dell’amore e della donna conduce a
una serie di corollari; i primi due comportano che l’oggetto di un
tale amore reciproco non possa che essere unico e che l’investimento
emotivo e carnale sia portato all’intensità più elevata. “Ogni
volta che un uomo ama, non può fare niente che non impegni insieme
con lui la sensibilità di tutti gli uomini. Per non demeritare
della loro stima egli deve impegnarsi fino in fondo” (Breton 1937,
pp. 15-16).
Soltanto quando l’amore elettivo è reciproco e totale siamo in
presenza di quello “stato di grazia” capace di trasformare l’individuo
e, attraverso di lui, l’universo. “Nell’amore elettivo risiede
la più alta visione umana e anche quella che trascende tutte le
altre” (Breton 1952, p. 140). “Il dono assoluto di un essere a
un altro che non può esistere senza reciprocità [è] la sola
passerella naturale e soprannaturale gettata sulla vita” (Breton
1937, pp. 120-121).
Breton riconosce volentieri che “l’idea dell’amore unico
deriva da un’attitudine mistica” (Breton 1937, p. 1), ma non
dimentichiamo che si tratta di una mistica razionale quanto carnale;
e che essa attinge le sue ragioni d’essere più certe nel pensiero
kabbalistico e alchemico e in particolare nella loro concezione dell’androgino.
Siccome la speranza che il Surrealismo ripone nell’amore e nella
donna prevede che l’amore sia elettivo, totale e reciproco, l’amore
fisico e quello spirituale non potranno essere opposti l’uno all’altro.
Quando Breton scrive: “È assolutamente certo che l’amore
carnale e l’amore spirituale sono una sola cosa” (Breton 1953,
pp. 359-360), il suo pensiero coincide ancora una volta con quello
di Eliphas Levi, che rifiutava l’antinomia corpo-spirito: “Spirituale
e corporale sono aggettivi, esprimono appena il grado di tenuità o
densità della sostanza” (Levi 1855-56, p. 85).
Non è difficile trovare nell’enunciazione di Breton un’eco di
questo ragionamento di Fourier: “La natura vuole l’equilibrio
dei due elementi di amore: il piacere sensuale e il piacere
sentimentale. È servire male la causa del sentimento, degradare il
materiale, con l’atteggiamento chiamato comunemente cinismo,
concupiscenza o indecenza, e dico che anche l’amore puro, chiamato
sentimento, altro non è che visione o gioco di abilità presso
coloro dai quali non è soddisfatto il materiale, e che si può
elevare il sentimento al grado trascendente solo attraverso la piena
soddisfazione del materiale” (Fourier 1816, p. 34).
Ascoltiamo ora Breton: “Ho optato, in amore, per la forma
passionale ed esclusiva che tende ad allontanare da sé tutto ciò
che sa di compromesso, capriccio e disordine marginale [...]. Io
affermo e sono certissimo che questo stato di grazia risulta dalla
conciliazione in un solo essere di tutto ciò che può essere
atteso dall’esterno e dall’interno e che esso esiste a
partire dall’istante unico in cui, nell’atto d’amore, l’esaltazione,
al culmine del piacere dei sensi, non si distingue dalla
realizzazione folgorante di tutte le aspirazioni dello spirito. L’atto
d’amore, allo stesso titolo che il quadro o il poema, si
squalifica se non prevede l’entrata in trance da parte di
chi vi si abbandona” (Breton 1947a, pp. 203, 205, 220, i corsivi
sono di Breton).
In termini altrettanto decisi Breton rifiuta un pregiudizio radicato
nell’animo dei contemporanei: “Non c’è sofisma più temibile
di quello che presenta il compimento dell’atto sessuale come
accompagnato necessariamente dalla caduta di potenziale amoroso fra
due esseri, caduta che, ripetendosi, li trascinerebbe
progressivamente a non bastarsi più. L’amore, in questo modo, si
esporrebbe alla rovina proprio nella misura in cui perseguisse la
stessa realizzazione. Niente è più insensibile e desolante di
questo concetto. Non ne conosco altri così diffusi e, nello
stesso tempo, maggiormente in grado di rendere l’idea della grande
miseria del mondo attuale” (Breton 1937, pp. 134-135, il corsivo
è di Breton).
