Lucia Mondella e la Monaca di Monza
Ferruccio Ulivi
Articoli collegati:
Segnalazione/Un'edizione
preziosa
Lucia Mondella e la Monaca di Monza
Ferruccio Ulivi, saggista e narratore, è stato professore titolare
di Letteratura Italiana nelle Università di Bari, Perugia e Roma. E’
noto come uno dei massimi studiosi di Manzoni, al quale ha dedicato
vari saggi: “Il Manzoni e la poetica del rinnovamento”, 1950; “Dal
Manzoni ai Decadenti”, 1973; “Manzoni, Storia e Provvidenza”,
1974. Quelle che seguono sono le sue considerazioni sui due principali
personaggi femminili del capolavoro di Don Lisander contenute nella
nuova edizione de 'I promessi sposi' con illustrazioni di Alberto
Sughi proposta da ART’E’.
Lucia
Superfluo raggruppare i capitoli dove Lucia è direttamente o
indirettamente in causa. Dovremmo postillare gran parte del romanzo,
alla stregua e più di Renzo. Ne parliamo perciò conclusivamente come
riferimento e approdo simbolico di tutto il racconto. Doveroso anche
sottolineare la varietà e ricchezza di registro delle pagine dove
appare in piena luce; basterebbe pensare a quell’Addio ai monti del
capitolo VIII, che trasferisce in pura lievitazione musicale un
rimpianto che va oltre l’ordito delle parole.
Delle sue precedenze ideali in Manzoni abbiamo fatto qualche accenno:
la moglie e la figlia del conte di Carmagnola, Ermengarda col suo
amore, qualche rapido profilo femminile in poesia, ad esempio nella
Pentecoste. Si potrebbe forse aggiungere, immagine femminile di
concisa, straziata bellezza del tempo di pèste, la madre di Cecilia
(cap. XXXIV).

Sul suo capo un alone, invisibile, non manca, illustrando una figura
psicologicamente tutt’altro che ricca. La promessa sposa, diamo qui
ragione del versante negativo di alcuni critici, romanzescamente non
possiede particolari attrattive. Di fronte ai suoi personaggi, già lo
sappiamo, Manzoni non assume mai una posizione disinteressata, con la
pretesa assiomatica di obiettività che rivendicheranno un giorno
altri, legati fin dalle intenzioni al dettame del “vero”. Non la
assume rispetto alle figure “negative”, e neppure di fronte alle
“positive”.
Ma è proprio negli scarti inevitabili di questa dissimulata
parzialità che sta alla fine il fascino delle figure. È soprattutto
nel territorio conteso alla gestione soffertamente elitaria dello
scrittore che si svelano certi abissi interni, traspaiono
incalcolabili limpidezze. Non che manchino condizionamenti fin troppo
severi; a ben guardare, effigi come quelle di Rodrigo e della Monaca
e, chissà, perfino del diabolico Egidio - ributtato nell’ombra
prima che faccia in tempo a emergerne - avrebbero potute essere
fissate meno impietosamente. Su qualcuna, come la Monaca, c’è tutta
una critica rivendicazionista.
Ebbene, se c’è un personaggio positivo che Manzoni fa di tutto per
occultare, per garantirne gelosamente l’anonimato, per sottrarlo al
fervore di consenso di chi, come i lettori, vorrebbe appassionarsi
alla “prima donna” del racconto, questi è Lucia. Chi ricorda come
è dipinta nel Fermo e Lucia se ne rende subito conto. Tutte le
caratterizzazioni sublimanti della prima stesura - la sua fiera
dignità con gli ammonimenti che impartisce ai bravi, quand’è
rapita, la fisionomia spiccata, certe note struggenti - sono abrase di
netto. Ne segnaliamo una, di cui nel lettore dello “scartafaccio”
rimane tuttavia la vibrazione; quando Renzo, penetrato nel lazzaretto,
si dà alla ricerca della promessa fra le capanne, finalmente
percepisce - dicono i Promessi sposi - «quella voce soave». Nella
vecchia stesura è detto invece: «sentì una voce… una voce, giusto
cielo! che egli avrebbe distinta in un coro di cento cantanti, e che
con una modulazione di tenerezza e di confidenza ignota ancora al suo
orecchio, articolava parole che forse in altri tempi erano state
pensate per lui, ma che certamente non gli erano state mai proferite…».
