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Lulu' D'Alema fa la cacca

Roberto D'Agostino

 

 

Immaginiamo un antropologo del prossimo millennio alle prese col nostro fine secolo. Scava negli archivi, raccoglie oggetti, cerca testimonianze di fenomenologie perdute. Il suo sogno è ricostruire la nostra identità contemporanea, chi siamo, qual è la vera cultura del nostro tempo. In una vertigine potrà vedere il numero12 di "Gente". Come si dice, "un numero da collezione". Squaderna infatti "l'intimità di casa D'Alema". Pose ridicole a parte della moglie Linda (foto davanti allo specchio del bagno; lei che gioca sul terrazzo con il cagnone Lulù e sullo sfondo occhieggia lo stendino mollettato di panni, effetto "la Sora Cecioni è viva e lotta insieme a noi"); ebbene, salta immediatamente agli occhi l'identikit di una casa che va al di là del neoclassicismo, sorpassa il neomoderno, svicola il neoprimitivismo, rivitalizza il truciolato Aiazzone, sollecita il tramonto del controsoffitto baroccotirolese. La sinistra italiana nel suo complesso è portata per la cultura, le discipline artistiche, ma non di rado, nei decori degli appartamenti, ci si imbatte in preoccupanti sottoprodotti di mansarde sessantottarde. Case sospettose della luce, agghindate dall'Inferior Decorator con mobilacci "sfigati" e "croste" alle pareti. Si può essere a sinistra di tutto, ma non del buon gusto.

Ma al di là della casa racchia, che cosa è accaduto? Forse è accaduto che, nello sforzo di smuovere le acque stagnanti del consenso nazional-popolare, gli strateghi della comunicazione dalemiana hanno consigliato (a Linda) di aprire la casa alla curiosità famigliare di "Gente" e "Donna Moderna". A Max, invece, hanno suggerito di dismettere la consueta verve da mangiatore di fuoco (parla come se leggesse delle lapidi) e lui ce l'ha messa tutta per rovesciare il suo preambolo da capoclasse in un embolo di sentimentalismo alla "Stranamore". Di colpo, per la rivista "Sette" del Corriere della Sera, l'arcigno "Mago Cremlino" si è travestito da bacioperugina e, come un bambino a scuola che non ha il coraggio di chiedere alla maestra di uscire un momento, ha scodellato uno strepitoso sguardo da digerseltz in direzione del fotografo. Sapete com'è, in politica bisogna essere "commoventi", a portata di mano, "simpatici". Se no il pubblico si abbandona, sonnolento, sul divanetto; se no la gente ti abbandona, annoiata, al mignolo elettorale. Sapete com'è andata: di colpo è apparso, scondinzolante tra le gambe di D'Alema, la labradorina Lulù.

Tremolante in barca (ha seguito un corso di skipper canino), ciabattona sul terrazzo di casa, mesta al guinzaglio, gaudente senza museruola, ma sempre fotogenica come Valeria Marini. Quattro zampe di captatio benevolentia. D'Alema deve aver letto, e bene, quella paginetta di "Striscia la tivù" (Eiunaudi) in cui Antonio Ricci osserva: "Quando sono in crisi creativa, in un momento di stanca, a fine stagione o anche perché mi sento proprio alla frutta, lancio un cane in trasmissione. Con la sua imprevedibilità il cane mette in crisi qualsiasi situazione precostituita. E porta simpatia e spontaneità". Conclude Ricci: "Il cane ha sempre i suoi fan, garantisce sempre l'ascolto". Messaggio ricevuto. Venerdì 29 gennaio il settimanale ecologista "Erba" titola "Da Marx a Lulù: D'Alema e i diritti degli animali". L'intervista scodella il nuovo PC di Presidente del Consiglio; ovvero il PC del politicamente corretto. Il cane, intanto, lo chiama "vivente non umano". Quindi sottolinea che Lulù "in casa esprime un flusso di amore indipendentemente da come ci si comporta con lei". Infine l'articolo è corredato da una fantastica foto che vede Max in bermuda, armato di sacchetto di plastica, intento in una civilissima raccolta delle fastidiosissime tracce organiche lasciate sulla strada dall'incontinente Lulù D'Alema.