Nel quadro di questa visione olistica dell’amore fisico e
spirituale, è chiaro che spetterà all’erotismo la parte di
agente conciliatore delle polarità, non solo sessuali. Come lo
spirito si fa carne - per reinventare l’amore - così la carne si
fa spirito per realizzarne i sogni più folli. Le tradizioni
esoteriche materialiste ritornano instancabilmente su questa
esigenza. Per l’alchimia, come per la kabbalah, il tantrismo, il
taoismo e lo zen, il primo precetto è di colmare la frattura fra
teoria e pratica: non si potrebbe edificare un’opera spirituale
senza un supporto materiale; non si riuscirebbe a trasformare l’individuo
senza l’apporto di quello strumento di conoscenza e di
trasformazione che è l’amore.
“Derivando dalle aspirazioni primordiali più potenti dell’individuo,
l’amore sublime offre una via di trasmutazione che sbocca nell’accordo
della carne con lo spirito e tende a fonderli in un’unità
superiore dove l’una non può essere distinta dall’altro. Il
desiderio si vede incaricato di operare questa fusione, che
costituisce la sua giustificazione ultima” (Péret 1956, p. 20).
Benjamin Péret scriverà ancora: “L’amore sublime implica il
grado di elevazione più alto, il punto-limite dove si opera la
congiunzione di tutte le sublimazioni, qualsiasi via esse abbiano
preso, il luogo geometrico dove vengono a fondersi, in un diamante
inalterabile, lo spirito, la carne e il cuore. La sessualità
subisce invece una metamorfosi dal momento in cui si inscrive in un
complesso nel quale il cuore diventa l’elemento catalizzatore. L’erotico
che ne risulta non ha quasi niente in comune con i suoi stati
anteriori. Mentre le altre forme di amore si accontentano di esseri
successivi e anzi li richiedono, l’amore sublime, una volta
scoperto l’oggetto della sua ricerca, vi si fissa per sempre,
illustrando così i concetti cinesi di yin e di yang che,
inoperanti l’uno senza l’altro, si chiamano e si completano a
vicenda: ‘il cielo e la terra uniti insieme, dolce cade la rugiada’,
dice il Tao. Proprio su questa perfetta complementarità, colta
intuitivamente, poggia l’amore sublime ed è dal possesso dell’essere
complementare che discende la felicità reciproca” (Péret 1956,
pp. 9-10).
Péret associa alla fusione delle polarità, che sono, qui, lo
spirito e la carne, la nozione che tale fusione non può aver luogo
che nel crogiolo dell’amore unico, dell’amore elettivo. Al fuoco
della passione, la sessualità diventa erotismo e l’erotismo si
identifica con l’amore. “La riabilitazione della carne,
riconosciuta in tutto il suo splendore, senza la quale la nozione
stessa di amore sublime scompare, è esattamente uno dei grandi
obiettivi che il surrealismo si è prefisso in questo campo. Così,
il fantasma ghignante del peccato si è dissolto alla luce del
giorno rischiarato dalla bellezza della donna” (Péret 1956, p. 67).
Se uno degli assi portanti del pensiero surrealista è, sul piano
filosofico, la confutazione della logica aristotelica e cartesiana,
altrettanto definitiva, sul piano dell’etica, è la negazione
della morale cristiana. Breton scriverà, fra l’altro: “Io
rifiuto tutta la dogmatica masochistica del cristianesimo, fondata
sull’idea delirante del peccato originale nonché la concezione
della salvezza in un altro mondo, con tutti i sordidi calcoli che
essa vi annette” (Breton 1948, p. 261).
Per il cristianesimo e l’islam, la donna, il sesso e la conoscenza
sono le cause della caduta dell’uomo, della perdita dell’immortalità
e dell’espulsione dal paradiso. È significativo che questa “morale”
identifichi in Eva tutto ciò che è inferiore e nefasto e
attribuisca alla donna la responsabilità di tutti i nostri mali.
