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Sinistra sorda tenta il suicidio (e forse ci riesce)

Giancarlo Bosetti

 

Giancarlo BosettiLa sinistra, la sua ideologia, i suoi intellettuali di quasi tutte le sfumature, piu’ o meno radicali, piu’ o meno marxiste, piu’ o meno intrecciate con quello che si chiama il movimento operaio, si porta dietro, magari allo stato residuale, non certo sfolgorante come nelle fasi auree della sua parabola, un tic, un vizio, un riflesso condizionato pericoloso: quello che … "la storia siamo noi". C’era dell’epos in questa convinzione, nei rivoluzionari ma anche nei riformisti. La "storia siamo noi" vuol dire sentirsi il grande fiume che scende a valle, s’ingrossa, percorre le grandi e sterminate pianure, vuol dire "sapere dove va" il corso degli eventi umani. Si chiama anche "determinismo storico", storicismo, ma anche al di fuori della assoluta certezza, della scientifica determinazione con cui questo atteggiamento è teorizzato dal marxismo – la conoscenza delle leggi di movimento della storia – questa bella sicurezza ha trasmesso per decenni la serena convinzione di "avere ragione" a uomini e donne della sinistra, in quanto tali, in quanto sinistra.

 

Non aveva ragione Occhetto?

Per quanto sia spiacevole abbandonare le placide e maestose evoluzioni di questo fiume, per quanto il dolore della lacerazione con le proprie convinzioni precedenti sia pungente, non si puo’ piu’ evitare di lasciare per sempre quel percorso con le sue leggi di ferro. Non si tratta solo di quello che è caduto con il Muro di Berlino, non solo dell’abbandono del comunismo, non solo di una critica definitiva, esplicita, di una ideologia e di un progetto che hanno fallito. Il grande fiume della storia della sinistra non finiva li’, continuava, riprendeva altri suoi corsi laterali, altrettanto grandi e maestosi.

Ora sono diventati impraticabili tutti. La storia non marcia piu’ al passo con nessuno dei vecchi eserciti della politica. Bisogna farsene una ragione. Ma non è detto che i dirigenti della sinistra ne siano capaci. La svolta del Pci nell’89 fu tanto dolorosa quanto necessaria. Merito di chi la volle, come Achille Occhetto, anche se non riusci’ a concluderla portando i suoi vascelli in mare aperto. Ma aveva il grande merito di guardare in faccia gli errori del passato e di insistere sull’ inevitabilita’ di una rottura. Si diceva "discontinuita’".

Non è vero che "la storia siamo noi", ahime’. Noi tutti, e con noi la storia, siamo soltanto la somma dei nostri atti, di quelli riusciti e di quelli falliti. È vero esattamente il contrario, noi non "siamo" la storia, la storia è quello che è, il risultato di tante volonta’ in accordo e in disaccordo che producono un disegno non sempre dotato di un senso preciso. Spesso sono visibili i segni del progresso (la medicina, la tecnica, la scienza) spesso non sono visibili per niente (il Kossovo, le fosse comuni). Che qualcuno sia convinto di possedere i fili che reggono il "senso della storia" è un errore foriero di pericoli, di arroganza, comunque di sordita’ a tutto cio’ che contrasta con il previsto scorrere del fiume.

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La rissa continua

Ragionando sul declino elettorale, politico, organizzativo, della sinistra italiana è questa sordita’ che colpisce, una sordita’ che si presenta con i tratti tipici di una malattia, forse anche curabile ma tragicamente non vista, una patologia psichica che impedisce al paziente di riferirsi con proprieta’ al mondo esterno, che impedisce di ascoltare e parlare, di sentire le domande e preparare le risposte a quelle domande. Bologna: solo un organismo politico malato puo’ esprimere una candidatura-emanazione del proprio apparato interno in un mondo che reclama in modo sempre piu’ deciso e nervoso l’allontanamento dei partiti dalla societa’.