È una frase stupenda, di una penetrazione nel coagulo dell’amore
romantico che va fino in fondo: che non omette neppure la più sottile
percezione affettiva e immaginativa. Ci si può rammaricare che
Manzoni l’abbia cassata; allo stesso modo per cui si può
rimpiangere, come ha fatto con persuasivi argomenti il Pampaloni, che
nel romanzo definitivo sia venuta meno la prima comparsa in scena
della Monaca, con quel tetro e luminoso scultoreo «vide la Signora in
piedi…», sostituita dal più rapido (e pittorico) «una monaca
ritta».
Ha detto bene qui il De Rienzo, in un libro sulla figura di Lucia, che
Manzoni può svalutare quanto vuole don Rodrigo (per tornare a lui),
può letteralmente snaturarne l’effigie, parlando di puntiglio,
ripicca, infame capriccio e simili; «ma ciò non toglie che la
passione del signorotto sia autentica, possa addirittura diventare un
pensiero tutto tormentoso». Quello di don Rodrigo, aggiungiamo noi,
è forse davvero un amore autentico, bloccato da un’alta moralità
narrativa.
Con Lucia il gioco è all’inverso (e lo capì a suo tempo in un
elzeviro Antonio Baldini), Manzoni è preso per il suo personaggio da
un’attenzione indicibilmente costrittiva, non vuol scoprire le
carte, vorrebbe, se possibile, nientificarne il risalto agli occhi
altrui: renderlo, specie alla fine, più impenetrabile che può. Non
per nulla ne fa mettere in dubbio, per bocca del nuovo paese dove gli
sposi si trasferiscono, addirittura la bellezza. Lucia, ai suoi occhi,
è l’amata per definizione, l’unica di quell’unico; è, e tende
ad essere, della stessa ineffabile natura che conosciamo, ad esempio,
di un personaggio dantesco, la sublime Pia; è soffusa del tacente
rapimento che incastona, nella flaubertiana Éducation sentimentale,
la prima apparizione di Madame Arnoux: «Jamais il n’avait vu cette
splendeur de sa peau brune…».
Con nessun’altra figura il gioco interno manzoniano si rivela per
quel che è, un rapporto stretto fra lo scrittore e i suoi personaggi;
rapporto ora di rapida abrasione e riduzione all’essenziale, come
nella vicenda di coscienza dell’Innominato (ed anche qui si pensi al
contrario alla prima stesura); ora di spietato addebito negativo, come
nel caso di don Rodrigo, il cui innegabile risvolto è invertito a
libidinosa sfrenatezza; ora di deliberata sordità rispetto alle pur
esistenti, indiscutibili attenuanti psicologiche e sociali, come
riguardo a Gertrude; ora, e più che mai, rispetto al nucleo ombroso,
intensamente ed occultamente manzoniano in prima persona, di Lucia,
che lo scrittore non vorrebbe affidare neppure un attimo al
coinvolgimento affettivo di chi legge.
Non a caso, dal Salvadori in poi, fino a oggi, a Lucia si è creduto
di connettere l’esperienza di vita di una creatura la più vicina,
se ce ne fu mai altra, al cuore di Manzoni: Enrichetta. Noi non
crediamo che Manzoni mettesse in causa una parte di sé, giocando di
trasparenze; ma sicuramente attingeva, come sempre avviene, e qui
poté avvenire con la sposa “diletta e venerata”, ad una gamma di
sensazioni, emozioni, confidenze, affetti, che è il presupposto di
ogni creazione poetica.
Ebbene: scarnendo all’osso il significato del romanzo, I Promessi
sposi si mostra, alla fine, il racconto per eccellenza dell’amore:
il quale sprofonda da una parte nelle radici dell’anima e dei
sentimenti, dall’altra, quella esterna, si adopra a raccoglierne le
esigenze all’insegna della più struggente discrezione.
Letterariamente parlando, Lucia è, finalmente adeguato, il sogno dell’amore
romantico, che Manzoni ha rivestito della sua concretezza, del suo
straordinario spirito di misura, della capacità di tradurne l’ineffabile
in forma discretamente terrena, anche se non ha l’aria di volerlo
fare. Lucia, ai sensi di coloro che nel romanzo l’avvicinano e l’amano
(Renzo, s’intende, ed in modo benignamente e paternamente protettivo
Federigo Borromeo, quasi devozionale l’Innominato, disperatamente
passionale don Rodrigo) è senza dubbio una realtà umana e per dir
così tangibile: ma è pur sempre una realtà misteriosa.