Mentre per l’ebraismo Adamo e Eva sono cacciati dal paradiso non
perché hanno colto il frutto della saggezza - che era loro
destinato comunque - ma per averlo colto troppo presto, per il
cristianesimo e l’islam la colpa non è l’impazienza, ma è la
donna colpevole per aver voluto assaporare il frutto proibito,
che offre ad Adamo insieme al suo amore e alla sua nudità,
instaurando così il mito del peccato originale, concetto questo che
non è mai esistito nelle scritture sacre o esegetiche dell’ebraismo.
Così l’amore e la conoscenza sono per queste due fedi due peccati
mortali. Al contrario, la filosofia dei testi kabbalistici,
alchemici e surrealisti è riconducibile al doppio imperativo del
culto dell’amata e dell’aspirazione alla conoscenza. Queste tre
ideologie riconoscono nella donna la fonte della vita, dell’amore
e dell’estasi trascendentale, la grande promessa che porta con sé
l’energia vitale e la consapevolezza.
Va da sé che l’amore unico e reciproco è incompatibile con i
facili costumi. L’amore, quando è sublime, è esigente; quindi
“il libertinaggio è il peggiore nemico di un tale amore elettivo
[perché] rende impossibile la sublimazione” (Breton 1952, p.
128). Péret, a sua volta, sottolinea che, quando la libertà
sessuale è dissociata dall’amore, “invece di moltiplicare le
possibilità di elezione, conduce alla formazione di un terreno di
non scelta che costituisce un nuovo ostacolo al trionfo dell’amore
sublime. Il baluardo dei pregiudizi sessuali è stato abbattuto, ma
esso nascondeva un pantano, prima insospettabile, nel quale gli
esseri rischiano di sprofondare. La licenza sessuale senza
orizzonti, a differenza dell’elevazione alla quale invita l’amore
sublime, può solo diminuire l’essere umano” (Péret 1956, p. 64).
E ancora: “Il libertinaggio è, da un certo punto di vista, una
disfatta dell’immaginazione: questa è incapace di reinventare la
donna amata” (Schuster 1969, p. 29). Mentre - è Breton che
parla alla donna amata - “poiché tu sei unica, non puoi evitare
di essere per me sempre un’altra, un’altra te stessa” (Breton
1937, pp. 118-119). “Sempre e a lungo, le due
grandi espressioni nemiche che si fronteggiano non appena si parla
di amore [...]. A dispetto di tutto e contro tutto, io continuerò a
sostenere che questo sempre è la grande chiave. Ciò che ho
amato, l’abbia o no conservato, l’amerò sempre” (ibid.,
p. 137, i corsivi sono di Breton).
È stato impossibile parlare di amore sublime senza evocare la
libertà. Proprio qui sta una delle ragioni che spiegano l’importanza
che l’amore assume per i surrealisti. Due secoli fa Eliphas Levi
notava: “L’uomo è colui che deve amare per vivere e che non
può amare senza essere libero” (Levi 1855-56, p. 36). Ciò
spinge Péret a dichiarare che l’amore sublime è, in primo luogo,
“una rivolta dell’individuo contro la religione e la società,
che si spalleggiano a vicenda” (Péret 1956, p. 21). Ogni lotta
per la realizzazione dell’amore è così al tempo stesso la lotta
per una società libertaria. “L’amore sublime, centro vivente
delle rivendicazioni dei poeti romantici, riassume tutte le altre
rivendicazioni, comprese quelle sociali” (ibid., p. 62).
Allo stesso modo Fourier aveva puntualizzato il rapporto speculare
fra amore e libertà e osservava, muovendo dal generale al
particolare, che il progresso sociale è in funzione dell’emancipazione
della donna. “I progressi sociali e i cambiamenti d’epoca si
operano secondo i progressi delle donne verso la libertà; e le
decadenze di ordine sociale si operano in ragione della diminuzione
della libertà delle donne [...]. L’estensione dei privilegi delle
donne è il principio generale di ogni progresso sociale” (Fourier
1808, p. 147). Anche per Fourier la felicità, in una
società che può essere solo libertaria, si fonda, in ultima
istanza, sul ruolo che si destinerà all’amore: comprenderne la
natura significa essere già sulla strada che conduce alla
realizzazione dell’armonia individuale e sociale: “Un errore
commesso nella teoria d’amore basta da solo a rovesciare tutta l’impalcatura
della politica e della morale civilizzata” (Fourier 1822, IV, p.
61).