Come le vogliamo chiamare? Prove tecniche di seduzione popolare? Oppure: svegliati e sorridi che Max e Lulù stanno arrivando? Si direbbe di sì, almeno a guardare la strombazzatissima visita della famiglia D'Alema chez Wojtyla. Ah, le "papate"... arma nuova per distinguersi nell'orgia di chiacchiere che rallegra i mass media. Per rilucidare l'immagine opacizzata da anni di strapazzi ideologici, tra sciocchezze laiche e sconcezze laide, politici, direttori di giornali, filosofi, cantanti, attori, calciatori, hanno scelto il Papa. San Pietro è l'ultimo domiclio conosciuto per Massimo D'Alema e famiglia, Roberto Benigni e film, Ronaldo e mamma, Vittorio Gassman, il circo di Darix Togni. Intanto il sindaco Bassolino bacia l'ampolla del sangue di San Gennaro, mentre l'Io di Eugenio Scalfari dialoga con Dio e il filosofo laico e omosessualmente dichiarato Gianni Vattimo consegna alle librerie le pagine di "Credere di non credere" e preme per essere ricevuto anche lui da Wojtyla.
Dalla pacchia alla parrocchia. Sicché la "griffe" papalina funziona ormai come una tessera Viacard per ragggiungere il casello del Consenso. Lo choc vivacissimo e oltre-oceanico del fenomeno "Tutti dal Papa" è che non si era mai visto, in passato, laici e laidi, intellettuali e rivoluzionari fare il baciamano a un sovrano cattolico, senza rovesciare protocolli secolari e tirando avanti come se, niente niente, fosse un "compagno di strada". Ricordate il laicismo "peppone" di una volta in preda alla smania di far fuori "Don Camillo"? "Dio, dammi un assegno della tua presenza", scherzava Marcello Marchesi. Beppe Grillo: "Se Dio è onnipresente, il Papa c'è già stato in viaggio". Vincino, vignettista: "Giovanni Paolo II, perché il primo non era riuscito bene". Il neo-convertito Roberto Benigni: "Wojtylaccio l'è un giovanotto vispo, gli piacerebbe andare al bar, son sicuro. E poi evidentemente ha amato, probabilmente anche in senso fisico. Son papetti allegri questi qua".

Ma quanto sono diventati sereni, sobri, virtuosi nel giro di un decennio e quanto sono furbi, smaliziati, disincantati questi ex-mangiacristiani. Sentiamo ad esempio il guru di Rifondazione Comunista, il chachemirizzato Fausto Bertinotti, come rinnega la falce, il martello e se stesso: "Sarebbe bello incontrare il Papa, che rappresenta una grande testimonianza critica del mondo in cui viviamo".
Il cartello della seduzione politica è cambiato, dunque. Al posto di quello legaiolo che diceva, ""Noi vinciamo e gli altri lo pigliano nel culo", ne è stato messo un nuovo che recita: "Se il buonismo è rivoluzionario, la politica è leggera". Un cartello "dietetico" preparato con cura già negli anni Ottanta. Per indurre il pubblico ai consumi il marketing introdusse il concetto di "light". Il consumo eccessivo appesantisce, scatena il cattivo umore e gonfia i trigliceridi. Ma possiamo continuare a consumare sottraendo peso, calorie, sostanza alle cose. La politica ci ha ferito e deluso. I politici ci hanno abituati a non aspettarci da loro altro che iniziatiche allusioni, indecifrabili perifrasi, contorte reticenze, incitamenti al suicidio, circonvenzione d'incapace, falso ideologico, sonnolenza, bolo isterico, offese all'igiene mentale. E' il genere di cose che permettono di essere di cattivo umore, pieni di rancore, di sensi di colpa, depressi per tutta la vita. Ma possiamo riprendere a fare politica se sottraiamo sostanza, peso e spessore al corpaccione granitico dell'intrigo politicante. Con una politica light ricca di baciamani papalini e spot domestici di marmellata-Kitsch possiamo abbandonarci alla bulimia della politica senza conseguenze. E' così leggera questa propaganda che possiamo consumarne quantità industriali senza accorgercene, senza stancarsi e senza sentirci condizionati. Per cui non contano più le idee o gli ideali ma il look delle idee e degli ideali. Avanti allora con la casa racchia di Linda e la cacca di Lulù D'Alema, in modo da rassicurare l'elettorato incerto, e quindi spingerlo al voto, smussando i dissensi e fargli dire: "Credono di essere noi".



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