Come impedirci ancora una considerazione? Quando, alla fine del libro,
i due sposi si raccolgono a meditare sulla lezione del passato, Lucia,
che del paradiso d’origine ha conservato quel suo sorriso “soave”,
smentisce e consola nello stesso tempo il suo caro interlocutore, e
gli dice - perché questa riflessione non può venire che da lei - che
anche i guai «la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per
una vita migliore». E a questo punto, con questa inflessione
delicatamente cogitabonda del discorso, il lettore, ci sembra, non
dovrebbe fare a meno di andare un passo indietro, quando padre
Cristoforo si congeda al lazzaretto dai due promessi finalmente
ricongiunti, con le parole: «Amatevi come compagni di viaggio, con
questo pensiero d’avere a lasciarvi, e con la speranza di ritrovarvi
per sempre».
Ebbene, non sarà alla fine lecito trovare in tutto ciò da parte di
Lucia, oltre a una sintesi del passato, la ripresa di una
premonizione, a distanza la più lunga possibile, di una verità che
forse scorre anche nel subconscio dell’uomo innamorato? Manzoni in
persona sapeva bene, come scrisse una volta guardando intorno a sé la
famiglia ancora giovane, quanto ci sia «d’incerto, di pericoloso e
quasi di terribile» nella felicità domestica. Lo sapeva Manzoni, e
ne avrebbe dato conto dopo di lui la narrativa di un altro grande, e
inquieto, credente: Tolstoj.
Non sarà in questa luce di presagio, di quasi impercettibile cenno di
saluto, che l’immagine di Lucia ci si affaccia un’ultima volta
dalle soglie dei Promessi sposi?
La Monaca di Monza
(Capp. IX-XIII)
Di passo in passo, piuttosto rapidamente, ci avviciniamo a uno dei
nodi più inquietanti, forse senz’altro il più arrischiato, che lo
scrittore non accantonò, ma inserì con impavida volontà fra gli
aspetti non più così idillici o comici o nobilitanti del romanzo.
Una luce sinistra divampa, conflagra sulla scena. Altro che amabile e
sonnacchioso teatrino, condito di troppa storia, come uno scolaro
svogliato potrebbe pensare. C’è in vista una faccia bislunga, un po’
obliqua, carica di segreti, di cupi silenzi, di sguardi ora
lusinghevoli ora di ambigua connivenza, rivelando dietro una tenda che
s’apre, dice mirabilmente l’autore, «una monaca ritta».
È, dopo la descrizione di Lucia, di un livello molto più sommesso e
succinto, la più acuta, quasi ossessiva penetrazione fisiognomica di
un personaggio del romanzo: descrizione che non risponde a un intento
descrittivo pittoricistico, anche se non manca davvero un effetto del
genere, ma a un inesorabile svisceramento esercitato sulle fattezze,
sui passaggi di espressione, sulle imprevedibili, e talvolta truci
reazioni del volto di costei. Da sottolineare ancora una cosa: che per
la prima volta lo scrittore si mette davanti un personaggio storico
sia pure sotto altro nome e, per insufficienza di notizie almeno nella
prima fase di stesura del romanzo, posticipa gli eventi di quella vita
di circa trent’anni.

L’interesse di Manzoni era sollecitato da una diffusa stortura dell’ambiente
nobiliare secentesco: le monacazioni forzate a danno delle figlie e
dei figli cadetti. Le leggi patrimoniali conferivano solo al
primogenito la spettanza ereditaria, ovvero il “maggiorasco”, per
non sminuire il livello economico del nome; agli altri spettava solo
qualche beneficio. Allo scopo di garantire anche a questi ultimi un’esistenza
non disdicevole al rango originario, la via d’uscita era di
destinarli alla professione ecclesiastica. Se per i maschi c’era una
probabilità di carriera, le garanzie, o le speranze, per le femmine
erano naturalmente ridotte al numero dei monasteri disponibili. Questa
piaga civile ed ecclesiale aveva ricevuto vibranti riprovazioni e
denunzie da più di un moralista religioso; acerbe le condanne, ad
esempio, dei grandi sermonneurs che avevano presieduto con i loro
scritti alla prima formazione religiosa di Manzoni. Che in tal modo
non esitò un attimo, trattando di quel secolo, a mettere il dito
sulla piaga, tanto più che quella stortura, se non giuridicamente,
non era del tutto dileguata in alcune parti d’Italia. Né in
proposito il narratore aveva certo dimenticato un efficace
romanzo-breve, un rapido, conciso libello di Diderot: La réligieuse.