Per realizzare quanto sia attuale il Surrealismo basti ricordare che
la sua visione ecologica del Tutto non ha altro scopo che di sanare
il duplice iato tra le polarità donna-uomo, e individuo-cosmo;
così facendo esso frantuma la rigida struttura del razionalismo
pragmatico sostituendo, alla camicia di forza imposta ai nostri
sogni, una visione mitico-poetica in cui l’amore è la dimensione
emotiva dell’istinto sessuale così come l’erotismo ne è la
dimensione estetica.
3. Campanello d’allarme
Si chieda, non solo all’uomo della strada, il nome di un
surrealista e nove volte su dieci salterà fuori quello di Dalí: la
personalità cioè che più ha contribuito ad accreditare una
visione fittizia d’un movimento vasto e complesso rispetto al
quale l’artista spagnolo fu una presenza effimera e marginale.
Il Surrealismo volle essere, lo si è detto, una filosofia della
vita, un modo di essere, pensare, agire, riflettere, in entrambi i
sensi, i fatti dell’esistenza e della storia. Si deve anche
parlare dello sguardo surrealista, sguardo sul mondo mentale,
materiale e invisibile, sguardo sull’amore, sull’arte, sulla
poesia, sulla rivoluzione.
Fedeli all’esigenza espressa da Marx: “i filosofi sinora hanno
interpretato il mondo, si tratta ora di trasformarlo”, e alla
parola d’ordine di Rimbaud: “cambiare la vita”, la riflessione
surrealista trova la propria ragione d’essere nell’attuazione di
queste due premesse ideali.
Già nel primo manifesto Breton precisava che il Surrealismo ebbe l’ambizione
di essere innanzitutto strumento di conoscenza e che si proponeva di
raggiungere una migliore comprensione dell’essere umano - premessa
inderogabile all’azione - attraverso l’esplorazione del mondo
sommerso rivelata dalla psicanalisi freudiana. Egli scriveva: “Il
Surrealismo si fonda sull’idea di un grado di realtà superiore
connesso a certe forme d’associazione finora trascurate; sull’onnipotenza
del sogno, sul gioco disinteressato del pensiero. Tende a liquidare
definitivamente tutti gli altri meccanismi psichici e a sostituirsi
a essi nella risoluzione dei principali problemi della vita” (Breton
1924, p. 30).
Pochi anni dopo ribadisce: “Tutto lo sforzo tecnico del
Surrealismo, dalle origini fino a oggi, è consistito nel
moltiplicare le vie di penetrazione negli strati più profondi del
mentale. Dico che bisogna essere veggenti, farsi
veggenti: per noi si tratta soltanto di scoprire i mezzi e mettere
in pratica questa parola d’ordine di Rimbaud (Breton 1935, p. 206,
il corsivo è di Breton).
Nella prospettiva surrealista la conoscenza è un processo che si
identifica con i propri scopi: libertà e amore. Per realizzare la
pulsione irresistibile verso la libertà bisogna conoscere, e per
conoscere bisogna amare. La conoscenza, la libertà e l’amore si
concepiscono dunque soltanto in rapporto l’uno con l’altro.
Ciascuno di questi tre termini non è che il lato di un triangolo
che non potrebbe esistere senza gli altri due. E come l’amore è,
a un tempo, strumento di conoscenza e di libertà, l’arte (come la
poesia) è amore e illuminazione. Un triangolo che l’intervento
dell’arte trasforma in quadrato, allegoria della pietra
filosofale, e pietra angolare della vita.
La conoscenza è la condizione preliminare alla libertà. Per questo
Breton ricorderà: “La ricerca appassionata della libertà è
stata l’impulso continuo che ha mosso l’azione surrealista” (Breton
1942, p. 68); “Il Surrealismo ha voluto essere, fin dall’inizio,
liberazione integrale della poesia e, attraverso essa, della vita”
(Breton 1956, p. 127). Di fatto la “liberazione della vita” può
solo realizzarsi grazie alla conoscenza del Sé.. Il Surrealismo
cerca di illuminare la via della liberazione totale. La conoscenza,
la coscienza del Sé, è rivoluzionaria. Breton lo ricorda: “Più
coscienza di ciò che è sociale sempre, ma anche più coscienza di
ciò che è psicologico” (Breton 1935, p. 158), poiché “ogni
errore nell’interpretazione dell’uomo comporta un errore nell’interpretazione
dell’universo; esso è, pertanto, un ostacolo alla sua
trasformazione” (Breton 1932, p. 153). Il surrealista è un
sognatore che sa quello che vuole: trasformare il mondo per cambiare
la vita. Autentico eroe delfico, egli vuole, ripetiamolo, conoscere
se stesso per trasformare il mondo.
