La mia autobiografia: una
confessione
Alik Cavaliere
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La mia autobiografia: una confessione
Dal catalogo della mostra Alik Cavaliere, il paradosso della natura
Sono nato (aggiungo da astrologo professionale il 5 agosto 1926, alle 3 di mattina, i miei
genitori erano a Roma). Dato che questa è una autobiografia, dirò solo delle cose che mi
interessano, senza dire di quelle oggettive.
Mio padre era uno scrittore, un poeta, ironico e cauto, viveva una condizione sociale di
resistenza allopportunismo e alloppressione. Mia madre, prima di mettersi
insieme a mio padre, studiava belle arti. Sono cresciuto così tra processi, esilii,
trasferimenti, grande tendenza alla libertà. Fin da bambino ero libero di studiare o non
studiare. Ho studiato allAccademia di Brera, ma erano tempi di guerra e col
trascorrere del tempo, non so decidere se ho studiato con Manzù o con Marini. Poi ho
frequentato la Facoltà di Lettere e Filosofia allUniversità di Milano, allora (la
liberazione dItalia, la fine della guerra) nella scuola italiana cera una
breve primavera.

Acqua uno
Alla scuola sono tornato dopo esservi stato chiamato da Marino Marini come professore
(avendo in mente di non diventare noioso più degli altri principali insegnanti). Non so
quel che ho insegnato, ma sono sicuro di quel che ho imparato; soprattutto, sono stato
coinvolto nei complessi problemi della scuola, con turbamento per me e per gli altri.
Sono sposato con Adriana, un avvocato, lei oggi dirige il personale al Comune di Milano.
La [nostra?] figlia Fania non dirige niente e non vuole essere diretta.

Albero del cortile
La mia prima mostra si tenne nel 1951 alla Galleria Colonna a Milano, e
in seguito ho fatto le mostre qui illustrate altrove (chiedo scusa se salto qualcosa).
Ho già raccontato che avevo cominciato a esporre nel 1945, se la memoria non
minganna, e allinizio esponevo con piacere; ma col passare del tempo, senza
rendermene conto, ero arrivato sul punto di diventare un mestierante molto confuso. (Non
riuscendo a condurre una regolare vita quotidiana, ciò mi salvava dal creare con
regolarità una serie di oggetti darte. E forse mi ha salvato dal voler diventare un
fabbricante di oggetti darte fatti [solo] per metterci su un buon prezzo). Oggi, a
fare una mostra faccio fatica, e ciò solleva problemi e sospetti. Infatti, aumentate le
possibilità di esporre i miei lavori, in parte ma costantemente stano cambiando i miei
rapporti con il mio lavoro e con il pubblico.
Dal 1969 al 1973, per quanto mi riguarda, avanzavo nella direzione che trascina il
pubblico nello spazio della dimesione vaga tra memoria, falsa realtà e recita, facendo
stordire il pubblico, tenendo per me la falsità della recita. Così io ho creato un
ambiente della "scultura". (E poi, mettendo in opera le sculture delle favole,
per realizzarle usavo e moltiplicavo attrezzi da lavoro, usavo suoni, musica e dialoghi
registrati, fotografie, oggetti, ri-costruivo, ri-realizzavo, accuratamente, una realtà
apparente e la ingrandivo del doppio).

Civetta amore mio
In queste teatro-sculture io avevo il ruolo di organizzatore e di regista, ad ogni puntata
aggiungevo cambiamenti alla messa in scena, attaccando le tende sul soffitto, cercando di
far apparire solo una volta le cose che usavo, oppure ri-realizzavo lo stesso tema con
oggetti e modi diversi, e alla fine cominciavo a distruggere lo spettacolo, quando dal mio
punto di vista era terminato, per non farlo diventare un museo. (Ecco perché la mia è
una confessione: in tutte le confessioni si esprimono solo le cose che passano per la
testa).
Devo dire che, facendo questa operazione, mi sono divertito: ancor più chiaramente nello
staccare il lavoro dalla ripetitività quotidiana, nello sperimentare
di non
costruire, nel raccontare sempre in prima persona, parlando da solo rivolto a spettatori
immaginari, cioè nellintima esperienza dellesistente imparità del parlare
estraniato e trascinare il pubblico.
Scrivendo nel 1974, per dire perché mai dal 1969 al 1973 avevo creato questo tipo di
opere, provavo dunque a proporre la scultura diversamente da come avevo fatto
nellultimo anno. La definizione semplice è "per la massa", e il
significato di questa parola - anche se semplicemente estetica (significato solo così
abbastanza grandioso) - è ambiguo e modesto, ma può essere indagato immediatamente.
Così, non ho dubbi sul fatto che la funzione dellopera inghiottisca lopera
stessa secondo luso che se ne fa in altro campo, o che, sotto unaltra visuale,
essa spesso distrugga in parte la prima intenzione aggiungendovi altri significati, o che
alla fine lopera, una volta usata, rimanga soltanto unesperienza della
memoria. Tutti dubbi che io non ho.
[Tutto ciò] Lo riscopro con il significato del mio lavoro attuale.
Infine, oggi mi diverte ricordare che ho lavorato per quattordici anni (1947-1961) in un
atelier costruito in mezzo al cortile di una ex famigerata casa di piacere. Ora ho creato
unoasi, protetta da un giardino, dove ho piantato fiori, che dà frutti, con tanti
animali, nella zona industriale.
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