"La storia siamo noi". Vedere un partito dal passato cosi’ ricco e dotato non poco di sapienza, moderazione e capacita’ di ascoltare, muoversi come se le leggi della storia potessero santificare in eterno il primato del grande fiume, è malinconico e sconcertante. Credevano di continuare la maestosa discesa sul fiume e invece erano gia’ incagliati da un pezzo, erano impantanati su un trabiccolo pieno di gente litigiosa. E la rissa continua. Nessuno riesce a tirarsene fuori: è colpa del governo che minaccia le pensioni alla vigilia del voto, è colpa del partito che non riesce a spiegare i meriti del governo. Non finira’ presto.

 

 Dopo lo shock di Bologna peggio di prima

Ha ragione chi drammatizza. E sbaglia chi non lo fa. Questo genere di errori – gli impulsi esistenziali degli apparati, le contraddizioni nell’opera del governo, la rottura della coalizione del ’96, la confusione sul disegno politico – non è soltanto grave in se’, ma è l’indizio che sono saltati i collegamenti con il reale, che il paziente vive in un suo mondo di fantasmi, che continua a chiamare luoghi, persone, fatti con il nome sbagliato, che continua a ripetere il suo gergo senza accorgersi che intanto altri hanno cambiato l’ordine del giorno, che intorno si parla un’altra lingua, che si manifestano altri bisogni, che lui neppure sospetta. Sono semplici, chiari, ma lui non li vede, il paziente. E dopo la batosta, dopo lo shock che potrebbe indurre al risveglio, a una svolta, i primi segnali danno ancora una volta esito nullo. Che succede infatti? Che si accentua la litigiosita’ sulla zattera incagliata, ciascuno con lo sguardo puntato sugli "errori" di quell’altro. Nessuno che si decida a lasciare il trabiccolo e a dare uno sguardo all’orizzonte. Cerchiamo di aiutare questa alzata di sguardo con qualche suggerimento.

 

Cose dette ma non digerite

Le discussioni della sinistra sono cariche di modernita’, di concessioni ideologiche all’individualismo, di innovazione, pragmatismo, di conclamata attenzione alle domande della societa’ civile, di tanta sapienza linguistica: le "appartenenze" sono finite, l’ideologia non tiene piu’, il partito di massa si è estinto, i militanti invecchiano e si disamorano, e via proseguendo con tutta la sociologia del nuovo. Ma poi quando si tratta di decidere le candidature, magari per il sindaco di Bologna, tutto questo si dimentica; riecco le alchimie della vecchia politica, i rancori tra gruppi di apparato che rappresentano le proprie storie, significative solo per chi in quegli apparati ci è cresciuto. Leggetevi il saggio di Peter Mair che pubblichiamo qui su Caffe' Europa: quello che e' vivo e quello che e' morto dei partiti politici in tutta l'Europa occidentale.

 

Il declino dei partiti

I partiti non funzionano piu’ come agenzie rappresentative capaci di dare corpo alle aspettative di cultura, di classe, del senso di una missione collegata a un disegno unitario, calano gli iscritti e i militanti, diminuisce la partecipazione elettorale, sono sempre piu’ intrecciati con lo stato, dipendono dai fondi pubblici, agiscono come distributori di incarichi di potere in modo sempre piu’ fine a se stesso, si organizzano come macchine attrezzate per gestire le funzioni parlamentari e statali e abbandonano sempre di piu’ la cura per la loro presenza nella societa’ e sul territorio.

In questo processo i partiti diluiscono e perdono la loro identita’, apparendo piu’ che come una parte della societa’ come una parte dello stato. Hanno percio’ diminuito drasticamente o cessato del tutto l’attivita’ integratrice e mobilizzatrice dei cittadini. Cedono la capacita’ di chiarificare e aggregare gli interessi dei gruppi sociali ad altre associazioni non partitiche, a movimenti frastagliati e specializzati, ai media. La gente ha imparato altre strade per farsi valere, e queste strade portano lontano dai partiti. I partiti perdono terreno anche nella formulazione delle politiche, sempre piu’ affidate a gruppi di esperti e a strutture non politiche.