Il Surrealismo è morto? Sì come movimento, no come stato d’animo.
Già nel 1930 Breton replicava ai necrofori impazienti che l’attività
surrealista “non corre alcun serio rischio d’aver termine, fin
quando l’uomo sarà in grado di distinguere un animale da una
fiamma e da una pietra” (Breton 1930, pp. 75-76).
Nel 1942, agli studenti dell’Università di Yale, Breton
dichiarava che il Surrealismo avrebbe avuto fine solo con la nascita
di un movimento ancora più emancipatore, movimento al quale, del
resto, i surrealisti avrebbero aderito immediatamente (Breton 1942,
p. 61). Dieci anni più tardi Breton spiegava ad André Parinaud che
il nuovo contesto internazionale richiedeva “da parte dei giovani
d’oggi reazioni diverse da quelle cui ha potuto portarci un’altra
situazione, nella nostra gioventù. Tuttavia ritengo che ciò non
infirmi le tesi fondamentali del Surrealismo sui piani della poesia,
della libertà, dell’amore. Quello che deve essere ripensato, in
funzione di dati interamente nuovi, è il problema sociale [...].
Piaccia o non piaccia a coloro che seppelliscono da un quarto di
secolo in qua il Surrealismo due o tre volte l’anno, ribadisco che
il principio della sua energia è intatto” (Breton 1952, pp.
197-200).
L’istinto sessuale non è nato con Freud, né la lotta di classe
con Marx. Vi sono delle costanti dello spirito umano che sono
inestinguibili. Ricordo una riflessione dell’anarchico Maurice
Joyeux che citerò sostituendo Surrealismo ad anarchia: “Il
Surrealismo è inalienabile. Quello che cambia non è il
Surrealismo, ma il clima sociale e i mezzi per metterlo in pratica”.
Le arti visive sono solo una delle componenti della costellazione
surrealista, e anche qui predomina l’esigenza della fedeltà al
“modello interiore” (Breton 1928, trad. it. 1966, p. 4). Non
può esserci una ricetta estetica, un cliché figurativo, lo si è
già detto, niente accomuna la pittura di Max Ernst, Masson, Man Ray,
Miró o Tanguy, per citare solo i partecipanti alla prima collettiva
surrealista del 1925, salvo una comune esigenza ideale. Così come
non sussiste la preoccupazione di fare una “bella pittura”. Le
esigenze estetiche passano in secondo ordine dato che primeggia la
volontà di esprimere, con la maggiore autenticità possibile, i
propri sogni e desideri, la propria visione del mondo. Che poi
spesso tale esigenza abbia prodotto alcuni tra i capolavori dell’arte
del nostro secolo, nell’ottica surrealista è un fatto occasionale
e del tutto irrilevante. Quello che conta è la valenza rivelatrice
ed eversiva dell’opera. Il criterio che permette di decidere che
un’opera plastica sia surrealista, “è forse necessario
ripeterlo? [...] non è di ordine estetico”, confermerà Breton,
aggiungendo: “Quello che qualifica l’opera surrealista è prima
di tutto lo spirito con il quale è stata concepita. Se si tratta di
un’opera plastica, il valore che le diamo può essere funzione o
del sentimento di vita organica che libera [...] o del segreto di
una nuova simbologia che porta in sé” (Breton 1947, pp. 18-19).
4. Quasi per concludere
Un giorno mi è stato chiesto se il Surrealismo potesse essere
italiano. Il Surrealismo non può essere italiano, così come non
può essere francese, belga, tedesco o spagnolo. Dare al Surrealismo
un luogo d’elezione geografico è già negarlo. Di che
nazionalità era il primo surrealista, l’uomo che inventò la
ruota? Essere surrealisti significa, in primo luogo, essere
anarchici, con tutto ciò che il termine comporta, e cioè pura
rivolta cosciente, rifiuto di ogni principio di autorità, di ogni
sistema, di ogni gerarchia, di ogni violenza.