La figura storica da cui derivava la Monaca manzoniana era, come si
saprà, quella di figlia di una nobile progenie d’origine spagnuola,
i de Leyva. Mortale la madre, il padre aveva ripreso moglie e, avutone
un figlio, aveva mirato ad assicurare a questi anche la cospicua
eredità che sarebbe spettata alla fanciulla, lavorando assiduamente a
condizionarne e forzarne la volontà per destinarla a un chiostro con
la relativa, esigua dotazione competente. Dunque, una vera e propria
rapina. A sedici anni, Marianna de Leyva, nel 1591, emise i voti
perpetui. Dopo qualche anno, la fatalità o la sventura le fece
ascoltare le seduzioni del proprietario di una casa attigua al
monastero, certo Osio, che, per tacitare voci e delazioni, incorse in
una catena di assassinî. L’esito di tutto fu la scoperta dei truci
avvenimenti da parte dell’autorità ecclesiastica e di quella civile
spagnuola, con la condanna al carcere della monaca; e con l’uccisione
a tradimento da parte di un ospite dell’Osio per riscuoterne la
taglia. La monaca, dopo tredici anni di carcere, morì
settantacinquenne, pentita, nel 1650.
L’occhio acuto, scrutante dello scrittore penetra nell’opera di
perversa, diabolica, costrittiva riduzione alla sua volontà di
Gertrude - tale il nome che conferisce al suo personaggio - da parte
di un efferato «principe padre»: una delle immagini più
diabolicamente e sinistramente invertite, accanto all’Osio
denominato qui Egidio, che guizzano nelle tenebre del romanzo. È un’indagine
di costrizione della volontà altrui, di sopraffazione di un essere
inerme, delle più lente, inesorabili di tutte le analisi di una
psiche giovanile, esercitata proprio da chi avrebbe dovuto esserne il
naturale tutore, il padre. Un’atroce vena malefica, apportatrice di
sventure, scorre dolorosamente sotto l’osservatorio manzoniano.
Vengono in mente immagini di grandi sventurate, chi più, chi meno
colpevole, della letteratura universale. Si è detto ripetutamente che
la Monaca di Monza è la figura più moderna di tutto il romanzo.
Bisognerebbe aggiungere che effettivamente, mai come in questo caso,
dopo le inchieste storiche, i sarcasmi, le imputazioni di
responsabilità a carico di questo o quel personaggio, Manzoni ha
assediato con più assiduità, diremmo con freddo, inesorabile furore
accusatorio, il processo di degradante annichilamento di una coscienza
esposta senza difesa anche nel proprio intimo, disarmato come quello
di una fanciulletta nativamente recettiva, affascinata dalle
attrazioni più fatue, e più che “debole” - come è stata
definita da qualche critico - inadatta a capire e tentare per lo meno
una parvenza di reazione, vista l’educazione che le era stata
impartita e gli impulsi di un carattere ancora ragazzescamente
imbelle. È la vicenda, quella che lei subisce, di una perfidia
tramata con imperturbabile perseveranza, ai danni di un essere venuto
nelle mani e nel potere di chi aveva tutti i mezzi per disporne al
meglio o al peggio, non senza le connivenze altrui, in famiglia e
fuori.
E altrettanto atrocemente è descritto da Manzoni il processo di
corrompimento che, di rimando, la consapevolezza finalmente raggiunta
dell’abuso subìto, e poi la connivenza nei delitti col perverso
corruttore, finiscono per immettere in colei che era stata in
precedenza solo una vittima. Quando entra in scena agli occhi di
Lucia, la Monaca ormai partecipa anch’essa dell’inferno dove è
stata trascinata: ne partecipa con una punta di rivendicazione,
tacitata, di quel «meglio» che avrebbe potuto essere la sua vita,
salvandosi dalla violenza sulla volontà prima, dalla sua fragilità
femminea e dal terrore della rivelazione del male di cui è divenuta
corresponsabile, poi. Tutto ciò contribuisce a una cosa sola: a
renderne ambigua e pervertita, suo malgrado, la interiorità.
Eccola dunque nella enigmatica effigie del primo apparire: una
«monaca ritta».
Dopo Manzoni, avremo Flaubert, Zola, Maupassant, Dostoewskji con
altrettanti, straziati personaggi. La serie moderna per definizione
degli umiliati e offesi, e finalmente colpevoli, comincia di qui, non
soltanto ai fini della letteratura italiana. Non c’è che cercarne
affinità, similarità, consanguineità in tutte le letterature.
Un Manzoni “edificante”? Ma noi non crediamo che, con tutte le
riserve possibili prima e dopo le sventure, lo scrittore, anche dopo
la condanna, i pentimenti, la corrispondenza che la donna ebbe poi
addirittura col cardinal Federigo, abbia davvero “perdonato” alla
sua “sventurata”. Di Manzoni qualcuno ebbe a dire, all’incirca,
«quella mano che pare senza nervi, che viceversa ha una presa d’acciaio».