E se le soluzioni ai problemi della societa’ sono sempre meno "partigiane", se la politica di governo si depoliticizza i partiti sono sempre meno necessari. Persino nel reclutamento dei leader i partiti cedono terreno (l’Italia ne sa qualcosa, specialmente sul lato destro dello schieramento). Se vincono le elezioni uomini che con la loro vita rappresentano proprio il contrario della carriera di partito, anche questa funzione appare in difficolta’. Rimane una funzione indiscutibile per cui i partiti, per quanto in crisi di lontananza dalla societa’, sono insostituibili: quella di mezzi procedurali attraverso i quali il sistema democratico funziona.

Non si puo’ e non si potra’ fare a meno dei partiti per organizzare la vita parlamentare ed il governo, per dare vita a coalizioni, per negoziare le procedure legislative, per mandare avanti l’agenda politica. Tutti questi cambiamenti portano i partiti a somigliarsi di piu’ tra loro. Non solo si raffredda la temperatura del conflitto, ma si compete sugli elettorati di confine, quelli piu’ mobili che si spostano sulla base della insistenza sugli stessi argomenti. Quasi tutti i partiti possono ormai gareggiare per la conquista dei voti dell’intero spettro elettorale, si somigliano anche nel modo di condurre la campagna.

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Accade qualcosa che era impensabile anche solo vent’anni fa: diventa difficile mantenere distinzioni di fondo sulla identita’ strategica dei partiti che competono per la vittoria. Sono tutti partiti, almeno potenzialmente, di governo, con l’eccezione di qualche residua ala radicale.

 

Ma servono per governare

A che cosa devono rinunciare, allora, i partiti se vogliono svolgere ancora bene una funzione insostituibile? A mettere radici nella societa’ alla vecchia maniera, a coltivare una identita’ partigiana, a mascherare la estinzione della loro vecchia natura "di massa". Che cosa invece devono coltivare? Il loro ruolo di governo. E devono farlo impegnandosi perche’ l’opera di governo si svolga con procedure trasparenti, eque, responsabili, affidabili, verificabili, e soprattutto si giocano il futuro su una prova cruciale: dimostrare di servire gli interessi della democrazia, del loro paese, dei cittadini e non quelli della classe politica.

Valutata dal punto di vista del ragionamento di Mair la condotta dei leader politici del centrosinistra italiano è disastrosa: la rissa sulle responsabilita’ delle sconfitte elettorali, alle europee e alle comunali, porta in primo piano una battaglia di potere carica di risentimenti e di ambizioni sul suo controllo: D’Alema contro Prodi, Veltroni contro D’Alema, tutti contro il loro avversario giurato nell’ambito del centrosinistra, tutti nemici, tutti necessariamente alleati. È un circuito vizioso che fatalmente risucchiera’, a quanto pare, i leader sindacali. Allo stato dei fatti questi contrasti sono inevitabili e, in una certa misura, riguardano differenze strategiche, non solo personali, ma la loro esasperazione non fa che confermare la convinzione diffusa che la classe politica "sta lavorando per se’".

 

 Se manca il consenso governo bloccato

La vita politica – continuiamo a ripetere – si fa piu’ pragmatica, non sono piu’ i grandi movimenti storici di massa, socialista, cattolico democratico, comunista a decidere i rapporti di forza. Le coalizioni di governo si aggregano in modo piu’ variegato ed hanno un aspetto piu’ precario anche la’ dove non si arriva all’estremo italiano dei forsennati trasformismi di piccole pattuglie "di governo". Tutto vero, ma se guardiamo al principale dei problemi in agenda – la spesa pubblica e le pensioni – ci accorgiamo che la posta è grande, che non è in gioco soltanto l’immagine di un leader e che non si tratta solo della corsa che prepara i futuri schieramenti e le future posizioni di guida. C’è una linea di intervento per ridurre la spesa e trovare risorse da investire per l’innovazione, ma manca il consenso necessario per realizzarla. I sindacati si oppongono e dietro la loro opposizione si affaccia l’insufficienza della maggioranza di governo. È una insufficienza dovuta alla sua eterogeneita’, che gia’ è un problema, ma anche una insufficienza dovuta alla mancanza di consensi, che è un problema ancora piu’ grande. Perche’ mancano i consensi? Perche’, se la linea proposta dal Tesoro coincide con un programma di governo piu’ innovativo, mancano i sostegni a scriverla nel Dpef?