Il Surrealismo, ricordiamolo, è amore, poesia, rivoluzione. Al pari
del poeta, dell’innamorato, dell’alchimista, il surrealista è
un paria, un solitario, anche quando milita in un gruppo, e allora
lo stesso gruppo è un gruppo emarginato, fuori dal sistema, del
quale nega le regole del gioco.
La solitudine del surrealista è quella di Nietzsche e di Stirner,
dove il confine tra solitudine ed egoismo è difficile da ritrovare.
Perché l’amore del prossimo è operante solamente nella misura in
cui il prossimo si ritrova nel Sé.. L’amore del Sé è il
presupposto alla consapevolezza del Sé, e capire se stessi
significa capire e amare l’altro. La trasformazione della società
passa necessariamente dalla trasformazione dell’individuo; pensare
l’inverso significa collocarsi in una prospettiva cattolica o
marxista, per cui la felicità non è mai una realtà da conquistare
per sé, ma una promessa per altri che dovrebbe realizzarsi in un
ipotetico futuro, a patto, evidentemente, che si accetti di
rinunciare oggi a quello che ci viene promesso per domani,
esattamente come l’oste il cui cartello precisa: “Domani si fa
credito”.
L’egoismo del surrealista è individualismo - nel senso
etimologico primo della parola “individuo” (in-dividuus),
e cioè in-diviso: il surrealista aspira alla totalità, lotta per
incarnare la lettera e lo spirito della rivoluzione, per essere
verbo e azione, per conciliare il sogno e la realtà. Sui muri della
Sorbonne una mano anonima aveva tracciato nel ’68: “Prendo i
miei desideri per realtà perché credo nella realtà dei miei
desideri”.
Più che di Surrealismo - il termine implica già il concetto di
scuola, di movimento organizzato - si dovrebbe parlare di
surrealisti, o, meglio ancora, di spirito surrealista, così come si
parla di spirito anarchico. Allora la domanda si formulerebbe in
questi termini: possono esserci surrealisti italiani? Questa domanda
mi ricorda il vecchio paradosso: “tutti i cretesi sono mentitori”..
Sono italiano e mi ritengo surrealista e anarchico. E non sono l’unico
a esserlo. In Italia hanno operato e operano poeti e artisti che si
richiamano al Surrealismo. Ricordo una conversazione con André
Breton: egli pensava che non potesse esserci un Surrealismo
italiano; i fatti e i tempi giustificavano questo pessimismo. Non
esistevano in Italia né i precedenti letterari - il Romanticismo -
né i precedenti storici - il primo atto dell’89 fu di tranciare
le due teste dell’autoritarismo: nobiltà e clero. Quando il
Surrealismo si sviluppava in Europa, l’Italia era ancora immersa
nella notte onnivora del medioevo. Fascismo e clero soffocavano sul
nascere ogni velleità libertaria. Almeno due generazioni furono
inghiottite dalle tenebre dense quanto bastava per trattenere il
sole dall’altra parte della terra, per ostacolare il sorgere della
consapevolezza solare, premessa e condizione di ogni attività
surrealista.
Ricollocato in un contesto storico, il Surrealismo è l’espressione
contemporanea della corrente nera del Romanticismo. Alberto Savinio
scrisse un giorno amaramente: “Le correnti del Romanticismo hanno
seguito in Europa l’itinerario delle cicogne. Nei loro viaggi
periodici dall’Europa all’Africa e viceversa, le cicogne
attraversano la Francia da una parte e la Penisola Balcanica dall’altra,
ma, o non sorvolano affatto l’Italia, o la sorvolano in un numero
molto ristretto” (citato a memoria).
Ma se fossi una cicogna, come potrei difendermi in viaggio dall’impressione
perniciosa che non mi sto dirigendo dove vorrei? (Breton). E questo
ci aiuta a capire che il sillogismo del filosofo greco, “tutti i
cretesi sono bugiardi”, non è paradossale quanto sembra. Le
eccezioni confermano la regola. Il surrealista, che è l’Unico
(nel senso di Stirner), nasce in qualsiasi situazione perché egli
è il Ribelle per antonomasia. Ascolta il suono della luce che
cambia.