Per confermarci quanto sia vero, riprendiamo un attimo l’episodio di
Gertrude, sia nella prima fase, quando la dice «sventurata» e non
più né meno, sia nell’ultima fase, quando nel penultimo capitolo
ce ne dà una scarna notizia post-conversionem.
Prima di tutto diciamo perché inizialmente si è parlato, a proposito
di questo episodio, di uno dei nuclei più arrischiati dei Promessi
sposi. È come se lo scrittore avesse immesso una carica di
elettricità capace di sovvertire l’insieme. Ma non c’era proprio
nulla che potesse distoglierla: la fede, la pietà divina? La risposta
è tagliente: dice - com’è facile vedere - che la religione
cristiana può intervenire in qualsiasi situazione per «indirizzare e
consolare chiunque». È un passo famoso, determinante, del capitolo
X, che lo scrittore riecheggiava letteralmente da più di un passo dei
sermoni del moralista che abbiamo ripetutamente citato, Massillon,
attinti da una predica “Sur la Vocation”. «Con questo mezzi»,
soggiunge Manzoni, «Gertrude avrebbe potuto essere una monaca santa e
contenta, comunque lo fosse divenuta. Ma l’infelice si dibatteva in
vece sotto il giogo…» fino alle diverse, disperate conseguenze che
avranno luogo. E qui segue da parte dello scrittore un’ulteriore
analisi, angosciante, attanagliante, bruciata, di un’interiorità
che ha quasi gli aspetti di un incubo, con gli stati d’animo che si
succedono in lei; l’evocazione dei conforti possibili della fede
religiosa non tacita una realtà riluttante. Manzoni capisce, penetra,
ma si ferma a quel punto, né abdica alla propria, dolente, ma
inalienabile esigenza morale. Non abdica all’inflessibile giudizio.
Ci ha portato sull’ultima sponda di una commiserazione angosciata,
punto d’arrivo sceverato fin nei precordi della vittima, così come
un giorno, tra qualche anno, un grande analista della società
francese, Flaubert, scruterà nelle sorti di una peccatrice di
provincia.
Quando ritroveremo, in pochi accenni, Gertrude, dopo i delitti, la
condanna, il consuntivo di una vita perduta, la commiserazione di
Manzoni non dirà più di questo: che «…dopo molto infuriare e
dibattersi, s’era ravveduta, s’era accusata; e che la sua vita
attuale era supplizio volontario tale, che nessuno, a meno di non
togliergliela, ne avrebbe potuto trovare un più severo» (cap. XXXVII).
Può sembrare, ed è, un consuntivo realistico quanto, in sostanza,
inesorabile, senza fare appello neppure a titolo d’ipotesi all’interiorità
della donna. Ma bisogna ricordare che, agli occhi di Manzoni, si
trattava, sia pure dietro una costrizione, di una consacrata, di una
monaca, che aveva infranto in modo clamoroso, ripetuto, scandaloso,
sottraendosi a ogni via d’uscita, dei voti solenni; poi, che molto
probabilmente, secondo Manzoni, quel pentimento postumo era frutto di
disperazione più che di altro. Conclusione, dunque, amara, con un
misero pertugio di luce.
A chiarimento di un punto capitale dell’episodio va notato, infine,
che in un primo tempo lo scrittore si era fermato a lungo sull’operazione
delittuosa eseguita con la complicità della Monaca ai danni di una
consorella che minacciava di denunziarla. Su consiglio, pare, di
Fauriel, decise poi di amputare quelle pagine. Ma al di fuori dei
suggerimenti che poté avere, dové avvertire che l’asse di
equilibrio del romanzo, centrato sui due promessi, ne sarebbe stato
compromesso. E la soluzione fu la concisa, splendida frase: «La
sventurata rispose», che non a torto il Momigliano accostava alla
tragica pregnanza del verso dantesco nell’episodio di Francesca da
Rimini: «Quel giorno più non vi leggemmo avante». È, anche nel
testo manzoniano, una pietra calata senza rumore su un simbolico
avello, e nello sfondo un’ombra scura: di presagio, di trattenuta
pietà.
Articoli collegati:
Segnalazione/Un'edizione
preziosa
Lucia Mondella e la Monaca di Monza
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti da
fare? Scriveteci il vostro punto di vista cliccando qui
Archivio
Attualita' |