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Recensione/Sangue vivo


Paola Casella

 

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Sangue vivo, diretto da Edoardo Winspeare, scritto da Giorgia Cecere ed Edoardo Winspeare, con Pino Zimba, Lamberto Probo, Claudio Giangreco, Cinzia Marzo

Ci vuole coraggio, all'interno del panorama minimalista del cinema italiano, a scrivere e dirigere un film a tinte forti, con una trama complessa e caratterizzazioni estreme, quasi archetipali, come Sangue vivo, scritto (con Giorgia Cecere) e diretto da Edoardo Winspeare, coraggioso fino all'incoscienza, esattamente come il suo protagonista, Pino Zimba (stesso nome comune, stesso cognome esotico nel film e nella vita).

Sangue vivo è una vera e propria tragedia greca ambientata nel Salento, dove la componente grecanica fa ancora parte della lingua locale (non chiamatela dialetto), quella lingua che nel film è sottotitolata solo quando diventa davvero incomprensibile: una scelta intelligente, più ancora di quella di La CapaGira, perchè costringe gli spettatori a fare lo sforzo di capire e gradualmente imparare un altro idioma, che è un modo di entrare in un altro universo.

Perché i personaggi del film, il loro modo di vivere, la loro cultura, il loro sangue vanno capiti (o meglio, assorbiti, senza filtri critici) a poco a poco, accettando le loro premesse, stando alle loro condizioni: e infatti la sceneggiatura fa apposta a raccontarceli a spizzichi e bocconi, a chiederci di accogliere, prima ancora di aver capito chi sono, i protagonisti della storia: il cinquantenne Pino Zimba - musicista per vocazione, contrabbandiere per necessità, uomo di famiglia per scelta - e il fratello trentenne Donato - musicista per istinto, disoccupato per circostanze ambientali, irresponsabile per rassegnazione. Lamberto Probo, che interpreta il ruolo di Donato, nella vita è tamburellista, come Zimba: entrambi fanno parte del gruppo Officina Zoè, che ha fatto riscoprire a un'intera generazione di giovani il fascino irresistibile della musica popolare salentina, in particolare della pizzica - a spanne, la declinazione locale della tarantella, anche se Zimba vi strangolerebbe se gliela descriveste così.

La storia è quella del rapporto difficile e sofferto fra Pino e Donato, che è anche lo specchio del contrasto fra due generazioni: anzi tre, perchè dietro ai due fratelli si agita il fantasma del padre, morto in un incidente del quale Pino si sente responsabile. E' la metafora del Sud d'Italia, e non solo quello pugliese: i 50enni hanno abbandonato (qualche volta rinnegato) la cultura atavica paterna per una promessa di modernizzazione che, invece di tradursi in progresso, si è trasformata in faglia culturale (con corollario di rimorsi e rimpianti), e i 30enni scontano questa frattura in termini di sfiducia cosmica nelle proprie possibilità, diventando facili prede della criminalità e della droga.

La metafora è resa ancora più efficace dall'utilizzo narrativo della musica come filo conduttore fra passato e presente, un filo spezzato che Pino Zimba tenta disperatamente di riallacciare, sapendo che è l'unico modo di riportare a sè (alla tradizione, alla terra, alla famiglia) il fratello minore, "il miglior tamburellista del Salento", che però all'estasi indotta dalla pizzica preferisce quella indotta dall'eroina, con l'incoraggiamento di uno spacciatore che è la personficazione della distruzione, propria e altrui (interpretato da Claudio Giangreco con un desiderio di riscatto talmente disperato che risulta commovente persino in un "piezz'e merda" come lui).

A fare da contorno alla vicenda di sangue fra Pino e Donato (nel senso di vicenda fra consaguinei, ma anche di sanguigna e cruenta), ci sono una serie di figure estremamente riconoscibili per chiunque abbia soggiornato di recente nel Sud, soprattutto figure femminili: la moglie di Zimba (Lucia Chiuri), bionda e permanentata, dalle ambizioni (l'anelito a quella qualità che "in paese nessuno capisce") perennemente frustrate, il cui rapporto col marito mescola orgoglio (per la sua abilità di musicista) e vergogna (per le sue attività illecite). La madre di Pino e Donato (Addolorata Turco), straordinariamente credibile nel suo ruolo di classica mamma meridionale che da un lato perdonerebbe ai figli maschi qualunque manchevolezza (quando la nuora accusa Zimba di mettere a repentaglio l'intera famiglia, la suocera si limita a osservare che "non ha tutti i torti"), dall'altro è un pilastro di saggezza e pragmatismo.

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L'ex fidanzata di Donato (Cinzia Marzo, nella vita cantante dell'Officina Zoè) è invece un esempio di donna del Sud contemporanea, dignitosa ed equilibrata, capace (con quell'istinto olistico tutto femminile) di comprendere in sé passato e presente, senza soluzione di continuità, senza traumi. Così come la sorella di Pino e Donato (Chiara Torelli) riesce ad "emanciparsi" dal paese senza rinnegarlo (e va a letto con il fidanzato discografico solo quando lo decide lei, nonostante abbia bisogno di lui per procurare a Zimba il contratto che può salvarlo dalla miseria).