Surrealismo e Dadaismo sono gli unici movimenti dell’avanguardia
storica che siano nati non per impulso dei pittori ma dei poeti: di
poeti che erano teorici anche della pittura. Per i surrealisti e i
dadaisti l’arte andava intesa come attività totale, sottratta
alla distinzione di arte e vita, alla divisione del lavoro, all’opposizione
di teoria e prassi, sogno e veglia ecc. Ricordiamo una delle più
citate “insegne” del Surrealismo, quel verso di Lautréamont per
cui “la poesia deve essere fatta da tutti e non da uno” (Lautréamont
1870, p. 119, trad. it. p. 327). Breton aveva fatto suo il
materialismo esoterico della filosofia alchimistica. Per il
Surrealismo la bellezza è ovunque. Questo atteggiamento ottimista
è proprio del rivoluzionario. L’ottimismo dei surrealisti era
pari alla disperazione per l’infamia dell’ordine sociale
esistente.
Alla domanda cosa resta del Surrealismo oggi, risponderei: tutto.
Non ho in mente arte o poesia, cinema e teatro, fotografia o libri.
Penso a una filosofia della vita, a uno stato d’animo, a una
morale, una purezza, un bisogno di libertà.. Come dalla nozione di
lotta di classe o di inconscio, dal Surrealismo non si può tornare
indietro: col Surrealismo, qualcosa è successo per sempre.
La rivolta, per la sua stessa natura, rifiuta ogni filiazione; non
ci si bagna due volte nello stesso fiume, Breton è il primo a
ricordarlo: “A venti o venticinque anni la volontà di lotta si
definisce in relazione a ciò che si trova attorno a sé di più
offensivo, di più intollerabile. Sotto questo aspetto, la malattia
che il mondo manifesta oggi differisce da quella manifestata durante
gli anni Venti. In Francia, per esempio, lo spirito era allora
minacciato di congelamento, mentre oggi è minacciato di
dissoluzione. Non si erano ancora prodotte tutte le incrinature che
colpiscono sia la struttura del globo che la coscienza umana (penso
all’antagonismo irriducibile dei due ‘blocchi’, ai metodi
totalitari, alla bomba atomica). È del tutto evidente che una
simile situazione richiede da parte della gioventù di oggi reazioni
diverse da quelle cui ha potuto portarci un’altra situazione,
nella nostra gioventù” (Breton 1952, p. 197).
Le opzioni fondamentali del Surrealismo conservano tutta la loro
carica eversiva perché esprimono le aspirazioni più profonde dell’uomo.
Queste aspirazioni non cambiano ogni vent’anni, o venti secoli.
Breton può quindi a buon diritto sostenere che la nascita di un
movimento più emancipatore non infirma “in nulla le tesi
fondamentali del Surrealismo sui piani della poesia, della libertà,
dell’amore. Quello che deve essere ripensato in funzione di dati
interamente nuovi è il problema sociale. In questo senso - e non
può essere che a titolo d’indicazione di ciò che mi sembra
giusto - ricordo che non ho avuto paura di tornare indietro oltre
Marx e di preconizzare nella mia Ode à Charles Fourier un
riesame di ciò che resta vivo nella sua opera” (cit. in Breton
1952, p. 197).
Il Surrealismo, “nato da un’affermazione di fede senza limiti
nel genio della gioventù” (Breton 1945, p. n.n.), ha visto
riaffermare, proprio dalla gioventù, nelle giornate del maggio
1968, le sue opzioni fondamentali. Breton se n’era andato da poco
più di un anno, eppure la sua presenza tra i giovani era più reale
di quella di qualsiasi altro rivoluzionario.
Questa mostra vuole essere anche un omaggio al pensiero e alle
scelte di André Breton, lo straordinario veggente che Marcel
Duchamp ricordò con queste parole: “Breton amava come un cuore
batte. Era l’amante dell’amore in un mondo che crede alla
prostituzione [...]. Egli ha incarnato per me il più bel sogno di
giovinezza di un momento del mondo” (Parinaud 1966, trad. it.
1967, p. 46).
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