 

L’errore è ideologico

Qui i leader del centrosinistra farebbero bene a non guardarsi in cagnesco e ad affrontare l’enigma per quello che è: la politica non riesce a spremere dalla societa’ italiana consensi sufficienti a spingere verso una economia piu’ moderna, a spostare risorse verso la formazione, a preparare l’ingresso di un paese in ritardo nella societa’ dell’informazione, a proporre ai giovani sempre piu’ delusi un progetto interessante per loro. E i consensi sono indispensabili perche’ un sistema democratico decida, come sono indispensabili per una sinistra che voglia proporsi non solo come un glorioso residuato ma come qualcosa di utile per tutti noi, oggi. Il fatto è che dietro tante proclamate ambizioni di rendere il paese piu’ dinamico e competitivo, sinistra e centrosinistra, nei loro vari settori, non sanno bene che cosa vogliono. Lo diremo in senso contrario rispetto alla corrente dominante: l’errore prima ancora che politico è ideologico. I sacrifici necessari per le aree garantite del pubblico impiego, o per i lavoratori costretti a un anno in piu’ di attesa della pensione, non appaiono compensati, a quasi tutta l’opinione pubblica da un progetto nel quale acquistino un significato. Errore di comunicazione? Mancanza di visione? Quello che vi pare. Ma si capisce bene che i vincoli europei ci costringono a stringere i cordoni della borsa, mentre si capisce meno bene dove questa stretta ci portera’.

L’errore è, dicevamo ideologico, perche’ si è spinta la concezione e la pratica dell’azione di governo verso un pragmatismo alla giornata che presume di rendere inutile una dimensione ideale della politica. È fondamentale la cosiddetta concertazione, vale a dire il confronto tra tutte le rappresentanze degli interessi costituiti, ma non è sufficiente. Oltre al calcolo necessario del dare e dell’avere tra tutte le categorie è indispensabile il confronto sul disegno, sull’immagine del paese che si vuole, sul tipo di economia e di organizzazione dei servizi che si ha in mente. E questa non viene fuori solo dalle trattative tra le parti. Bisogna parlare del futuro davanti all’intera opinione pubblica. Se la soluzione dei problemi strategici dell’economia e della vita civile venisse fuori spontaneamente dai negoziati sul TFR, sul prezzo della benzina o sulla progressione del taglio delle pensioni di anzianita’, basterebbe continuare a negoziare. Di li’ invece non viene fuori, ne’ mai verra’, perche’ la funzione della politica di governo, anche nella sua versione piu’ disincantata, non puo’ limitarsi a fare la somma degli interessi in campo e a tenere la conta dei desideri e delle preferenza di ciascuna parte. La politica deve riuscire a modificarli, interessi e preferenze, attraverso la discussione pubblica sui disegni che propone. L’errore ideologico consiste nel ritenere insignificanti questi disegni. Abbandonare il "grande fiume" della storia non puo’ voler dire mettersi per un cammino senza alcuna direzione. Crisi della identita’ strategica dei partiti non vuol dire che adesso "tutto è permesso". Se dei ragazzi vanno a rischiare la vita sotto le armi per ristabilire l’ordine civile nel Kossovo, lo fanno perche’ è loro dovere ma anche perche’ la cosa un senso ce l’ha. Se chiedi a centinaia di migliaia di persone di sacrificare anche solo in parte dei benefici pensionistici, la ragione per cui glielo chiedi si deve vedere. Glielo devi dire alla televisione, con gli spot, nelle assemblee, girando in pullman, in treno, in elicottero, come ti pare, ma glielo devi dire. Non basta che tu discuta con il loro sindacato sul quanto. Bisogna che tu discuta con tutti sul che cosa, su dove vuoi andare. Ora che la sinistra non ha piu’ le chiavi della storia, il senso del cammino che ha in mente, se ce l’ha, deve farlo vedere tutti i giorni. E se non ce l’ha, per favore si rimetta al lavoro.


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