Altrettanto riconoscibili e vere sono le figure maschili degli "amici" di Donato, vitelloni disoccupati completamente emasculati non dalle donne ma dalla frattura culturale che li ha scissi dai loro padri (cioé dalla loro tradizione etnica): il figlio del medico (Alessandro Valenti) debosciato e pavido, lo squinternato perdigiorno (Ivan Verardo) privo di direzione (e di quell'elementare senso dell'onore che fa di Zimba un uomo perbene, anche quando compie azioni permale). Così come vero e credibile è il ritratto della Puglia contemporanea, dove convivono salentini doc, immigrati nordafricani e albanesi, ricchi e poveri, laureati e spacciatori, vecchie contadine vestite di scuro e giovani punk con i capelli gialli, Sacra Corona e nuova criminalità, quelle sì perfettamente in grado di integrarsi a vicenda.

Al centro della vicenda c'è Zimba, eroe di mezza età, hombre vertical, titano che porta sulle spalle il peso del mondo (o almeno, del suo mondo, fatto di moglie, figli, amante, madre, fratello), faccia intensa e dolente che incarna la componente tragica della vita (intesa come imprescindibile dall'esistenza), così come la sua espressione trasfigurata mentre suona rappresenta la passionalità insopprimibile dello stare al mondo. Zimba può perdere tutto, ma non la propria dignità. Donato invece è il figlio indegno (o almeno così si sente), che pensa di non meritare niente: la musica, la terra, l'amore della sua donna, il rispetto del fratello maggiore.

La forza di Sangue vivo (e la bravura dei suoi interpreti, nessuno dei quali è attore professionista) sta nell'affrontare di petto le caratterizzazioni dei protagonisti ma anche nel tratteggiare i personaggi di contorno con una pennellata sola, quella sì minimalista, all'interno di un murale a colori primari: Un esempio per tutti? Il discografico del Nord (che potrebbe essere di un posto qualsiasi al nord di Lecce), delineato da una serie di brevissime inquadrature: lui che si infastidisce davanti alla provincialità del paese, lui che si spazientisce perché il concerto non comincia, lui che flirta con una ragazzetta, lui che rimane incantato dal ritmo della pizzica, lui che incassa il rifiuto della fidanzata "locale". Poche inquadrature che ce lo raccontano superficiale, snob e vanitoso, ma anche capace di apprezzare la buona musica e una donna di carattere.

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E poi ci sono i dettagli acustici - come i respiri dei personaggi, udibili da soli nelle scene più intense - e quelli visivi - il graffito sul muro, la scritta sul telefono pubblico, il santino dipinto sulla pietra, disseminati con apparente casualità, a testimoniare secoli di iconografia popolare spontanea.

Il tallone d'Achille (visto che alla mitologia classica Sangue vivo attinge spesso e volentieri) sono invece certe sottolineature forzate, come l'uccisione del cane da parte dello spacciatore (Giovanni è proprio perfido), l'ambientazione della scena fra Donato e Giovanni in un uliveto (Getsemani), l'abbattimento del muro a martellate da parte di Donato (Zimba costruisce, Donato distrugge).

Che Winspeare sia un regista di sicuro talento lo dimostra comunque la sua capacità (di nuovo, il coraggio) di utilizzare tecniche (di ripresa, di illuminazione) e immagini fortissime (primissimi piani, composizioni prese a prestito dall'iconografia religiosa) con estrema disinvoltura (il che non vuol dire con leggerezza o mancanza di rispetto). Notevole anche l'assenza, nel lavoro di un regista così "etnico", di quel compiacimento folkloristico che compiace il mercato cinematografico straniero, soprattutto americano (e ciònonostante i film di Winspeare sono più apprezzati all'estero che in Italia, soprattutto negli Stati Uniti). Da antologia del cinema la scena del trip di eroina, che combina musica (o meglio, ritmo) e immagini passando da oggettiva a soggettiva per consentire allo spettatore di condividere il "salto" sensoriale dell'eroinomane al momento della "messa in circolo".

E' vero, ci sono momenti in cui Sangue vivo, più che una tragedia greca, sembra un melodramma. Momenti in cui il pubblico, soprattutto quello da Roma in su, pensa che si sia oltrepassato il limite e sconfinato nel ridicolo, più per disagio di fronte all'estremizzazione drammatica che per vero e proprio spirito critico. Ma è il rischio che si corre quando si parla di temi ancestrali in modo appassionato e diretto. Per apprezzare Sangue vivo bisogna sospendere ogni pregiudizio, accettare la violenza (e la poesia) delle immagini, abbandonarsi al ritmo sfrenato della tamburellata: come direbbero nel Salento, bisogna lasciarsi "attarantare".

 

 

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