Caffe' Europa
Attualita'



Tecniche e procedimenti



Stefania Bonanni



Articoli collegati:
Vedere la storia
La collezione del Museo Centrale del Risorgimento
Tecniche e procedimenti


Dagherrotipo

Nel 1839 Louis Jacques Mandé Daguerre mise a punto un procedimento denominato dagherrotipia. Il dagherrotipo era formato da una lastra di rame ricoperta da una sottilissima lamina d’argento. Dopo l’argentatura la lastra veniva lucidata, poi sensibilizzata con l’azione di vapori di iodio.

Dopo il 1845 vennero introdotte sostanze acceleratrici: vapori di bromo o cloro, applicati dopo il trattamento allo iodio. In questo modo aumentava la sensibilità della lastra e diminuivano i tempi di esposizione. L’immagine registrata dal dagherrotipo era speculare, cioè rovesciata in senso orizzontale. Quando fu possibile eseguire ritratti, il soggetto veniva tenuto fermo con attrezzature particolari, come ad esempio dei poggiatesta per impedire qualsiasi movimento.

Lo sviluppo si effettuava sottoponendo la lastra a vapori di mercurio, che si depositavano sulle zone esposte secondo la quantità di luce ricevuta, assumendo l’aspetto di minutissime particelle biancastre.

Pur trattandosi di un procedimento negativo, il dagherrotipo fornisce un’immagine positiva diretta, poiché le particelle bianche che la costituiscono si stagliano sul fondo argentato più scuro.

Ogni dagherrotipo era un esemplare unico, che non poteva essere replicato. Ciò costituiva un grave inconveniente del procedimento.

Nel primo periodo (1840-42) la dagherrotipia fu subordinata alla stampa, cioè fu utilizzata per i disegni preparatori per le incisioni. Dopo il 1842, e fino alla metà degli anni ’50, quando fu possibile applicare questa tecnica alla ritrattistica, il procedimento raggiunse il massimo splendore: il dagherrotipo era una miniatura, quasi un piccolo gioiello.

Il ritratto dagherrotipico rimase in uso per molti anni, anche dopo la diffusione di nuove tecniche fotografiche. Verso il 1860 il suo uso era cessato quasi ovunque.
Calotipo (carta salata)

La calotipia (procedimento messo a punto sempre nel 1839 da William Henry Fox Talbot) segnò un progresso decisivo, perché risolveva il problema della riproducibilità dell’immagine. Era una fotografia il cui negativo era ottenuto da carta assorbente imbevuta, e sensibilizzata, con sale d’argento (calotipo) e sviluppata con un miscuglio di acido gallico, azotato d’argento e acido acetico. Il negativo così ottenuto veniva rifotografato per avere il positivo e poteva essere adoperato per stampare tutte le copie positive desiderate.

[Durante l’eroica resistenza della Repubblica Romana del 1849, il litografo francese Raffet inviò in Italia un fotografo perché riprendesse i principali luoghi di combattimento, allo scopo di servirsene come traccia per le stampe].

Fotografie al Collodio

Con l’introduzione del collodio (tecnica messa a punto da Frederich Scott Archer nel 1850) ci fu una vera e propria rivoluzione nel campo fotografico, tanto da definire questo periodo come “l’età del collodio”. Questa tecnica univa i pregi della dagherrotipia e della calotipia, eliminandone i difetti. Come la calotipia permetteva la riproduzione seriale della matrice; nello stesso tempo, grazie alla trasparenza del supporto vitreo del negativo, garantiva la nitidezza di particolari caratteristica della dagherrotipia.

Il collodio era una sostanza viscosa di nitrocellulosa disciolta in alcool ed etere. In origine venne utilizzato allo stato umido (collodio umido), poi allo stato secco (collodio secco), infine ricoperto di albumina (collodio albuminato). Nel 1871 si misero a punto le lastre alla gelatina animale sensibilizzate con il bromuro d’argento.

Stampa all’albumina

Con l’introduzione del processo all’albumina per la stampa positiva si fecero altri passi avanti. Il vantaggio, rispetto al collodio per il dagherrotipo, era di realizzare su carta albuminata immagini riproducibili e di dimensioni più grandi, a parità di prezzo.

L’albume utilizzato era quello delle uova, preferibilmente fresche e di galline vecchie. La richiesta di uova per uso fotografico, nella seconda metà dell’Ottocento, fu così alta da convincere molti imprenditori ad allevare galline.

Carte de Visite

Grazie all’aumento demografico e all’ascesa della borghesia, intorno al 1850 nacquero i grandi ateliers fotografici. Ci fu una vera e propria organizzazione commerciale dei fotografi, che facevano a gara per diventare fotografi ufficiali della corte reale o pontificia.

In Italia c’era una ricca presenza di fotografi italiani e stranieri, che si spostavano con i loro laboratori seguendo da vicino le vicende politiche. I ritratti dei personaggi che avevano un ruolo decisivo nella situazione politica italiana fecero nascere in ognuno il desiderio di far conoscere il proprio volto: ed ecco che la ritrattistica ebbe un nuovo e straordinario impulso. La fotografia personale, il “ritratto”, divenne una necessità per l’identificazione e non solo un modo per farsi ricordare in futuro.

Ma perché la fotografia si diffondesse, oltre che nella borghesia, anche nelle altre classi sociali, bisognava ridurre i costi, e questo a quei tempi era possibile solo riducendo il formato delle fotografie. Questo spiega il successo che ebbe André Adolphe Eugène Disderi con l’invenzione della carte de visite. Queste fotografie, applicate su cartoncino, si chiamarono così per le dimensioni uguali a quelle di un biglietto di visita (5.5 x 8.5 cm.).

Divennero popolari soprattutto nel 1859, quando Napoleone si fece ritrarre nello studio di Disderi: subito tutta Parigi fece altrettanto. In Italia ci fu lo stesso entusiasmo.

Con la carte de visite nacque la moda di collezionare ritratti di persone celebri, mentre l’esigenza di conservare queste immagini fece nascere l’uso degli album, rilegati in cuoio lavorato e rifiniti con pietre dure, borchie e fermagli.
A partire dalla fine del 1866 si affermò un nuovo tipo di ritratto, quello Formato Gabinetto (14 x 10.5 cm.), che permetteva al fotografo, grazie alle aumentate dimensioni, di evidenziare le sue capacità artistiche.

Fotografie Stereoscopiche

Le fotografie stereoscopiche sfruttano l’effetto tridimensionale conseguente alla visione binoculare, fenomeno già noto nell’antichità.

Le prime “macchine stereoscopiche” consistevano in due specchi messi ad angolo che riflettevano ciascuno l’immagine di un oggetto.

Le applicazioni della fotografia in questo campo risalgono alla metà dell’Ottocento e, perfezionate, ebbero presto grande successo.

Le visioni di questo tipo consisterono all’inizio in due positivi similari. Le diapositive vennero adottate successivamente.


Articoli collegati:
Vedere la storia
La collezione del Museo Centrale del Risorgimento
Tecniche e procedimenti

 

Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti da fare? Scriveteci il vostro punto di vista cliccando qui

Archivio Attualita'


homearchivio sezionearchivio
Copyright © Caffe' Europa 2001

 

Home | Rassegna italiana | Rassegna estera | Editoriale | Attualita' | Dossier | Reset Online | Libri | Cinema | Costume | Posta del cuore | Immagini | Nuovi media | Archivi | A domicilio | Scriveteci | Chi siamo